LO STRANO CASO DEL COLPEVOLE INNOCENTE (E DELLA FANTASIA LEGISLATIVA ITALIANA)

Non si dovrebbe dare spazio a luoghi comuni, ma che solo in Italia possa vincere le elezioni regionali un candidato della stessa coalizione alla quale apparteneva il predecessore, dimissionario in quanto responsabile di corruzione, è cosa talmente anormale, da essere da lungo tempo diventata normale. E in punto di normalità, non si può trascurare uno degli argomenti che devono avere avuto per forza di cose un peso, nelle recenti elezioni in Liguria: il dimissionario ex presidente Giovanni Toti non è colpevole, in quanto il patteggiamento (tecnicamente: applicazione pena su richiesta delle parti) non è ammissione di responsabilità.
Una delle principali voci contrarie a questa affermazione è stato senza dubbio Marco Travaglio: il quale, però, ha torto pur avendo ragione, mentre coloro che sostengono l’innocenza di Toti hanno ragione avendo torto. Sono le storture di questo meraviglioso Paese, ma il fatto è che hanno torto e ragione entrambi, dal momento che l’istituto del patteggiamento – artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale – prevede anche il fatto che l’imputato, non solo non ammetta alcunché, ma neppure si presenti in aula, delegando quella che altro non è che una trattativa al mercato delle vacche al proprio difensore, il quale intraprende un dialogo al ribasso e al rialzo con il Pubblico Ministero di turno fino a quando non venga raggiunto un accordo sulla pena; il tutto, poi, finisce sul tavolo del Giudice che, nella stragrande maggioranza dei casi, non vede l’ora di liberarsi di un procedimento e, considerando equo l’accordo, applica all’imputato la pena di giustizia.
Le parole hanno un peso: non è una sentenza di condanna, poiché per l’appunto il Giudice applica e in questo senso ha torto Travaglio e hanno ragione i corifei del centrodestra; peraltro, questo provvedimento (usiamo un termine anfibio così almeno su questo non vi è discordanza: è sicuramente un provvedimento) se ne va nel casellario giudiziario, pur con la pena sospesa; e qui ha ragione Travaglio e torto gli altri, dal momento che se l’ex imputato dovesse riportare un’altra condanna (o gli fosse applicata) un’altra pena e la sommatoria superasse i due anni di reclusione, gli verrebbe revocata la sospensione condizionale.
Mettiamo da parte Travaglio e il centrodestra: il problema è che la frenesia legislatoria italiana, un tempo sì pomposa ma almeno corretta, oggi sciatta, verbosa e pasticciona, genera mostri e nel caso Toti uno di questi è il patteggiamento. Un cittadino viene accusato di un reato: patteggia e per questo stesso fatto si generano fazioni su cosa significhi. Ma se la faziosità è uno stimma indelebile, l’elefantiasi legislativa (per dirla con Franco Cordero), unita al protagonismo interpretativo della Cassazione – in altri termini si dovrebbe dire tenace volontà di non schiodarsi da certi stilemi – fa la sua parte. Vediamo qualche mostro.

1989: proprio l’articolo 444 di un codice appena entrato in vigore prevede la riduzione di pena fino a un terzo. Il che starebbe a dire che, a titolo di esempio, una pena di 6 anni potrebbe essere patteggiata fino a due, cioè fino a un terzo, anche sulla scorta dell’art. 67 del codice penale che vive e lotta insieme a noi dal 1930, per il quale, per quante attenuanti ci siano la pena non può essere diminuita oltre un quarto, vale a dire da 4 anni si scende al massimo fino a 1, cioè un quarto.
Ma quando mai, interloquisce la Cassazione a tempo di record – erano passati pochi mesi: la preposizione fino a riguarda la quantità di diminuzione, non la pena finale: dunque da 3 si scenda a 2 e non a 1. Non c’è stato verso di fare osservare come nel caso di processo abbreviato, la pena può essere ridotta di un terzo e con questo per l’appunto intendendo da 3 a 1, da 12 a 8 e così via, come volete voi: insomma fino a significa una cosa, di ne vuole dire un’altra. Neanche per idea e piantatela qui; diventano sinonimi: l’ha stabilito la Corte di Cassazione e così sia. O, in altri termini, de albo facit nigro, come amava ripetere il succitato Maestro.

Procediamo. Ai sensi del codice di procedura penale, oggi nel nostro Paese un cittadino può finire davanti a un giudice nei seguenti modi:
– citazione diretta e dibattimento
– citazione diretta e processo abbreviato avanti lo stesso giudice
– udienza preliminare e poi dibattimento
– udienza preliminare e processo abbreviato avanti lo stesso giudice
– giudizio immediato, dal quale può derivare un giudizio abbreviato ovvero il dibattimento vero e proprio
– giudizio da opposizione a decreto penale di condanna (che, se non opposto, genera un giudizio dibattimentale oppure un giudizio abbreviato).
In tutti i casi, c’è sempre la possibilità del patteggiamento.
Evidentemente, immettere tutti i reati avanti un giudice preliminare per poi smistarli in sole tre ipotesi (patteggiamento, giudizio abbreviato, giudizio ordinario) poteva suscitare sospetti di superficialità e scarso approfondimento dei meandri giudiziari. Non sia mai e così, contrariamente al principio di natura per il quale la funzione sviluppa l’organo, qui l’organo sviluppa la funzione (e le norme).

