I VERI MASCALZONI

Farebbero bene a misurare le parole – non esprimerne alcuna sarebbe meglio – molti dei miei corregionali, a proposito dell’inchiesta giudiziaria che sta investendo in maniera pesante l’amministrazione di una delle città simbolo del nostro Paese. Anzitutto, dovendo tenere a mente il principio di civiltà (ultimamente utilizzato come un maglioncino di flanella, da indossare o meno a seconda del fondo dell’aria) che si rifà alla presunzione di innocenza fino a eventuale condanna definitiva, il che conferisce al sindaco di Venezia e agli altri funzionari comunali quelle garanzie che non pochi dei loro sodali di partito tendono a negare ad altri tipi di cittadini inquisiti, regolari o meno. In secondo luogo – qui verrebbe in soccorso il senso di opportunità e il bel tacere – perché per quanto banale possa essere ricordarlo, va sempre tenuto a mente come nel nostro Paese da qualche decennio di tengono libere elezioni, sostanzialmente corrette dal punto di vista formale. Il che sta a significare che lor signori stanno dove stanno non perché si sono presi il potere con un colpo di mano ma perché qualcuno li ha votati. 
Se non che, ad aiutare gli italiani sconvolti dagli scandali di inizio anni ’90, a guardare da un’altra parte, oppure il solito dito o fare finta di non vedere, è intervenuto il fortunatissimo lavoro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Che fosse o meno nelle loro intenzioni, se fossero o meno consapevoli di essere in procinto di ingenerare e diffondere una delle più gigantesche frodi intellettuali, è ormai questione di poco conto, tanto quando domandarsi se chi ha aperto la stalla si fosse prefigurato le conseguenze del proprio gesto.
A ben guardare, la frode si trova già nel titolo e questa è l’ennesima dimostrazione dell’avvilente retrocessione culturale che sta affliggendo l’Italia: c’è da chiedersi come sia stato possibile che, autori a parte, non vi sia stato nessuno nella catena editoriale (non in quella che si occupa di vendere automobili o partite di frutta e verdura, con tutto il dovuto rispetto) a fare notare che chi domina una casta lo fa per diritto ereditario o divino – comunque di nascita – quindi senza nessuna procedura appena appena democratica, contrariamente appunto al processo elettorale che porta quei rappresentanti politici locali e nazionali, protagonisti del libro, a essere indagati (e/o condannati) per corruzione in ragione della carica che ricoprono. Distrazione a parte, la frode è evidente: il punto centrale dell’operazione di sviamento, che poi è divenuto rapidamente un refrain buono per tutte le evenienze, insinua, instilla e infine inietta il concetto che il potere di costoro sia uno stato delle cose immanente e inevitabile come un temporale che minaccia un picnic.
Titolo a parte, il concetto di fondo, granitico nel suo essere diventato luogo comune, è tanto noto quanto sintetico: i politici rubano. Punto. Che brutta gente, i politici. Punto. La straordinaria operazione di rimozione a livello di massa, poche volte vista in questa forma e risultato, ha fatto sì che fosse trascurato il fatto, piuttosto elementare anche spiegato a un bambino di pochi anni, che se c’è qualcuno che riceve un cavallo ci deve per forza di cose essere qualcun altro che glielo dà. Non lo ammise molti anni fa, nel formidabile candore del caimano che giustificava la propria discesa in politica, Silvio Berlusconi, quando ricordava con incredibile (per un Paese normale) improntitudine e faccia tosta che ‘quella volta’ – intendeva prima di Mani Pulite – bisognava presentarsi al tale assessore o faccendiere ‘con l’assegno in bocca’? Sparita la mano che porge, è rimasta quella che prende e nel marasma degli scandali si perdono le tracce dei corruttori e con esse la constatazione che rimane negli archivi statistici per la quale non risulta affatto automatico che sia il funzionario pubblico a esortare la dazione, dandosi spesso l’iniziativa dell’imprenditore che vuole l’appalto, o del semplice cittadino che vuole saltare la fila. Lo stesso cittadino che oggi si indigna per l’inchiesta sul Comune di Venezia.
Per questo, gli elettori che hanno votato – due volte – Luigi Brugnaro dovrebbero pesare le parole: se un domani lui insieme ad altri o da solo dovesse essere condannato per corruzione, l’inevitabile epiteto, mascalzoni, andrebbe finalmente e una buona volta a stretto giro indirizzato anche e soprattutto a quelle decine di migliaia di mascalzoni che li hanno mandati a governare la loro città: corruttori forse, votanti consapevoli di sicuro.

Cesare Stradaioli