Commento a: IL GIONO DOPO I TRE QUARTI DI SECOLO

Alice (kolavitt)

05:20 (16 ore fa)

Basta Cesare con questa litania sclerotica che ogni anno viene riproposta, non vale nemmeno la pena di continuare sul sito per leggere quella e sempre quella.
Il fascismo per fortuna è morto e defunto ed esiste solo nella mente di pochi pazzoidi facinorosi; e di quella dei tuoi simili, ritengo in quantità altrettanto ridotta.
Adesso va di moda il cosiddetto sovranismo nelle sue varie forme nazionali: l’AFD in Germania, il “nostro” Salvini, la Le Pen, Orban, Erdogan, ecc. ecc.
E con questi purtroppo bisogna confrontarsi e financo dialogare, perchè,, come i fascisti e nazisti a suo tempo, purtroppo godono di un discreto seguito. Come del resto si deve purtroppo dialogare con gente come il coreano Kim, a meno che non sia già morto, e gli eredi di Fidel.
Tra il liquame a cui tu rifiuti il dialogo io inserirei anche i negatori delle foibe o gli esaltatori degli avvenimenti in Russia nel secondo dopoguerra.

IL GIORNO DOPO I TRE QUARTI DI UN SECOLO

Adesso che la data è stata adeguatamente celebrata, le cose da dire dette, le retoriche ascoltate, le stolide esortazioni a una comunanza di ideali che già aborriva Calamandrei a guerra appena finita, ora si può pensare al domani, per provare a giungere a un secolo con idee e fatti più chiari e definitivi.
Come disse un tempo un eminente rappresentante di una Sinistra alquanto estrema, il fascismo è un problema di igiene pubblica. Quali che siano le forme e le persone che dal 1945 in poi facciano richiamo e appello al fascismo, va detta una cosa piuttosto semplice: nessun dialogo. Non si sta ad ascoltare un fascista, non si presta attenzione a una qualsiasi delle sue idee. Non si rivolge la parola al liquame e dovrebbe bastare qui.
Poiché porsi in una qualsiasi di queste situazioni che implica il confronto reciproco, comporta necessariamente un riconoscimento all’altro e il riconoscimento dell’interlocutore equivale anche e soprattutto a conferire dignità ai suoi pensieri e alle sue opinioni: ciò che non possiamo, non dobbiamo fare più, nei confronti di chiunque manifesti e rappresenti le idee che al fascismo facciano richiamo, per quanto blando e vago possa essere.
Diversamente, come del resto è sempre stato negli ultimi 75 anni, la celebrazione pubblica e privata del 25 aprile mancherà sempre di qualcosa del suo precipuo significato e della memoria che gli cammina a fianco. E’ giunto il momento di dire basta col dialogo, con la comprensione, con il riconoscimento del nemico, quale è, lo si dica, lo si ripeta alla nausea, un fascista.
Pochi mesi prima di chiudere la sua esperienza umana e politica, Robespierre pronunciò parole di portata storica intorno al fatto se Luigi, in quanto regnante deposto, fosse colpevole: nel proclamarlo tale senza esitazioni di sorta, sottolineò l’intrinseca assurdità di un processo a suo carico dal momento che, in quanto celebrazione di un rito giudiziario, il processo in sé – era l’avvocato Robespierre che parlava, prima che il rivoluzionario – deve presupporre l’ipotesi che l’imputato possa essere assolto. E Capeto, proseguiva l’Incorruttibile, non poteva in alcun modo esserlo, stante la colpevolezza intrinseca nel suo ruolo storico: altrimenti e in alternativa, la Rivoluzione stessa non avrebbe avuto alcun senso.
Allo stesso modo, a mio giudizio, il semplice fatto di discutere con un fascista, confrontarsi con lui significa svuotare di significato il senso della Liberazione. Va, pertanto, evitato.
Ma il fascismo è stata una creazione politica e sociale genuinamente italiana: dopo di esso, si sono moltiplicati nel mondo niente altro che replicanti, in divisa o in borghese. Il conio originale, purtroppo, è nostro e non si arriverà mai a una compiuta pratica di vigilanza, vera e significativa, se non ce ne faremo tutti una ragione e con questo intendo rivolgermi a non ristrette fasce di popolazione onestamente autoproclamantesi antifascista. Prendendo la parola durante il celebre convegno di Firenze del 1969, Franco Fortini disse la famosa, profetica frase: Il Vietnam ci dividerà. Come sempre vedeva più lontano di altri ed erano tutti lì convinti che l’adesione alla lotta contro l’imperialismo USA li tenesse uniti; avevano torto loro e ragione lui e temo fortemente che discorsi quali quello relativo all’intima natura non tanto fascista, quanto non antifascista dell’italiano medio, non saranno meno divisivi di quelli che seguirono quel convegno.