Passiamo a un altro esempio e poi può bastare.
Fino a qualche anno fa, poteva ancora essere chiesto il giudizio abbreviato anche in caso di omicidio che prevedesse la pena dell’ergastolo. Trattandosi dell’opzione con la famosa riduzione di un terzo, non risulta che nessuno, neppure nell’ambito delle menti già raffinate di commentatori e interpreti, abbia posto la questione come diavolo fosse possibile, come di fatto si faceva, ridurre dall’ergastolo (pena perpetua) a 30 anni di reclusione con … la riduzione di 1/3.
Scartata questa ipotesi – non per manifesta illogicità del tutto ma solo per venire incontro al populismo giustizialista all’amatriciana, che riteneva poca roba una condanna a 30 anni di reclusione – è tutt’ora passibile evitare la pena per omicidio aggravato, che comporterebbe l’ergastolo con isolamento diurno (quello notturno va in automatico) con la riduzione, in prevalenza di attenuanti, generiche o speciali, all’ergastolo senza isolamento diurno: sempre col solito 1/3 in meno, che è la riduzione standard in presenza di un’attenuante prevalente.

Abbiamo provato a dare un’idea del marasma in atto, ora riassumiamo: il signor Giovanni Toti, già presidente della Regione Liguria, ha dato mandato ai propri legali di cercare un accordo – poi trovato – col PM al fine di sottoporre al Giudice – che l’ha ritenuta congrua – un’applicazione pena su richiesta delle parti, con pena sospesa.
Si dirà: non si è difeso, da accuse infamanti, quali dovrebbero essere qualificate quelle a carico di rappresentanti politici eletti, cioè destinatari di un voto di fiducia e onerati, secondo la Costituzione, a operare nella propria carica con onore e onestà. Verissimo. Ma non ha ammesso nulla.
Risultato: è più che probabile che non pochi elettori abbiano ritenuto l’ex Presidente della Liguria una vittima del sistema giudiziario, costretto a lasciare l’incarico, a seguito di accuse che non sono sfociate in una sentenza di condanna. Anzi, per il vero, tecnicamente non c’è stata alcuna sentenza – ricordate che si chiama applicazione di una pena?
Almeno di questo, non è responsabile il dimissionario.

Cesare Stradaioli

IL DIRITTO CHE NON C’E’

Ora che Israele si è definitivamente messo di traverso riguardo all’ONU – ha pure sparato; metaforicamente, in direzione del Palazzo di vetro: direttamente, verso militari ivi mandati a presidiare non si capisce bene cosa – è giunto il momento di qualche riflessione, la più importante, nonché più semplice delle quali è la seguente: il diritto internazionale non esiste. L’opinione pubblica se lo deve mettere in testa una volta per tutte, senza dare retta a rappresentanti politici o burocratici (eletti o meno non fa alcuna differenza): sono gli stessi che parlano di Europa Unita ed è come se taluno desse del vivo e vegeto a un corpo neppure venuto alla luce; né ascoltino il cattedratico di turno, il dotto, medico e sapiente come narrava Edoardo Bennato: studiosi, molti di loro di indubbia fama e onestà morale, che debbono pure dare un senso (anche solo come auspicio) ai propri studi e ai loro ruoli in questa o quella facoltà di Giurisprudenza o Scienze Politiche.
Il diritto civile, come quello penale, come qualsiasi altro corpus organico di norme (fosse anche lo statuto di un’associazione calcistica) prima di ogni altra cosa si basa sull’effettività e qui c’è bisogno di rileggere Hans Kelsen o, almeno, farselo spiegare. La norma, una qualsiasi norma che prescriva un comportamento o ne sanzioni la relativa inosservanza, esiste in quanto è effettiva, vale a dire tanto quanto viene riconosciuta, rispettata e venga punito chi la violi. Se le condanne previste dall’articolo 575 del codice penale, che inizia con “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” non fossero mai eseguite, l’assassinio non sarebbe più tale e la norma che punisce l’omicidio perderebbe di effettività diventando lettera morta. Allo stesso modo, un semaforo non rispettato da nessuno a prescindere dal colore, con la viabilità dell’incrocio rimessa a piacimento di chi si trovi a passare non sarebbe altro che un marchingegno elettromagnetomeccanico che emette luci di nessun significato per chicchessia. Mancherebbe di effettività, la norma del codice della strada che punisce chi passa col rosso.
Senza risalire molto lontano – tempi nei quali, peraltro, le dichiarazioni di guerra erano ufficiali e godevano anche di un certo e consolidato rituale – già le atomiche su Hiroshima e Nagasaki sapevano di abuso del diritto internazionale, per non parlare di crimini di guerra Da lì in avanti non c’è stato anno, per non dire mese, in cui i rapporti fra Stati sovrani non ne abbiano visto palesi e reiterate violazioni se non totale disinteresse per le istituzioni poste a tutela. Nel caso specifico, a titolo di esempio, Israele non riconosce il Tribunale Internazionale de l’Aja e già dalla sua fondazione ufficiale, 1948, non rispetta in alcun modo le Risoluzioni delle Nazioni Unite.
Prima di procedere oltre, va chiarito un punto; è il diritto internazionale pubblico a non esistere, in quanto non effettivo: quello privato, commercio e finanza sotto forma di trattati, accordi bi o multilaterali, contratti, scoppia di salute – business are business e chi non ci creda vada a rivedersi il monologo di Ned Betty in “Quinto Potere”, 1975 – al punto tale che ovunque i brand delle multinazionali hanno preso il posto degli Stati sovrani, mettendone nell’ombra nomi e bandiere. 
Detto ciò, suona patetico e sarebbe ridicolo se non fosse sovrastato dalla tragedia, il sommovimento di sdegno da parte della stampa internazionale e di qualche sparuto ministro seguito all’azione di guerra portata dall’esercito israeliano verso il contingente Unifil in Libano. La sorpresa che porta allo sdegno è insensata; Israele si sente – come dargli torto e chi potrebbe? – così impunita da avere l’ardire di precisare, non senza un tocco di condiscendenza, di avere ordinato al contingente delle Nazioni Unite, trattato alla stregua di un furgone portavalori, di spostarsi dalla linea di tiro. Insomma, hanno avvisato prima di aprire il fuoco, che gli si renda merito: di che si lamentano i soldatini in blu?
A parte queste brevi considerazioni, è vero che ricordare ai ben svegliati dell’ultima ora i 40mila e passa trucidati da un anno in qua oltre alle centinaia di migliaia di profughi, ben più importanti dell’onore perduto dell’ONU, potrebbe sembrare un po’ come sparare sulla Croce Rossa (usanza che i soldati della stella di David praticano da decenni, a proposito di rispetto delle regole) e tuttavia bisogna farlo; non si possono sentire simili lamentele dopo che militari e coloni israeliani hanno fatto quello che hanno voluto, non dal 24 ottobre 2023, ma negli ultimi quasi ottant’anni, armati e sostenuti dall’Occidente e guai a criticare: lo stigma dell’antisemitismo è sempre pronto all’uso.
Chiedersi dove arriverà Tel Aviv in questa scellerata opera di pulizia etnica è un mero esercizio di stile, tanto clamoroso quanto sterile: arriverà fin dove lo riterrà di convenienza, badando come ha sempre fatto esclusivamente ai propri interessi; non si ricorda che un barlume di cooperazione internazionale abbia disturbato i pensieri di chi ha ricoperto la carica di primo ministro dello Stato ebraico. D’altronde, anche se decidessero di cessare il fuoco e anche se si ritirassero al di qua dei propri confini – conquista significa controllo del territorio e per quanti aerei da combattimento o bombe di alta efficacia si posseggano, la si realizza mettendo gli scarponi sul terreno e organizzando il comparto amministrativo e Israele non conta sufficienti milioni di abitanti per farlo – lascerebbero in ogni caso dietro di sé morte, devastazione, odio invincibile: non desidera di meglio, chi vuole un Jihad. Gli integralisti religiosi abbisognano di martiri, che siano ostaggi o attentatori votati al suicidio.
La guerra in Medio Oriente è appena cominciata. Bisogna farsene una ragione e regolarsi di conseguenza, mettendo da parte i manuali di diritto internazionale.

