Neppure io vedevo i morti ammazzati per le strade, i regolamenti di conti, le autobomba sottocasa dei magistrati o lungo il Raccordo Anulare, come esigeva un paio di anni fa Giuliano Ferrara, per potersi convincere che a Roma ci fosse la mafia. Eppure, mi pareva (e sono rimasto di questa opinione) di poter dire che nella capitale, come in altre parti d’Italia al di fuori della Sicilia, la presenza mafiosa fosse e sia consistente. Soprattutto nei gangli del potere, direi. Temo che la pretesa di Ferrara rimanesse – tutt’ora: in lui e in molti come lui – legata a una visione anacronistica del fenomeno mafioso; probabilmente connessa con esercizi di violenza e sopraffazione, espliciti per quanto pienamente visibili, che ne darebbero la colorita adeguata alla qualifica di ‘mafiosi’. Credo che gli onesti si sbaglino: e che quelli che onesti non sono, ci giochino sopra. In maniera alquanto sporca, aggiungerei.
Al netto dei risvolti tardoromantici di certe rappresentazioni, la mafia italoamericana descritta da Mario Puzo nel romanzo che poi dette il nome anche alla seria diretta da Coppola, viene rappresentata, nei momenti anche visivamente più spettacolari (ma quelli descritti su pagina, in certi momenti non lo sono di meno) nel diretto esercizio di violenza brutale e definitiva. Ma questo, nella narrazione come i diversi fatti realmente accaduti e documentati, solo quanto viene rotto un determinato equilibrio: nel caso de “Il Padrino”, con l’attentato non riuscito alla vita di don Corleone. Il fatto è che, fino a cinque minuti prima, le cose andavano in maniera sufficientemente tranquilla, proprio in virtù di quell’equilibrio a cui da sempre la mafia tende, per poter fare la cosa che meglio le viene, cioè gli affari. Insomma, prima dell’esplosione della violenza, al di là di singoli episodi, la vita procedeva come doveva procedere: non di meno, credo neppure il più accanito detrattore dei cosiddetti ‘professionisti dell’antimafia’ arriverebbe a negare che, in ogni caso, la mafia non solo esistesse, ma prosperasse nell’omertà e nel bilanciamento dei rapporti di forza – nell’ambito dei quali va inclusa anche la corruzione di certi corpi dello Stato. I soldi giravano, i taglieggiati pagavano, chi sgarrava veniva messo al proprio posto ovvero definitivamente tolto dai giochi, mentre prostituzione, gioco d’azzardo e tutto quanto potesse venire in mente, muovevano il denaro che oliava gli ingranaggi.
Per questo, e per altre svariate argomentazioni, non è possibile essere d’accordo con Ferrara nel rigettare l’ipotesi – peraltro poi accertata in sede giudiziaria – che a Roma di fatto la mafia esistesse e prosperasse. Certo, se uno si aspetta di vedere ancora uomini con coppola e lupara, oppure ritrovamenti di scantinati con bidoni di acido… A Milano, con riferimento a certe difficoltà di comprendere l’evidenza che taluno può avere, si suole dire dopo tre piatt, l’ha capì che l’era risott.
Allo stesso modo, Paolo Mieli oggi sembra voler pretendere di vedere – per credere – girare fez, bastonature e olio di ricino: o così o non pare il caso di condividere la preoccupazione di coloro i quali paventano il ritorno del fascismo. Pertanto, neppure con lui si può essere d’accordo.
Ma di quale fascismo si dovrebbe parlare e per quale, eventualmente, essere preoccupati e, infine, mobilitarsi? In effetti, spedizioni punitive nelle redazioni dei giornali – per ora – non se ne vedono; omicidi e pestaggi particolarmente ‘qualificati’, neanche. Quanto agli agrari emiliani, morti e sepolti e, in parte, soppiantati dalla ‘ndrangheta (a proposito) e da investitori dell’est. Quanto ai pronipoti degli industriali allora compiacenti, neppure loro se la passano troppo bene; quelli rimasti in Italia, dico: ché gli altri svernano produzioni grazie e manodopera sottopagata e dove si pagano meno tasse (bisognerà, una buona volta, dirlo a chiare lettere e ricordarlo a gran voce, che da sempre, il mantra della riduzione delle tasse è di destra: da qualsivoglia parte provenga chiunque lo menzioni e per qualsiasi finalità).