Noi possiamo, noi abbiamo – e come noi quelli che verranno dopo di noi – il dovere di studiare la storia, conoscere il fascismo, le ragioni storiche che lo giustificano, analizzare e capire i fascisti, l’animo di chi lo inpose e di chi lo accettò, quasi ovunque passivamente, coloro che lo allevarono, lo crebbero e lo portarono prima al potere e poi al disastro: noi dobbiamo ascoltare LORO, quelli che lo incarnarono, dal vertice fino alla base che applaudiva a piazza Venezia, poiché non è dato altro modo di prevenire una malattia, se non conoscerla, invece di limitarci a curarla quando intasa i pronto soccorso delle coscienze e della società. A costoro, dobbiamo prestare ascolto, non ai loro infami epigoni e ai miserabili revisionisti storici da tre palle a un soldo, i quali non meritano né il nostro riconoscimento né la nostra attenzione; non meriterebbero neppure di essere rappresentati in qualsivoglia forma di partecipazione politica. Ma tant’è: così è stato loro permesso e di questo potremmo prendere cura in un momento a venire.
L’intransigenza dovrà essere la cifra di questo modo di intendere i rapporti di forza i quali, almeno per ora, giocano ancora a nostro favore: o così oppure possiamo parlare d’altro. E dovrà cominciare ad essere applicata, questa intransigenza, non solo e non tanto a proposito delle fole dei treni che arrivarono puntuali sotto il fascismo o le attività di bonifica o di alte scemenze mascherate da folklore e invece profondamente velenose che da sempre, dall’indomani del 25 aprile di 75 anni fa, circolarono libere e impunite come molti che avrebbero meritato la galera e la fucilazione, quanto su disoneste e intollerabili equiparazioni fra fascismo e comunismo e sull’asserito, possibile altro destino che avrebbe potuto avere il fascismo se solo le cose fossero andate in modo diverso.
A chiunque dotato di un minimo di ingegno e che si ponga idealmente a Sinistra, anche nei modi più radicali, non è consentito sottrarsi a una feroce critica e autocritica rispetto a quanti e quali errori furono commessi nel corso delle esperienze politiche succedutesi nel XX secolo, ispirate in ogni caso a principi di uguaglianza, fratellanza e libertà. Mentre deve essere con forza sottolineato e ricordato in tutti i modi come in Italia fino all’8 settembre 1943 (e per molti versi anche fino alla fine della guerra, sotto forma di RSI) e in Germania fino all’ultimo secondo di vita del nazismo, non uno fra i sostenitori di quei sistemi improntati al razzismo, all’odio, alla necessaria e indispensabile diseguaglianza fra gli esseri umani, oltre che alla sopraffazione dei più deboli e alla fisica eliminazione di intere categorie di esseri umani, ebbe mai a muovere una sola parola di critica e di dissenso: non si levarono che sparute, insignificanti voci bisbiglianti. Andava tutto bene, inclusi i campi di lavoro e di sterminio: peccato che la guerra fu persa.
Non molto differente, d’altra parte, fu e tutt’ora è il pensiero di quanti ascrivono a Mussolini l’unico, fatale errore di avere seguito Hitler nel conflitto mondiale: si fosse tenuto da parte, avrebbe probabilmente potuto portare avanti il regime per decenni, magari anche in qualche maniera lucrando la benevolenza dell’occidente schierato dall’altra parte della Cortina di ferro, come riuscirono con successo a fare fino ben a metà degli anni ’70 Franco e Salazar nella penisola iberica. Ci furono penne illustri che cercarono perfino di ridimensionare e ricondurre a coordinate quasi umane la crudeltà di quei regimi – Indro Montanelli fra gli altri: è ora di smetterla con le buone maniere con chi non le merita e ci sputa sopra e chiamare con lo stimma della vergogna cose e persone con i loro nomi. Anche qui, anche in questo modo, con queste parole apparentemente diverse, dall’alto di un titolo di giornalista fino all’ultimo bestione picchiatore, non una sola critica se non quel piccolo particolare del giugno 1940: né allora, né soprattutto adesso.
Ci divideremo anche su questo, nutro pochi dubbi in proposito. Meglio così: sarà più facile riconoscersi e stare dalla stessa parte e tenere distanti anche i sacerdoti della riconciliazioni e delle comunanze di ideali e date, paludati di benevolenza e spirito caritatevole: io non voglio riconciliazioni, perché non ho il dovere di riconciliarmi con chi si richiama a un regime che ha perso una guerra lungamente preparata e dichiarata in nome di un’ideologia marcia, criminale, disumana. Non ho niente da festeggiare con Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non aspiro – e non le vorrei da loro – mani tese di alcun tipo.
Meritava rispetto, in qualche caso, chi quella guerra la perse 75 anni fa: nessuno e dico NESSUNO di coloro che vennero dopo e che anche nel modo più blando si ispirino a chi la dichiarò lo merita, né ora, né mai. Chi ritenga di dargliene, tolga dal calendario la data di ieri: in un anno di giorni per fare la pace e mettersi la coscienza a posto ce ne sono tanti altri. Il 25 aprile è NOSTRO e non è negoziabile, né in vendita o a noleggio.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