Cesare Stradaioli

OGGI

Nel 1973 uscì il LP “Arbeit Macht Frei” degli Area, gruppo di free jazz sperimentale che per qualche anno portò la musica italiana ai vertici della ricerca.
Il primo pezzo del disco si intitola “Luglio Agosto Settembre (nero)”: il fatto storico da cui prende il titolo – Settembre Nero era anche il nome di una branca combattente dell’OLP – fu la cacciata dei palestinesi dalla Giordania guidata dal corrotto principe Hassan, dietro ordine e compensi di Israele.
Lo sviluppo del testo si riferisce, di conseguenza, alla condizione dei palestinesi esiliati.
Il brano musicale è introdotto da un parlato femminile in arabo, si dice registrato per caso con mezzi di fortuna in un museo de Il Cairo.
Il testo del brano cantato da Demetrio Stratos è firmato dal collettivo degli Area e il finale è tanto tremendo quanto attuale.

Sono passati più di 50 anni: se le cose fossero rimaste com’erano sarebbe già molto grave.
Purtroppo, sono cambiate. In peggio.

Cesare Stradaioli

 

recitato

حبيبي
بالسلام حطيت ورود الحب ادّامك
بالسلام مسحت بحور الدم علشانك
سيب الغضب
سيب الالم
سيب السلاح
سيب السلاح وتعال
تعال نعيش
تعال نعيش يا حبيبي
ويكون غطانا سلام
عايزاك تغني يا عيني
ويكون غناك بالسلام
سمع العالم يا قلبي وقول
سيبوا الغضب
سيبوا الالم
سيبوا السلاح
وتعالوا نعيش
تعالوا نعيش بسلام
مصرية

 

Mio amato
Con la pace ho depositato i fiori dell’amore
davanti a te
Con la pace
con la pace ho cancellato i mari di sangue
per te
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
Vieni e viviamo o mio amato
e la nostra coperta sarà la pace
Voglio che canti o mio caro luce dei miei occhi
E il tuo canto sarà per la pace
fai sentire al mondo,
o cuore mio e di’ a questo mondo
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
a vivere con la pace.

 

LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE (NERO)

Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’omertà.
Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogare nel sangue con l’umanità.

Gente scolorata quasi tutta uguale
la mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Quando guardi il mondo senza aver problemi
cerca nelle cose l’essenzialità
Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’umanità.

 

