Non si dovrebbe dare spazio a luoghi comuni, ma che solo in Italia possa vincere le elezioni regionali un candidato della stessa coalizione alla quale apparteneva il predecessore, dimissionario in quanto responsabile di corruzione, è cosa talmente anormale, da essere da lungo tempo diventata normale. E in punto di normalità, non si può trascurare uno degli argomenti che devono avere avuto per forza di cose un peso, nelle recenti elezioni in Liguria: il dimissionario ex presidente Giovanni Toti non è colpevole, in quanto il patteggiamento (tecnicamente: applicazione pena su richiesta delle parti) non è ammissione di responsabilità.
Una delle principali voci contrarie a questa affermazione è stato senza dubbio Marco Travaglio: il quale, però, ha torto pur avendo ragione, mentre coloro che sostengono l’innocenza di Toti hanno ragione ma hanno torto. Sono le storture di questo meraviglioso Paese, ma il fatto è che hanno torto e ragione entrambi, dal momento che l’istituto del patteggiamento – artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale – prevede anche il fatto che l’imputato, non solo non ammetta alcunché, ma neppure si presenti in aula, delegando quella che altro non è che una trattativa al mercato delle vacche al proprio difensore, il quale intraprende un dialogo al ribasso e al rialzo con il Pubblico Ministero di turno fino a quando non venga raggiunto un accordo sulla pena; il tutto, poi, finisce sul tavolo del Giudice che, nella stragrande maggioranza dei casi, non vede l’ora di liberarsi di un procedimento e, considerando equo l’accordo, applica all’imputato la pena di giustizia.
Le parole hanno un peso: non è una sentenza di condanna, poiché per l’appunto il Giudice applica e in questo senso ha torto Travaglio e hanno ragione i corifei del centrodestra; peraltro, questo provvedimento (usiamo un termine anfibio così almeno su questo non vi è discordanza: è sicuramente un provvedimento) se ne va nel casellario giudiziario, pur con la pena sospesa; e qui ha ragione Travaglio e torto gli altri, dal momento che se l’ex imputato dovesse riportare un’altra condanna (o gli fosse applicata) un’altra pena e la sommatoria superasse i due anni di reclusione, gli verrebbe revocata la sospensione condizionale.
Mettiamo da parte Travaglio e il centrodestra: il problema è che la frenesia legislatoria italiana, un tempo sì pomposa ma almeno corretta, oggi sciatta, verbosa e pasticciona, genera mostri e nel caso Toti uno di questi è il patteggiamento. Un cittadino viene accusato di un reato: patteggia e per questo stesso fatto si generano fazioni su cosa significhi. Ma se la faziosità è uno stimma indelebile, l’elefantiasi legislativa (per dirla con Franco Cordero), unita al protagonismo interpretativo della Cassazione – in altri termini si dovrebbe dire tenace volontà di non schiodarsi da certi stilemi – fa la sua parte. Vediamo qualche mostro.
1989: proprio l’articolo 444 di un codice appena entrato in vigore prevede la riduzione di pena fino a un terzo. Il che starebbe a dire che, a titolo di esempio, una pena di 6 anni potrebbe essere patteggiata fino a due, cioè fino a un terzo, anche sulla scorta dell’art. 67 del codice penale che vive e lotta insieme a noi dal 1930, per il quale, per quante attenuanti ci siano la pena non può essere diminuita oltre un quarto, vale a dire da 4 anni si scende al massimo fino a 1, cioè un quarto.
Ma quando mai, interloquisce la Cassazione a tempo di record – erano passati pochi mesi: la preposizione fino a riguarda la quantità di diminuzione, non la pena finale: dunque da 3 si scenda a 2 e non a 1. Non c’è stato verso di fare osservare come nel caso di processo abbreviato, la pena può essere ridotta di un terzo e con questo per l’appunto intendendo da 3 a 1, da 12 a 8 e così via, come volete voi: insomma fino a significa una cosa, di ne vuole dire un’altra. Neanche per idea e piantatela qui; diventano sinonimi: l’ha stabilito la Corte di Cassazione e così sia. O, in altri termini, de albo facit nigro, come amava ripetere il succitato Maestro.
Procediamo. Ai sensi del codice di procedura penale, oggi nel nostro Paese un cittadino può finire davanti a un giudice nei seguenti modi:
– citazione diretta e dibattimento
– citazione diretta e processo abbreviato avanti lo stesso giudice
– udienza preliminare e poi dibattimento
– udienza preliminare e processo abbreviato avanti lo stesso giudice
– giudizio immediato, dal quale può derivare un giudizio abbreviato ovvero il dibattimento vero e proprio
– giudizio da opposizione a decreto penale di condanna (che, se non opposto, genera un giudizio dibattimentale oppure un giudizio abbreviato).
In tutti i casi, c’è sempre la possibilità del patteggiamento.
Evidentemente, immettere tutti i reati avanti un giudice preliminare per poi smistarli in sole tre ipotesi (patteggiamento, giudizio abbreviato, giudizio ordinario) poteva suscitare sospetti di superficialità e scarso approfondimento dei meandri giudiziari. Non sia mai e così, contrariamente al principio di natura per il quale la funzione sviluppa l’organo, qui l’organo sviluppa la funzione (e le norme).
Passiamo a un altro esempio e poi può bastare.
Fino a qualche anno fa, poteva ancora essere chiesto il giudizio abbreviato anche in caso di omicidio che prevedesse la pena dell’ergastolo. Trattandosi dell’opzione con la famosa riduzione di un terzo, non risulta che nessuno, neppure nell’ambito delle menti già raffinate di commentatori e interpreti, abbia posto la questione come diavolo fosse possibile, come di fatto si faceva, ridurre dall’ergastolo (pena perpetua) a 30 anni di reclusione con … la riduzione di 1/3.
Scartata questa ipotesi – non per manifesta illogicità del tutto ma solo per venire incontro al populismo giustizialista all’amatriciana, che riteneva poca roba una condanna a 30 anni di reclusione – è tutt’ora passibile evitare la pena per omicidio aggravato, che comporterebbe l’ergastolo con isolamento diurno (quello notturno va in automatico) con la riduzione, in prevalenza di attenuanti, generiche o speciali, all’ergastolo senza isolamento diurno: sempre col solito 1/3 in meno, che è la riduzione standard in presenza di un’attenuante prevalente.
Abbiamo provato a dare un’idea del marasma in atto, ora riassumiamo: il signor Giovanni Toti, già presidente della Regione Liguria, ha dato mandato ai propri legali di cercare un accordo – poi trovato – col PM al fine di sottoporre al Giudice – che l’ha ritenuta congrua – un’applicazione pena su richiesta delle parti, con pena sospesa.
Si dirà: non si è difeso, da accuse infamanti, quali dovrebbero essere qualificate quelle a carico di rappresentanti politici eletti, cioè destinatari di un voto di fiducia e onerati, secondo la Costituzione, a operare nella propria carica con onore e onestà. Verissimo. Ma non ha ammesso nulla.
Risultato: è più che probabile che non pochi elettori abbiano ritenuto l’ex Presidente della Liguria una vittima del sistema giudiziario, costretto a lasciare l’incarico, a seguito di accuse che non sono sfociate in una sentenza di condanna. Anzi, per il vero, tecnicamente non c’è stata alcuna sentenza – ricordate che si chiama applicazione di una pena?
Almeno di questo, non è responsabile il dimissionario.
Cesare Stradaioli