NON HANNO DIRITTO DI PAROLA

Un uomo muore sul lavoro. Più precisamente, incorre in un gravissimo infortunio sul lavoro – perde un arto – e per questo viene portato a casa (la consegna a domicilio includeva il braccio amputato, con l’attenzione che fosse custodito in un contenitore con del ghiaccio all’interno) e ivi abbandonato. Parafrasando un personaggio di un romanzo di Cormac McCarthy, chi potrebbe inventarsi una storia simile? La sua inverosimiglianza, che precede di gran lunga il tratto di assoluta disumanità che l’accompagna, è tale da soppiantare l’indignazione, merce ormai avariata e destinata alle procedure di resa come bene deperibile e non trattabile diversamente. Che una notizia venga presa per vera, quale è, per quanto incredibile possa essere e, anzi, proprio perché non merita fede chi crei dal nulla una cosa così fuori dalle coordinate della vita civile, è una delle più efficaci dimostrazioni della separazione tra le vite di ognuno singolarmente e quelle degli altri nel loro complesso.
Quello che, però, dovrebbe provocare reazioni in vari modi e misure (ivi compreso l’insulto, possibilmente in modo pubblico e palese) non è tanto la situazione in cui si è verificato questo orrendo fatto di vita ordinaria. Con ciò si intenda (si deve, intendere) l’esortazione a ricordare che quanto accade in agricoltura – e non tanto diversamente nell’altra realtà di veterocriminalità che è l’edilizia – e cioè l’esistenza del caporalato, altro non è se non uno dei tanti effetti delle politiche di una sinistra che non merita l’uso della maiuscola, in punto di mercato del lavoro, flessibilità e schifezze del genere, messe in atto sul finire degli anni ’90 dello scorso millennio.
Sarà compito della Magistratura stabilire se a carico dei titolari della cooperativa (ennesima parola di nobili origini, insozzata dall’uso fatto negli ultimi decenni) possano muoversi responsabilità per quanto accaduto e su questo, costoro hanno pieno diritto di difesa e, dunque di parola, anche se nella memoria di chi ha qualche esperienza processuale, rimane il celebre ammonimento di un vecchio consigliere di Corte d’Appello, il quale amava ripetere che “l’imputato deve stare zitto.”
Altri tempi. Tempi nei quali più spesso accadeva che, essenzialmente per motivi culturali, il cittadino accusato di un reato non fosse in grado di difendersi o, al contrario, che Tizio fosse talmente pieno di sé da disattendere i consigli del legale di fiducia e, parlando oltre il dovuto, finiva col mettersi da sé le manette. L’imputato taccia e lasci parlare i difensori, se hanno di che dire – o chiedere. Tuttavia e fuori dall’aneddotica, coloro che saranno chiamati a rispondere di quanto accaduto hanno, in piena vigenza di legge, il diritto di essere considerati innocenti fino a condanna irrevocabile e di difendersi nel pieno rispetto delle leggi – di tanto in tanto, dovrebbero anche ricordare le opinioni dei rappresentanti politici che verosimilmente votano, in materia di giudizi sommari e chiavi da buttare via. Ma il loro diritto di parola, comincia e finisce lì, all’interno di un’aula giudiziaria e riguarderà le modalità di come si svolgesse l’attività lavorativa.
Che a qualcuno, direttore di testata, caporedattore, giornalista, venga anche solo in mente di andare a intervistarli, nella ributtante logica imperante per cui ogni opinione meriti lo stesso rispetto, a dare la parola a gente accusata non tanto e non solo di avere sfruttato esseri umani come bestie da soma (circostanza ancora da dimostrare in via definitiva), ma di averli abbandonati feriti e morenti, invece di portarti al pronto soccorso, è cosa che suscita più di qualche perplessità sul livello base di civiltà di chi gestisce le notizie. Nel frattempo, qualcuno dovrebbe dirlo: poiché il disgraziato non è arrivato a casa con mezzi propri e, dunque, qualcuno ce l’ha portato (e QUESTO è irrevocabilmente vero), coloro che hanno omesso un gesto di basilare umanità, che susciterebbe impressione anche se si fosse trattato di un cane, il diritto di parola non ce l’hanno, non hanno diritto di esprimersi e chi si presti a dare loro voce su quello specifico fatto dovrebbe vergognarsi, a un livello molto simile a quello della correità.

Cesare Stradaioli