SEPARANO PER RIUNIRE

Fa specie – ma non sorprende – che all’interno dello schieramento critico avverso la richiesta di sei anni di reclusione, formulata dalla Procura di Palermo nei confronti di Matteo Salvini, si trovino nomi di giuristi e avvocati: soprattutto nell’accusare i Magistrati (in toto: confondono le funzioni) di trascurare la ricerca della verità, lasciando il posto ai propri pregiudizi ideologici: qualsiasi pratico della materia sa bene come scopo del processo non sia la ricerca della verità, quanto l’accertamento dei fatti. Situazioni, queste, non di rado del tutto diverse nelle conclusioni; una sequela di Giudici, dal primo grado alla corte di cassazione assolve l’imputato Tizio: se ne vada libero. Ciò significa che da adesso, se non anche da prima, un assassino circola impunito per le nostre strade, dal momento che una vittima di omicidio pur sempre c’è, il che è un dato di fatto, cioè la verità storica (Caio è stato ucciso). Ma quello che hanno fatto i giudici è stato accertare i fatti sulla base delle risultanze di indagine e dibattimentali: lavorino meglio gli investigatori e se dovessero trovare nuove prove verso Tizio o ne avessero di inconfutabili verso Sempronio, ecco che in questo caso accertamento – futuro – dei fatti e verità storica coinciderebbero.
Molte di queste critiche, perciò, sono chiacchiere, le quali però hanno il proprio peso, a prescindere da chi le diffonde e dal suo livello culturale, spesso in gara con l’onestà personale.
Riassumiamo, per i distratti e coloro che hanno avuto altro da fare: la procedura penale è, tutto sommato, cosa scarna – Franco Cordero la definiva arnese.
L’ufficio della Procura della Repubblica, di stanza presso ogni Tribunale, riceve una notizia di reato – notitia criminis: definizione non proprio corretta, che dà già per stabilito trattarsi di un fatto penalmente illecito – e a meno che questa non denunci il furto della Fontana di Trevi o un sequestro di persona compiuto da alcuni alieni provenienti dallo spazio profondo, viene aperto un relativo fascicolo, stante il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: segue l’incarico a un pubblico ministero (gerarchicamente: Sostituto del Procuratore Capo) il quale coordina le indagini, al termine delle quali o chiede l’archiviazione del procedimento ovvero che si vada a giudizio, nelle fantasiose e molteplici forme previste da un codice cervellotico.
Giunti alla fase finale del processo, il pubblico ministero rimane della propria opinione e chiede la condanna che ritiene di giustizia ovvero (caso per nulla raro) le risultanze processuali lo convincono a chiedere l’assoluzione per l’imputato.
Sappiamo bene cosa alligni, ogni qual volta un rappresentante politico – per la più gran parte dei casi quando si tratti di qualcuno schierato da una certa parte dell’emiciclo – viene interessato da indagini che non abbiano a oggetto fatti estranei alla sua veste pubblica: la separazione delle carriere in Magistratura. Firme illustri della processualpenalistica hanno avuto modo di sostenere come non sia poi una cosa così grave: chi intraprenda la carriera in magistratura decida ora e per sempre se farà l’accusatore o il giudice, non potendo più cambiare idea, pur che le due diverse funzioni rimangano indipendenti nel loro fare capo al potere giudiziario.
La tesi convince fino a un certo punto; se ho il sospetto che il giudice odierno, essendo stato pubblico ministero, covi in sé la mentalità del colpevolista a prescindere, questo concerne la più generale sfiducia nella funzione della giustizia, più che nelle persone. Ora, se in me albergasse lo spirito del giudice Roy Bean – L’uomo dai sette capestri, magnificamente reso sullo schermo da Paul Newman – mi guarderei bene dal lavorare in Procura, dal cui scranno in aula posso solo chiedere la pena di morte, preceduta da orribili torture, per restarmene tutta la vita a emetterle, quelle sentenze, anche se non richieste (principio del libero convincimento del giudice); ma, a prescindere da ciò, che in caso di separazione le due funzioni rimangano indipendenti dal potere politico (si chiamavano Procuratori del Re) è utopia da quattro soldi, tenuto conto del livello della classe politica italiana e il tutto si riduce al fatto che qualcuno intende riportare l’ufficio della Procura sotto il diretto controllo del ministro della giustizia, vale a dire del governo pro tempore in carica, vale a dire separare il potere giudiziario e sottometterne una parte a quello esecutivo. Tale fase porterebbe a una riunione di poteri o, in altre parole, a una forma di governo autoritaria. Il che avrebbe, come prima conseguenza, la discrezionalità dell’azione penale: si persegue chi decide il pubblico ministero, che però non sarebbe più indipendente, bensì risponderebbe a un super potere esecutivo, che già ora e da molto tempo ha ‘sterilizzato’ quello legislativo a colpi di decreti legge e richieste di fiducia (oltre che dall’idiota dimezzamento del numero dei parlamentari) e con questo ritengo che ogni altro discorso sia superfluo.
Chi sostenga che sia anche solo pensabile evitare tali conseguenze, non sa di cosa parla o vuole esattamente quello.

Cesare Stradaioli

 

QUELLI CHE TACCIONO PARLANO PIU’ DEGLI ALTRI

C’è qualcosa di più terribile, nell’operazione di genocidio che Israele sta ponendo in essere nei confronti dei palestinesi, del vedere uomini e donne che, in divisa o meno, partecipano attivamente alla pulizia etnica in atto ed è il silenzio, l’accondiscendenza della quasi totalità dei governi e delle diplomazie internazionali.
La vendetta è un sentimento composito, strettamente personale anche quando viene convogliata nel collettivo; allo stesso modo e anzi ne costituiscono il presupposto, l’educazione a scuola, in famiglia e nella società in cui si nasce e cresce, l’indottrinamento, la propaganda, l’uso ossessivo e strumentale della memoria che impregnano ogni secondo della propria vita, sono allo stesso tempo di ciascuno e di tutti. Il che porta a comprendere come sia possibile assistere a un episodio che dieci, trenta, cinquanta, cento anni fa avrebbe scatenato il disgusto, lo sdegno internazionale, la ribellione, la mobilitazione, la condanna nei confronti dello Stato e dei suoi rappresentanti, fino all’ultimo soldato. Tutte reazioni debitamente manifestate, an che nel recente passato, nei confronti di massacri molto meno furiosi e sfacciati. Dipende, come sempre, dai rapporti di forza. Anche (soprattutto) mediatica.
Sfacciati, è la parola che sembra più adatta e questa sfacciataggine è consentita dall’indifferenza e dal silenzio: chi tace – nel suo tacere – è decisamente più eloquente del primo ministro, del colono, del rabbino integralista e razzista.
E’ più eloquente perché, in qualche maniera, da loro ce lo si poteva aspettare, per non parlare del fatto che quelli che ammazzano donne e bambini brandendo in una mano la stella di Davide e nell’altra, metaforicamente, la memoria della Shoah, se non altro trovano ragioni, giustificazioni, legittimazioni. Anche e soprattutto da parte di coloro che li armano.
Ma: chi tace? Chi non alza la voce? Che motivo hanno? Che giustificazione hanno?
Vorremmo, almeno, che ci fosse risparmiata l’offesa alla nostra intelligenza, nel sentirci parlare di senso di colpa nei confronti degli ebrei per secoli di antisemitismo e per quanto è accaduto nella seconda guerra mondiali. Non ce lo dicano più, perché sono solo chiacchiere, senza neanche distintivo. Nessuna colpa, per quanto grave e risalente, può consentire il tacere di fronte a quanto, da quasi un anno, accade a Gaza e in Cisgiordania.
In fondo, a voler essere comprensivi oltre ogni dire e ogni merito, si può dire che basterebbe poco. Basterebbe che, ogni qual volta una casa, una tendopoli, un convoglio umanitario vengono distrutti dalle bombe col loro carico di assassinati, e che qualcuno di quelli che danno l’ordine dica Erano scudi umani utilizzati dai terroristi, ecco basterebbe che qualcuno ribattesse:
Ma non è norma basilare del corpo di polizia e dell’esercito di uno Stato che si definisca democratico, evitare IN QUALSIASI EVENIENZA l’uso delle armi da fuoco in presenza di civili, che potrebbero essere vittime della sparatoria?