COSA C’E’ DA FARE

Lascerei da parte l’enfasi: provare a sottrarvisi, una volta tanto. Non perderei tempo a fare la conta, come suggerisce qualcuno, dall’interno della propria reclusione, mentale oltre che intramuraria.
Eviterei, come suggeriscono costoro – con la sicumera di chi l’aveva già proposto in passato: quasi nessuno l’ha fatto e quasi tutti mentono spudoratamente – di elencare chi propose e mise in atto il progressivo e sistematico depauperamento della sanità pubblica, come pure della scuola, a tutto favore dell’opzione privata in entrambi i casi e in spregio del chiarissimo dettato costituzionale; chi teorizzò la messa all’angolo dello Stato; chi, combattendo una lotta di classe con una forza e una determinazione che avrei voluto vedere nella Sinistra, chiese e ottenne l’abolizione di regole nel campo del lavoro, della sua sicurezza; dei governanti che hanno aderito – ben retribuiti ovvero utili idioti – all’idea di mercificazione della persona, del primato della finanza e della compressione di diritti e retribuzioni; di giornalisti, comunicatori, firme di riferimento che fino a ieri hanno sproloquiato su Europe Unite mitizzate nella testa di ciascuno, rigirando a proprio uso e propaganda le parole di Spinelli, Rossi e altri, straparlando di unioni e solidarietà fra stati, mentre alcuni di costoro si comportavano – e tutt’ora lo fanno – né più e né meno che da mascalzoni in dispregio di qualsiasi regole minima. Di chi, insomma, disse o non disse, fece od omise di fare, mentì per vocazione o sotto ricatto; si tratta di persone già morte o del tutto fuori corso, i quali neanche se lo volessero potrebbero fare qualcosa di diverso. Prendersela con costoro sarebbe l’ennesimo abbaiare alla luna e scegliere l’obbiettivo sbagliato.
Il passato è dietro di noi e la ruota del tempo non torna sui propri passi.
Invito tutti, per contro, quale che sia l’opinione politica di ciascuno, a redigere un elenco dei quanti, OGGI, spendano parole di elogio per la sanità pubblica, per la decenza di una retribuzione, per la sicurezza sul lavoro, per il recupero della dignità umana che va sempre anteposta al valore di ogni singola merce e che alzano alti lai sul progetto europeo, ripromettendosi impegno a chiarire dove cosa come e quando. Prendete, prendiamo nota, nomi e cognomi, di chi ADESSO, parla di tutto ciò: dovrà renderne conto, quando tutto questo sarà finito o almeno ci consentirà non solo di uscire di casa, ma di andare a esprimere il nostro voto, a far sentire la nostra voce.

