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SEPARANO PER RIUNIRE

Fa specie – ma non sorprende – che all’interno dello schieramento critico avverso la richiesta di sei anni di reclusione, formulata dalla Procura di Palermo nei confronti di Matteo Salvini, si trovino nomi di giuristi e avvocati: soprattutto nell’accusare i Magistrati (in toto: confondono le funzioni) di trascurare la ricerca della verità, lasciando il posto ai propri pregiudizi ideologici: qualsiasi pratico della materia sa bene come scopo del processo non sia la ricerca della verità, quanto l’accertamento dei fatti. Situazioni, queste, non di rado del tutto diverse nelle conclusioni; una sequela di Giudici, dal primo grado alla corte di cassazione assolve l’imputato Tizio: se ne vada libero. Ciò significa che da adesso, se non anche da prima, un assassino circola impunito per le nostre strade, dal momento che una vittima di omicidio pur sempre c’è, il che è un dato di fatto, cioè la verità storica (Caio è stato ucciso). Ma quello che hanno fatto i giudici è stato accertare i fatti sulla base delle risultanze di indagine e dibattimentali: lavorino meglio gli investigatori e se dovessero trovare nuove prove verso Tizio o ne avessero di inconfutabili verso Sempronio, ecco che in questo caso accertamento – futuro – dei fatti e verità storica coinciderebbero.
Molte di queste critiche, perciò, sono chiacchiere, le quali però hanno il proprio peso, a prescindere da chi le diffonde e dal suo livello culturale, spesso in gara con l’onestà personale.
Riassumiamo, per i distratti e coloro che hanno avuto altro da fare: la procedura penale è, tutto sommato, cosa scarna – Franco Cordero la definiva arnese.
L’ufficio della Procura della Repubblica, di stanza presso ogni Tribunale, riceve una notizia di reato – notitia criminis: definizione non proprio corretta, che dà già per stabilito trattarsi di un fatto penalmente illecito – e a meno che questa non denunci il furto della Fontana di Trevi o un sequestro di persona compiuto da alcuni alieni provenienti dallo spazio profondo, viene aperto un relativo fascicolo, stante il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: segue l’incarico a un pubblico ministero (gerarchicamente: Sostituto del Procuratore Capo) il quale coordina le indagini, al termine delle quali o chiede l’archiviazione del procedimento ovvero che si vada a giudizio, nelle fantasiose e molteplici forme previste da un codice cervellotico.
Giunti alla fase finale del processo, il pubblico ministero rimane della propria opinione e chiede la condanna che ritiene di giustizia ovvero (caso per nulla raro) le risultanze processuali lo convincono a chiedere l’assoluzione per l’imputato.
Sappiamo bene cosa alligni, ogni qual volta un rappresentante politico – per la più gran parte dei casi quando si tratti di qualcuno schierato da una certa parte dell’emiciclo – viene interessato da indagini che non abbiano a oggetto fatti estranei alla sua veste pubblica: la separazione delle carriere in Magistratura. Firme illustri della processualpenalistica hanno avuto modo di sostenere come non sia poi una cosa così grave: chi intraprenda la carriera in magistratura decida ora e per sempre se farà l’accusatore o il giudice, non potendo più cambiare idea, pur che le due diverse funzioni rimangano indipendenti nel loro fare capo al potere giudiziario.
La tesi convince fino a un certo punto; se ho il sospetto che il giudice odierno, essendo stato pubblico ministero, covi in sé la mentalità del colpevolista a prescindere, questo concerne la più generale sfiducia nella funzione della giustizia, più che nelle persone. Ora, se in me albergasse lo spirito del giudice Roy Bean – L’uomo dai sette capestri, magnificamente reso sullo schermo da Paul Newman – mi guarderei bene dal lavorare in Procura, dal cui scranno in aula posso solo chiedere la pena di morte, preceduta da orribili torture, per restarmene tutta la vita a emetterle, quelle sentenze, anche se non richieste (principio del libero convincimento del giudice); ma, a prescindere da ciò, che in caso di separazione le due funzioni rimangano indipendenti dal potere politico (si chiamavano Procuratori del Re) è utopia da quattro soldi, tenuto conto del livello della classe politica italiana e il tutto si riduce al fatto che qualcuno intende riportare l’ufficio della Procura sotto il diretto controllo del ministro della giustizia, vale a dire del governo pro tempore in carica, vale a dire separare il potere giudiziario e sottometterne una parte a quello esecutivo. Tale fase porterebbe a una riunione di poteri o, in altre parole, a una forma di governo autoritaria. Il che avrebbe, come prima conseguenza, la discrezionalità dell’azione penale: si persegue chi decide il pubblico ministero, che però non sarebbe più indipendente, bensì risponderebbe a un super potere esecutivo, che già ora e da molto tempo ha ‘sterilizzato’ quello legislativo a colpi di decreti legge e richieste di fiducia (oltre che dall’idiota dimezzamento del numero dei parlamentari) e con questo ritengo che ogni altro discorso sia superfluo.
Chi sostenga che sia anche solo pensabile evitare tali conseguenze, non sa di cosa parla o vuole esattamente quello.

Cesare Stradaioli

 

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