Cesare Stradaioli

GIORGIA MELONI E IL SENSO DELLO STATO

Di recente la Presidente del Consigio, nel corso di una visita in Sicilia, ha definito l’obbligo fiscale ‘pizzo di stato’ – significativa la minuscola, così come riportata da quasi tutta la stampa – suscitando, come era largamente prevedibile e probabilmente programmato, un coro di approvazione da parte di presenti e assenti. Credo che sia lecito pensare che Giorgia Meloni non abbia avuto Hans Kelsen nella sua personale bibliografia di formazione; se l’avesse avuto, la frase pronunciata sarebbe doppiamente inopportuna, senza un minimo riferimento all’illustre pensatore giuridico.
Non fosse altro perché, in effetti, la definizione, sicuramente corriva, per quanto paradossale possa sembrare, non è poi così lontana dalle analisi elaborate da Kelsen a proposito di società, Stato, diritti e doveri. Il termine ‘pizzo’ ovviamente evoca comportamenti penalmente rilevanti, espressione di prepotenza se non addirittura di imposizione mafiosa o, comunque, proveniente da criminalità organizzata ed era proprio in quel senso che lo intendeva l’inquilina di Palazzo Chigi; se non che, fu proprio il massimo giurista del XX secolo a dire – con molta più sottigliezza – che, in fin dei conti, nel momento in cui qualcuno si presenta a un privato cittadino esigendo il pagamento di una somma, l’unica differenza tra un malavitoso e un funzionario dell’agenzia delle entrate è che quest’ultimo agisce in nome della legge vigente.
Allo stesso modo, il monopolio dell’uso della forza da parte di polizia e carabinieri è dovuto a una legge che mette loro una divisa, ma le armi da fuoco non di rado sono le stesse che usano i rapinatori. Ed è proprio qui che sta il punto: è la presenza dello Stato, l’appartenenza allo Stato, il fatto stesso che il patto sociale che si pone alla base di ogni entità civile, sono tutti questi elementi che non solo differenziano due persone che puntano una pistola o limitano la libertà personale, ma che misurano la distanza che corre tra una società umana – per quanto imperfetta e ingiusta possa essere – e la legge della giungla, del più forte.
Per cui, sì, in effetti le pretese fiscali verso le categorie sociali sono in qualche modo un pizzo imposto allo Stato, al quale siamo tenuti tutti; la pena, che segue all’inottemperanza rispetto a tale imposizione, è ben più grave di una sanzione, pecuniaria o penale: è lo smarrimento del presente e del futuro, della convivenza reciproca, del limite (nei modi possibili) alle prevaricazioni di chi vorrebbe che il pizzo non fosse versato allo Stato ma al capobastone pro tempore. Ma questo ragionamento pertiene a chi creda fermamente nell’entità statuale: non a chi vada raccattando consensi e prebende, praticando miserabile politicastra da quattro lire che, come il mancato smaltimento dei rifiuti tossici, peserà su coloro che verranno dopo di noi.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

 