Cesare Stradaioli

LA BESTIA DA AFFAMARE

Uno degli slogan che più caratterizzarono la parabola politica di Ronald Reagan, fu quello che esortava ad ‘affamare la bestia’: là dove, l’animale feroce – non semplice animale, ma proprio bestia nella sua accezione più vorace e spietata – era lo Stato e affamarlo significava ridurre le tasse, ridurre le spese sociali al fine di mantenerlo in vita quel poco e sufficiente che bastasse per farne un simulacro di arbitro, ché la figura dello Stato come arbitro della società e delle relazioni economiche, così cara al pensiero liberista (e anche liberale: non provino neanche, questi ultimi, a girarsi dall’altra parte, facendo finta di nulla), già di per sé poco più che simbolica, era ritenuta dagli ispiratori del nuovo corso degli anni’ 80, fin troppo invasiva.
Non più cane da guardia: da compagnia, tutt’al più.
Si trattava della rappresentazione in termini brutali e necessariamente riduttivi di un pensiero economico, comunemente attribuito a Milton Friedman e ai cosiddetti Chicago Boys, che ancora oggi condiziona la vita e il futuro (oltre ad averne avvelenato il passato) di miliardi di esseri umani. La sloganistica, alimentata da studi tanto sofisticati quanto del tutto privi di ogni traccia di empatia, era necessaria al consenso elettorale e va detto che il successo fu forse al di là delle aspettative, se è vero come è vero che della messa all’angolo dello Stato si siano invaghiti, per poi a loro volta metterla in pratica, non pochi e non poco illustri nomi di una certa sinistra, principalmente europea e – non ci facciamo mancare mai niente – ovviamente italiana.
Abbiamo il concetto di ‘nemesi’, intrinseco nel nostro essere culturalmente europei, giudaico-cristiani ma, prima di ciò, greci: dovremmo essere in grado di riconoscerla, quando si appalesa e non vederla oggi sarebbe indice non solo di cecità, fisica e morale, ma di vera e propria stupidità, neanche troppo (anzi, per nulla) funzionale. Di più: provare a esserla noi stessi, verso un pensiero che una vera bestia l’ha creata sul serio.
C’è, in realtà, una bestia da affamare, esiste: vive in mezzo a noi. Vive di noi, delle nostre vite, del nostro futuro e perfino dei nostri sogni e va privata del necessario per vivere e riprodursi. E’ il capitalismo che imprime il proprio marchio assoluto sull’esistenza di ciascuno di noi. E’ dotato di svariate teste e a ognuna di queste dovrà essere negato il cibo di cui si nutrono.
Il consumismo sfrenato e idiota; la pubblicità che riempie perfino i momenti del sonno REM, che condiziona modi di vivere e di orientarsi nella società: droga potente e orribile, talmente compulsiva che la si può vedere, in questi giorni, luminosa e splendente per le strade vuote di New York, a mandare i suoi messaggi a nessuno eppure li deve mandare; il bisogno fasullo e indotto di cose inutili e financo di quelle utili che, però, abbiamo già in quantità e – molte di queste – in sovrabbondanza già da tempo; la finanza predatoria, che ha esautorato il vero potere reale di singoli Stati, orientandone le decisioni senza avere alcun serio interlocutore e oppositore, che specula sul prezzo dei cereali e sulle disgrazie; la frantumazione sociale, che ha portato l’IO a sostituire il NOI in qualsiasi manifestazione di vita e riduce al niente la consapevolezza dell’individuo; il potere delle lobby delle armi, che artatamente viene descritto come esclusivo di quella terra di eterni adolescenti armati e pericolosi e invece fiorisce con enormi profitti proprio qui in Europa, a due passi dalla casa di ciascuno.
Non saprei dire se una decrescita possa essere felice, come qualcuno va ripetendo, attirandosi le ironie di altri – peraltro non sempre immeritate: le basi culturali e più strettamente scientifiche di un tale assunto paiono poverissime e però c’è gente che non ha alcun diritto di sollevare critiche in proposito. Ma questa crescita, quella che viviamo da quando è nato chiunque abbia il caso di leggere queste righe, sicuramente non lo è più – per molti non lo è mai stata – e spetta a noi fare in modo che venga più coniugata a misura dell’essere umano e non di un algoritmo che decide chi ne possa beneficiare e chi deve rassegnarsi a rimanere sott’acqua.
Questa è la bestia che deve essere ridotta alla fame. Lotterà con le unghie e con i denti per riprendersi ogni grammo di cibo che le verrà negato, combatterà con ogni mezzo, incluso e per primo il blandire le nostre volontà sostenuta da mass media inverecondi e da tempo comprati e venduti; è infida perché si è inserita nell’animo di ognuno di noi, abituati come siamo a vivere di rendita alle spalle delle sofferenze e delle risorse di altri esseri umani. Ma, soprattutto – e qui sta la sua vera debolezza – è profondamente umana, perché è fatta da esseri umani e come ogni essere umano e vivente, come può essere costruita, può essere ridimensionata, ferita. E se può essere ferita, come diceva quello, può anche essere uccisa.
L’occasione è qui, ora. Quanti di noi – tanti non ci sono più – hanno voluto, desiderato, agognato per tutta la vita, un’occasione, rimpiangendo e recriminando che non ce ne fosse mai stata offerta una? Ce l’abbiamo davanti e spetta solo a noi decidere se e cosa farne. E’ l’occasione per un cambiamento: lo dobbiamo a noi stessi e a tutti coloro che non sanno neanche di poterlo desiderare e beneficiarne.
Il presente è il prologo: poche volte nella storia dell’umanità, lo è stato come lo è adesso.