Riguardo al fascismo e ai suoi rigurgiti, va detto che più che vedere, cose persone e situazioni, si ‘sente’, si percepisce qualcosa che non va bene. E non mi riferisco ai soliti quattro idioti che ignorano cosa siano stati il fascismo stesso, la guerra, i campi di sterminio, le leggi razziali e, più nel dettaglio – e, pertanto, ancora più lontani dalla loro condizione di miserabile ignoranza – lo spaventoso isolamento culturale cui l’Italia fu sottoposta per vent’anni e la marcia eredità costituita da decine di migliaia di funzionari inseriti nella pubblica amministrazione, nell’insegnamento e nella magistratura, che il fascismo innervarono e rappresentarono e rafforzarono in maniera ben più efficace di parate e manganellate e che in gran numero rimasero al loro posto anche dopo la guerra, a tenere inchiodato il nostro Paese a un passato di arretratezza e abiezione dal quale ancora non riesce a liberarsi. Molti di loro addirittura deputati e senatori, a partecipare a quella dinamica parlamentare che tanto detestavano e che, di fatto, abolirono – peraltro, costoro potrebbero perfino meritare più rispetto di altri che, come tanti mafiosi e combattenti da burletta, al momento opportuno si ‘pentirono’ e dopo il 1945 si fecero ricostruire un bell’imene politico da tenere buono per essere democraticamente lacerato nella consumazione del matrimonio con la Repubblica, con tanto di lenzuola debitamente macchiate ed esibite come un tempo si usava, quando i mulini erano bianchi.
Si sente dell’altro. Il linguaggio, l’arroganza, l’eterno ritorno dell’uomo forte, dell’uomo solo al comando; e di nuovo, come dopo il primo conflitto mondiale – di grande pregio, sotto questo aspetto, mi pare “M” di Antonio Scurati – la povertà, morale e materiale, la disuguaglianza, la cronica incapacità di una Sinistra bolsa di stare vicino ai propri cittadini senza la paura di contaminarsi con i peggiori istinti delle masse disperate, e ancora il nemico, l’immigrato, l’edificazione di un fortino virtuale che ripari il cosiddetto ‘popolo’ dagli assalti esterni, che avvengano coi barconi o con le procedure di infrazione della UE, poco o nulla cambia.
Ma io comincerei dal più semplice: insisto con la mia mania del linguaggio. Non concordo con coloro che sostengono che l’italiano medio sia intimamente fascista: avrà pure istinti atavici, ma con quelli tutti dobbiamo fare i conti. Tant’è che abbisogniamo di educazione, perfino per rapportarci con l’altro sesso (o con il medesimo, a seconda dei gusti). L’ignoranza, l’arretratezza culturale, la chiusura mentale non fa di lui un fascista: se mai, e mi pare più preciso quanto fu detto tempo fa, non fa di lui un antifascista e con questo termine si intenda – mi pare ovvio, ma di questi tempi l’ovvio è tale che deve essere ripetuto e precisato – non già un antifascismo da parata o le solite liturgie vuote e di facciata, come le case che costituiscono i fondali per i film western, quanto piuttosto un antifascismo positivo, creativo, portatore di consapevolezza.
La strada è ancora lunga da fare. Comincerei proprio col mettere in soffitta l’antifascismo conformista. Ma, subito dopo, insisto a dire che è proprio il conformismo uno dei caratteri più veri e primi del fascismo, in grado di riprodurlo e ripresentarlo anche senza le corporazioni, le camicie nere e i deliri sull’impero. Ed è nel linguaggio, prima che nei comportamenti, che se ne vede l’ombra opaca: quanto più a lungo, su stampa, nei media e nei dialoghi personali, nel riferirsi a Benito Mussolini si continuerà a usare l’attributo onorifico di ‘Duce’ – già cavaliere dà fastidio quanto basta – tanto più tempo ci vorrà per togliersi di dosso le croste del conformismo e della miseria mentale che oggi, come parassiti, alimentano di sterco morale il corpo in cui si sono annidati, per poi a loro volta cibarsene al momento storico per loro più consono.
Cesare Stradaioli