I VERI MASCALZONI

Farebbero bene a misurare le parole – non esprimerne alcuna sarebbe meglio – molti dei miei corregionali, a proposito dell’inchiesta giudiziaria che sta investendo in maniera pesante l’amministrazione di una delle città simbolo del nostro Paese. Anzitutto, dovendo tenere a mente il principio di civiltà (ultimamente utilizzato come un maglioncino di flanella, da indossare o meno a seconda del fondo dell’aria) che si rifà alla presunzione di innocenza fino a eventuale condanna definitiva, il che conferisce al sindaco di Venezia e agli altri funzionari comunali quelle garanzie che non pochi dei loro sodali di partito tendono a negare ad altri tipi di cittadini inquisiti, regolari o meno. In secondo luogo – qui verrebbe in soccorso il senso di opportunità e il bel tacere – perché per quanto banale possa essere ricordarlo, va sempre tenuto a mente come nel nostro Paese da qualche decennio di tengono libere elezioni, sostanzialmente corrette dal punto di vista formale. Il che sta a significare che lor signori stanno dove stanno non perché si sono presi il potere con un colpo di mano ma perché qualcuno li ha votati. 
Se non che, ad aiutare gli italiani sconvolti dagli scandali di inizio anni ’90, a guardare da un’altra parte, oppure il solito dito o fare finta di non vedere, è intervenuto il fortunatissimo lavoro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Che fosse o meno nelle loro intenzioni, se fossero o meno consapevoli di essere in procinto di ingenerare e diffondere una delle più gigantesche frodi intellettuali, è ormai questione di poco conto, tanto quando domandarsi se chi ha aperto la stalla si fosse prefigurato le conseguenze del proprio gesto.
A ben guardare, la frode si trova già nel titolo e questa è l’ennesima dimostrazione dell’avvilente retrocessione culturale che sta affliggendo l’Italia: c’è da chiedersi come sia stato possibile che, autori a parte, non vi sia stato nessuno nella catena editoriale (non in quella che si occupa di vendere automobili o partite di frutta e verdura, con tutto il dovuto rispetto) a fare notare che chi domina una casta lo fa per diritto ereditario o divino – comunque di nascita – quindi senza nessuna procedura appena appena democratica, contrariamente appunto al processo elettorale che porta quei rappresentanti politici locali e nazionali, protagonisti del libro, a essere indagati (e/o condannati) per corruzione in ragione della carica che ricoprono. Distrazione a parte, la frode è evidente: il punto centrale dell’operazione di sviamento, che poi è divenuto rapidamente un refrain buono per tutte le evenienze, insinua, instilla e infine inietta il concetto che il potere di costoro sia uno stato delle cose immanente e inevitabile come un temporale che minaccia un picnic.
Titolo a parte, il concetto di fondo, granitico nel suo essere diventato luogo comune, è tanto noto quanto sintetico: i politici rubano. Punto. Che brutta gente, i politici. Punto. La straordinaria operazione di rimozione a livello di massa, poche volte vista in questa forma e risultato, ha fatto sì che fosse trascurato il fatto, piuttosto elementare anche spiegato a un bambino di pochi anni, che se c’è qualcuno che riceve un cavallo ci deve per forza di cose essere qualcun altro che glielo dà. Non lo ammise molti anni fa, nel formidabile candore del caimano che giustificava la propria discesa in politica, Silvio Berlusconi, quando ricordava con incredibile (per un Paese normale) improntitudine e faccia tosta che ‘quella volta’ – intendeva prima di Mani Pulite – bisognava presentarsi al tale assessore o faccendiere ‘con l’assegno in bocca’? Sparita la mano che porge, è rimasta quella che prende e nel marasma degli scandali si perdono le tracce dei corruttori e con esse la constatazione che rimane negli archivi statistici per la quale non risulta affatto automatico che sia il funzionario pubblico a esortare la dazione, dandosi spesso l’iniziativa dell’imprenditore che vuole l’appalto, o del semplice cittadino che vuole saltare la fila. Lo stesso cittadino che oggi si indigna per l’inchiesta sul Comune di Venezia.
Per questo, gli elettori che hanno votato – due volte – Luigi Brugnaro dovrebbero pesare le parole: se un domani lui insieme ad altri o da solo dovesse essere condannato per corruzione, l’inevitabile epiteto, mascalzoni, andrebbe finalmente e una buona volta a stretto giro indirizzato anche e soprattutto a quelle decine di migliaia di mascalzoni che li hanno mandati a governare la loro città: corruttori forse, votanti consapevoli di sicuro.

Cesare Stradaioli

NON HANNO DIRITTO DI PAROLA

Un uomo muore sul lavoro. Più precisamente, incorre in un gravissimo infortunio sul lavoro – perde un arto – e per questo viene portato a casa (la consegna a domicilio includeva il braccio amputato, con l’attenzione che fosse custodito in un contenitore con del ghiaccio all’interno) e ivi abbandonato. Parafrasando un personaggio di un romanzo di Cormac McCarthy, chi potrebbe inventarsi una storia simile? La sua inverosimiglianza, che precede di gran lunga il tratto di assoluta disumanità che l’accompagna, è tale da soppiantare l’indignazione, merce ormai avariata e destinata alle procedure di resa come bene deperibile e non trattabile diversamente. Che una notizia venga presa per vera, quale è, per quanto incredibile possa essere e, anzi, proprio perché non merita fede chi crei dal nulla una cosa così fuori dalle coordinate della vita civile, è una delle più efficaci dimostrazioni della separazione tra le vite di ognuno singolarmente e quelle degli altri nel loro complesso.
Quello che, però, dovrebbe provocare reazioni in vari modi e misure (ivi compreso l’insulto, possibilmente in modo pubblico e palese) non è tanto la situazione in cui si è verificato questo orrendo fatto di vita ordinaria. Con ciò si intenda (si deve, intendere) l’esortazione a ricordare che quanto accade in agricoltura – e non tanto diversamente nell’altra realtà di veterocriminalità che è l’edilizia – e cioè l’esistenza del caporalato, altro non è se non uno dei tanti effetti delle politiche di una sinistra che non merita l’uso della maiuscola, in punto di mercato del lavoro, flessibilità e schifezze del genere, messe in atto sul finire degli anni ’90 dello scorso millennio.
Sarà compito della Magistratura stabilire se a carico dei titolari della cooperativa (ennesima parola di nobili origini, insozzata dall’uso fatto negli ultimi decenni) possano muoversi responsabilità per quanto accaduto e su questo, costoro hanno pieno diritto di difesa e, dunque di parola, anche se nella memoria di chi ha qualche esperienza processuale, rimane il celebre ammonimento di un vecchio consigliere di Corte d’Appello, il quale amava ripetere che “l’imputato deve stare zitto.”
Altri tempi. Tempi nei quali più spesso accadeva che, essenzialmente per motivi culturali, il cittadino accusato di un reato non fosse in grado di difendersi o, al contrario, che Tizio fosse talmente pieno di sé da disattendere i consigli del legale di fiducia e, parlando oltre il dovuto, finiva col mettersi da sé le manette. L’imputato taccia e lasci parlare i difensori, se hanno di che dire – o chiedere. Tuttavia e fuori dall’aneddotica, coloro che saranno chiamati a rispondere di quanto accaduto hanno, in piena vigenza di legge, il diritto di essere considerati innocenti fino a condanna irrevocabile e di difendersi nel pieno rispetto delle leggi – di tanto in tanto, dovrebbero anche ricordare le opinioni dei rappresentanti politici che verosimilmente votano, in materia di giudizi sommari e chiavi da buttare via. Ma il loro diritto di parola, comincia e finisce lì, all’interno di un’aula giudiziaria e riguarderà le modalità di come si svolgesse l’attività lavorativa.
Che a qualcuno, direttore di testata, caporedattore, giornalista, venga anche solo in mente di andare a intervistarli, nella ributtante logica imperante per cui ogni opinione meriti lo stesso rispetto, a dare la parola a gente accusata non tanto e non solo di avere sfruttato esseri umani come bestie da soma (circostanza ancora da dimostrare in via definitiva), ma di averli abbandonati feriti e morenti, invece di portarti al pronto soccorso, è cosa che suscita più di qualche perplessità sul livello base di civiltà di chi gestisce le notizie. Nel frattempo, qualcuno dovrebbe dirlo: poiché il disgraziato non è arrivato a casa con mezzi propri e, dunque, qualcuno ce l’ha portato (e QUESTO è irrevocabilmente vero), coloro che hanno omesso un gesto di basilare umanità, che susciterebbe impressione anche se si fosse trattato di un cane, il diritto di parola non ce l’hanno, non hanno diritto di esprimersi e chi si presti a dare loro voce su quello specifico fatto dovrebbe vergognarsi, a un livello molto simile a quello della correità.