Cesare Stradaioli

ALTRE ENTITA’

Sono stato rimproverato, pacatamente, ma pur sempre di rimprovero si tratta, di avere lasciato a metà una considerazione. Per citare e distorcere un po’ la notissima rima di uno dei nostri più grandi poeti contemporanei, una persona con cui vanto lunga amicizia si è presa la briga e di certo il disturbo, dopo avere letto il mio scritto relativo all’Europa, di farmi presente come la definizione da me data di ‘entità geografica’, non solo sia poco rispettosa del continente in cui ci troviamo a vivere, ma anche gravemente carente sotto il profilo del senso che, a suo parere, aveva il mio scritto.
Sono talmente grato a questa persona, anche per avere intuito il significato di quanto andavo argomentando – in maniera insufficiente, temo – che non solo mi scuso per la carenza, ma provo anche a rimediare: me la caverò con poche considerazioni.
Di sicuro l’Europa è anche e soprattutto un’entità culturale, di livello mondiale e di durata ultramillenaria: lo è umanisticamente e lo è dal punto di vista scientifico. Ora, di questo, che è un dato altrettanto di fatto quanto lo sono i confini terrestri, noi nati e cresciuti in questa parte del mondo, cui siamo debitori (a tacere di quasi tutto d’altro) della formazione di ciascuno, dobbiamo essere fieri; ma, oltre che a menarne vanto, dovremmo qui e adesso impegnarci affinché questo patrimonio non vada disperso: dato che, a differenza della collocazione geografica, che niente (a meno di un cataclisma talmente epocale da rendere sciocco e inutile parlare di ogni cosa che ci circonda) e nessuno può distruggere o modificare, la tradizione culturale europea è, non da oggi, a serio rischio sfaldamento, se non addirittura di scomparsa.
Personalmente, avendo di fronte a me molti meno anni di quanti mi ritrovo alle spalle, di questo sono preoccupato: che questa dilagante, oppressiva, davvero pandemica forma di dittatura del pensiero che obbliga ciascuno di noi, anche il più refrattario e riottoso ad accostarsene, a vivere e subire l’ansia, la stupidità e la asserita mancanza di alternativa del dominio dell’economia, della finanza, della pecunia quotidiana, il tutto confezionato e venduto da quasi tutti i mezzi di comunicazione come sola e unica igiene al mondo, accantoni, disperda e infine metta in un angolo tutto quello che, in definitiva, noi siamo. Della quale dittatura, che non esito neanche per un momento a chiamare Fascismo, alla luce delle sinistre assonanze per forma, contenuti e modalità di quanto venne e adesso viene detto e da chi, dobbiamo subire i borborigmi, ma della quale non ci è permesso conoscere alcunché, né tantomeno pensare in maniera diversa, poiché pressoché ogni tentativo di riabilitare un minimo di azione davvero politica – che, per sua natura NON può nemmeno prendere in considerazione l’asserito ‘non c’è alternativa’, vera e propria parola d’ordine di chi sta seriamente combattendo una vera e propria guerra di classe – immediatamente si ripercuote verso ogni aspetto della vita di tutti i cittadini, a cominciare da quello più elementare e indispensabile, il vivere una vita dignitosa e poter lavorare per un futuro migliore.
Questo, a mio giudizio, dobbiamo temere, al di là delle sciocchezze profferite da dilettanti allo sbaraglio: l’erosione del nostro patrimonio più prezioso e non rinnovabile, se cancellato, vale a dire la nostra cifra, squisitamente europea, rappresentata dalla nostra cultura, seriamente minacciata da una cricca di operatori di alto livello, robustamente sostenuta da una sempre nutrita schiera di truppe cammellate, che dice di discorrere di economia, mentre per contro parla solo di soldi e attorno a questo totem vuole legare ognuno di noi, ogni Paese, ogni pensiero.

