IL DIRITTO CHE NON C’E’

Ora che Israele si è definitivamente messo di traverso riguardo all’ONU – ha pure sparato; metaforicamente, in direzione del Palazzo di vetro: direttamente, verso militari ivi mandati a presidiare non si capisce bene cosa – è giunto il momento di qualche riflessione, la più importante, nonché più semplice delle quali è la seguente: il diritto internazionale non esiste. L’opinione pubblica se lo deve mettere in testa una volta per tutte, senza dare retta a rappresentanti politici o burocratici (eletti o meno non fa alcuna differenza): sono gli stessi che parlano di Europa Unita ed è come se taluno desse del vivo e vegeto a un corpo neppure venuto alla luce; né ascoltino il cattedratico di turno, il dotto, medico e sapiente come narrava Edoardo Bennato: studiosi, molti di loro di indubbia fama e onestà morale, che debbono pure dare un senso (anche solo come auspicio) ai propri studi e ai loro ruoli in questa o quella facoltà di Giurisprudenza o Scienze Politiche.
Il diritto civile, come quello penale, come qualsiasi altro corpus organico di norme (fosse anche lo statuto di un’associazione calcistica) prima di ogni altra cosa si basa sull’effettività e qui c’è bisogno di rileggere Hans Kelsen o, almeno, farselo spiegare. La norma, una qualsiasi norma che prescriva un comportamento o ne sanzioni la relativa inosservanza, esiste in quanto è effettiva, vale a dire tanto quanto viene riconosciuta, rispettata e venga punito chi la violi. Se le condanne previste dall’articolo 575 del codice penale, che inizia con “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” non fossero mai eseguite, l’assassinio non sarebbe più tale e la norma che punisce l’omicidio perderebbe di effettività diventando lettera morta. Allo stesso modo, un semaforo non rispettato da nessuno a prescindere dal colore, con la viabilità dell’incrocio rimessa a piacimento di chi si trovi a passare non sarebbe altro che un marchingegno elettromagnetomeccanico che emette luci di nessun significato per chicchessia. Mancherebbe di effettività, la norma del codice della strada che punisce chi passa col rosso.
Senza risalire molto lontano – tempi nei quali, peraltro, le dichiarazioni di guerra erano ufficiali e godevano anche di un certo e consolidato rituale – già le atomiche su Hiroshima e Nagasaki sapevano di abuso del diritto internazionale, per non parlare di crimini di guerra Da lì in avanti non c’è stato anno, per non dire mese, in cui i rapporti fra Stati sovrani non ne abbiano visto palesi e reiterate violazioni se non totale disinteresse per le istituzioni poste a tutela. Nel caso specifico, a titolo di esempio, Israele non riconosce il Tribunale Internazionale de l’Aja e già dalla sua fondazione ufficiale, 1948, non rispetta in alcun modo le Risoluzioni delle Nazioni Unite.
Prima di procedere oltre, va chiarito un punto; è il diritto internazionale pubblico a non esistere, in quanto non effettivo: quello privato, commercio e finanza sotto forma di trattati, accordi bi o multilaterali, contratti, scoppia di salute – business are business e chi non ci creda vada a rivedersi il monologo di Ned Betty in “Quinto Potere”, 1975 – al punto tale che ovunque i brand delle multinazionali hanno preso il posto degli Stati sovrani, mettendone nell’ombra nomi e bandiere. 
Detto ciò, suona patetico e sarebbe ridicolo se non fosse sovrastato dalla tragedia, il sommovimento di sdegno da parte della stampa internazionale e di qualche sparuto ministro seguito all’azione di guerra portata dall’esercito israeliano verso il contingente Unifil in Libano. La sorpresa che porta allo sdegno è insensata; Israele si sente – come dargli torto e chi potrebbe? – così impunita da avere l’ardire di precisare, non senza un tocco di condiscendenza, di avere ordinato al contingente delle Nazioni Unite, trattato alla stregua di un furgone portavalori, di spostarsi dalla linea di tiro. Insomma, hanno avvisato prima di aprire il fuoco, che gli si renda merito: di che si lamentano i soldatini in blu?
A parte queste brevi considerazioni, è vero che ricordare ai ben svegliati dell’ultima ora i 40mila e passa trucidati da un anno in qua oltre alle centinaia di migliaia di profughi, ben più importanti dell’onore perduto dell’ONU, potrebbe sembrare un po’ come sparare sulla Croce Rossa (usanza che i soldati della stella di David praticano da decenni, a proposito di rispetto delle regole) e tuttavia bisogna farlo; non si possono sentire simili lamentele dopo che militari e coloni israeliani hanno fatto quello che hanno voluto, non dal 24 ottobre 2023, ma negli ultimi quasi ottant’anni, armati e sostenuti dall’Occidente e guai a criticare: lo stigma dell’antisemitismo è sempre pronto all’uso.
Chiedersi dove arriverà Tel Aviv in questa scellerata opera di pulizia etnica è un mero esercizio di stile, tanto clamoroso quanto sterile: arriverà fin dove lo riterrà di convenienza, badando come ha sempre fatto esclusivamente ai propri interessi; non si ricorda che un barlume di cooperazione internazionale abbia disturbato i pensieri di chi ha ricoperto la carica di primo ministro dello Stato ebraico. D’altronde, anche se decidessero di cessare il fuoco e anche se si ritirassero al di qua dei propri confini – conquista significa controllo del territorio e per quanti aerei da combattimento o bombe di alta efficacia si posseggano, la si realizza mettendo gli scarponi sul terreno e organizzando il comparto amministrativo e Israele non conta sufficienti milioni di abitanti per farlo – lascerebbero in ogni caso dietro di sé morte, devastazione, odio invincibile: non desidera di meglio, chi vuole un Jihad. Gli integralisti religiosi abbisognano di martiri, che siano ostaggi o attentatori votati al suicidio.
La guerra in Medio Oriente è appena cominciata. Bisogna farsene una ragione e regolarsi di conseguenza, mettendo da parte i manuali di diritto internazionale.

Cesare Stradaioli