Cesare Stradaioli

BUONA LETTURA

Dalla fine del fascismo in poi, nel nostro Paese un cittadino che supera il concorso per magistratura, a seconda di determinate tempistiche e disponibilità nelle sedi, per tutta la sua carriera e fino alla pensione, può prestare servizio nella giustizia civile, penale e amministrativa, a scelta.
La questione della separazione delle carriere ha carattere prettamente penalistico; nello specifico, uno può prestare servizio, sempre secondo le suddette disponibilità e tempistiche, alla Procura (del Tribunale in primo grado, della Corte d’Appello in secondo grado – presso la Cassazione dopo un certo numero di anni) e al Giudicante (Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione idem come sopra), cambiando quando lo desidera e se nel concreto è possibile.

Senza scendere in dotte e noiose chiose costituzionali, separare le carriere significa diverse cose.
Anzitutto, se un magistrato intende operare in campo penale, deve scegliere, una volta per tutte, di essere inquirente o giudicante e fin qui, in apparenza, tutto bene: il pubblico ministero è parte del processo, equiparato come poteri e diritti, all’imputato e il giudice è “terzo”, qualunque cosa ognuno voglia intendere – per inciso: in Sicilia, essere definito “terzo” non è esattamente un complimento.

C’è il piccolo problema dell’obbligatorietà dell’azione penale, che personalmente considero uno dei capisaldi della civiltà del diritto.
Significa che in qualsiasi modo la Procura del luogo riceve una notizia di reato – querela, referto, esposto, confidenza, soffiata, perfino lettera anonima (che non può essere usata come prova, ma come spunto di indagine) – a meno che la notizia non sia palesemente irreale (accuso Tizio di avere molestato la madonnina del Duomo di Milano), deve essere iscritta a notizia di reato, con il suo bel numero di RG NR (Registro Generale Notizie di Reato), contro Sempronio o contro ignori e devono DEVONO cominciare le indagini.
Quando finiscono, il PM o chiede l’archiviazione oppure esercita l’azione penale e in questo secondo caso gli atti di indagine sono pubblici e l’indagato diventa imputato.

Nel diritto anglo-americano e dovunque esista la separazione delle carriere, l’azione penale è discrezionale: vale a dire, come suggerisce il termine, la Procura procede se lo ritiene opportuno.
Una delle conseguenze, a titolo di esempio, è questa: in Italia un ‘pentito’ deve comunque essere giudicato e condannato, ovviamente alla pena ridotta che prevede la legge, data l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre dove non vige uno può accusarsi e accusare altri dei peggiori crimini, se collabora la sua vicenda giudiziaria finisce o neppure comincia e torna a essere un libero cittadino.

L’obbligatorietà dell’azione penale mette al riparo dalle ingerenze della politica e, in genere, dei cosiddetti ‘poteri forti’, che spadroneggiano laddove l’azione è discrezionale e le carriere sono separate. Che, poi, dato che non viviamo nel Paese dei campanelli, una singola Procura possa decidere di impiegare più o meno mezzi, dare o non dare la precedenza a questa o quella indagine, è altro discorso.
Diciamo che, se con l’obbligatorietà dell’azione penale può succedere che certi processi vengano ‘dimenticati’ nei cassetti e di fatto non celebrati, laddove vi sia la discrezionalità, questo è certo.

Altra caratteristica; da noi il PM guida e coordina le indagini, in preminenza sulle forze dell’ordine; a carriere separate, avviene il contrario, la polizia decide dove e quando e se indagare e il Prosecutor non può fare un bel niente se non dire: queste prove mi bastano per andare in aula oppure non mi bastano, ma non ha alcun potere sulle indagini.
In poche parole: le forze dell’ordine, dove c’è la discrezionalità e le carriere sono separate, fanno quello che vogliono e la tutela giurisdizionale e di controllo di un magistrato interviene SE si arriva al processo.

Separare le carriere automaticamente significa separare le Procure dalla Magistratura e, di fatto, sottoporle al controllo del ministro della giustizia, ovvero del governo, ovvero: il potere esecutivo mette i piedi nel piatto di quello giudiziario, con tanti cari saluti alla tripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e ai contrappesi istituzionali. Non a caso, nell’Italia della monarchia e durante il fascismo, erano i Procuratori del Re.
Prima conseguenza: i Prosecutor diventano concretamente influenzabili se non ricattabili.
Seconda conseguenza: mentre ora il PM indaga anche a favore della persona sottoposta a indagini, nella separazione e quindi nella discrezionalità dell’azione penale, tale dovere istituzionale non esiste.
Link sulla seconda conseguenza: i Pm o Prosecutor diventano elettivi e, dunque, per farsi eleggere, hanno bisogno di condanne a tutti i costi (a proposito: nella tanto decantata giustizia americana, i Pm sono avvocati, dall’avvocatura vengono e nell’avvocatura possono tornare, alla faccia della ‘separazione delle carriere’).
Ulteriore link: a quel punto, arrivare al giudice come carica elettiva, il passo è breve.

Vi piace l’idea che la vostra querela avrà un seguito solo se il Pm lo vorrà?
Solo se non darete fastidio a qualche industriale o politico?
Vi piace l’idea che polizia e carabinieri indaghino senza alcun controllo della magistratura, essendo tenuti unicamente a depositare in Procura quello che vogliono loro e che a quanto non depositato nessun Pm può avere accesso?
Vi piace l’ìdea che un pubblico ministero (già avvocato ieri e forse avvocato domani, quindi depositario di segreti che possiamo solo immaginare) venga eletto?
E che dipenda dal ministro di Giustizia pro tempore?
Vi piacerebbe l’idea che anche i Giudici siano eletti, cioè facciano campagna elettorale (con le assoluzioni? o piuttosto con le condanne?) e perciò stesso, alla stregua dei politici, debbano rispondere all’elettorato, pena la mancata rielezione?

C

 

DUE PESI, UNA MISURA

Diciamo che è lo stesso: così chiudiamo ogni discorso e la coscienza è a posto.
O forse non è così; Alessandro Piperno, nel rivendicare il ramo ebraico paterno, dice che vedere bambini insanguinati a Gaza gli fa orrore e altrettanto valga per le vittime del 7 ottobre. Penna acuta tanto quanto arguta (altrettanto?), Piperno è troppo intelligente e capace di modulare i termini per pensare di cavarsela con così poco: l’avverbio suscita molte perplessità, per non parlare del fatto che, una volta registrato l’avvenimento (che sia durato mezza giornata o sia tutt’ora in corso rileva poco, sotto questo aspetto), abbiamo il dovere e anche il diritto di interrogarci su chi sia stato l’autore del gesto. Non basta l’espressione del ribrezzo, ci vuole altro.
Mettiamo da parte il dato tutt’altro che secondario, stando al quale anche i sassi sanno che se Hamas non è stata una tavola apparecchiata dai servizi israeliani per combattere la dirigenza laica dell’OLP, sicuramente Tel Aviv l’ha imbandita. Questa creatura politico-religiosa-militare poco incline all’applicazione del metodo democratico, così come piace ai liberali occidentali, oltre ad avere come programma la distruzione dello Stato ebraico, da praticarsi esclusivamente tramite la lotta armata, con l’uso delle stesse armi avrebbe come progetto anche una specie di califfato, non meglio definito. Di contro, abbiamo un governo eletto (più volte) a seguito di consultazioni alle quali è chiamato un popolo libero di esprimere il proprio voto, in un meccanismo magari farraginoso ma certamente scevro da dubbi in punto di regolarità. Un governo che guida un Paese, questo sì democratico – anche se non riconosce la Corte Internazionale de l’Aja e non consente agli ispettori dell’ONU (di cui pure fa parte) di svolgere il compito affidato loro dall’organismo internazionale – animato quanto meno nei progetti originari da solidarietà, civiltà e progresso.
Il massacro del 7 ottobre vale altrettanto, rispetto ai trentacinquemila morti – conta da aggiornare – causati dalla reazione israeliana? Il fatto a dare la voce alle armi contro i civili sia stato un movimento che non sembra avere particolarmente a cuore la libertà e i diritti umani ma anche da un esecutivo liberamente eletto da un popolo libero, ha lo stesso significato? E’ questo che dice (o non dice) Alessandro Piperno? Dovrebbe anche avere la compiacenza di dirci se, a suo modo di vedere, le vittime dei mitra e dei bombardamenti si contino o si pesino: saremmo tentati di pensare che secondo lui debbano essere contati e che non ci siano morti di categorie diverse e però, in questo caso, la conta gli torna malissimo, specie usando l’alttrettanto.
Poniamoci un’altra domanda: esiste una differenza, sotto il profilo morale e umano, tra un manipolo di nazionalisti serbi fascisti e nostalgici del Re che riceve l’ordine di entrare a Srebrenica, selezionare tutti i maschi dai dieci anni in su, sterminarne a migliaia e buttarli in fosse comuni e un esercito che bombarda ospedali e convogli umanitari, causando non solo decine di migliaia di morti ma anche l’esodo (il termine dovrebbe suonare qualcosa alle orecchie di vive all’ombra della stella di David) di milioni di poveri disgraziati, privati anche di quella miserabile terra costituita da campi profughi? A noi pare che avvenimenti del genere avrebbero fatto indignare sia il maresciallo Tito sia le anime buone e oneste che avevano immaginato un Israele un tantino diverso da uno Stato soggiogato da rabbini razzisti e coloni armati che sparano sui civili ai quali derubano le terre assegnate e QUI l’altrettanto utilizzato da Piperno sembra decisamente più calzante.
Il problema, però, è che quei due altrettanto non valgono reciprocamente altrettanto: quanto valgano, lo decida la coscienza di ciascuno, ma l’indignazione in balia di se stessa, senza andare a scovare l’autore di ogni singolo orrore dal 1945 in poi, la si lasci pure in soffitta, che dorme così bene.

Cesare Stradaioli