Cesare Stradaioli

EUROPA (DIS)UNITA

Non perderei troppo tempo, non dico a commentare, ma neppure a rileggere o riascoltare le parole di Christine Lagarde, nel suo più recente intervento quale presidente della Banca Centrale Europea. E vorrei anche lasciare da parte, dove meritano di essere messe, determinate osservazioni le quali, allontanandosi dal senso di quanto detto dalla prestigiosa autorità europea, non sono altro che perenni discorsi circolari: nello specifico, a rimpiangere la precedente guida della BCE, quasi che le parole della Lagarde costituissero una mancanza di rispetto nei confronti dell’Italia e null’altro più. Si tratta di giudizi poveri, limitati, portatori di un carattere provinciale che ancora innerva un determinato modo di pensare e intendere tipico di quella che nel nostro Paese potremmo continuare a chiamare classe dirigente, se solo qualcosa da dirigere le fosse ancora assegnato.
Quanto detto dalla Presidente della BCE è molto di più, più chiaro e peggiore, ma è poco rilevante, tanto quanto irrilevante è ripetere sempre lo stesso concetto: non è la sua ripetizione a dover indignare, quanto il solo fatto stesso che sia stato, una prima volta, espresso.
L’Europa, come progetto di unità – federale o transazionale, o anche solo come alleanza politica ed economica – non esiste. E’ ancora e probabilmente lo rimarrà per molti decenni, una mera espressione geografica, dagli Urali a Lisbona, da Linosa a Capo Nord; poi, se a qualcuno fa piacere cullarsi nelle proprie illusioni, mettendo in bocca (o nella penna) di coloro che scrissero il Manifesto di Ventotene, cose puramente e semplicemente inventate, è anche un po’ affare di ciascuno: pur che non lo si voglia spacciare per comune sentire, che sotto quell’aspetto (sentirsi europei, tanto per dirne una) proprio non dà notizie di sé, se non altro perché non può dare notizie di sé chi o cosa non esiste in vita. E ancora: a coloro i quali si ostinano a vedere nel confuso e pasticciato procedere economico (ché di sociale nulla è alle viste) e nell’assoluta inutilità e insussistenza rappresentativa di un Parlamento di assenti pur se presenti in aula, anche solo un barlume di realizzazione del progetto di Spinelli e compagni, già velleitario – e rousseauiano, nel senso più deteriore del termine – per conto proprio, bisogna dire: svegliatevi, che il sole è già alto. Oppure dite chi siete e cosa volete e per conto di chi pensate, scrivete e intendete svolgere una funzione di indirizzo della comunità in cui vivete e operate: così, almeno, vi si conoscerà meglio.
L’Europa, come idea federale, non esiste. Non esiste socialmente, in quanto gravemente carente – per non dire totalmente assente – sotto il profilo della coesione sociale. O vogliamo fare finta che il suo opposto, vale a dire la frammentazione su base etnica, dialettale, storica, non permanga praticamente ovunque, che si chiami nord e sud, catalani e castigliani, inglesi e gallesi e scozzesi, cattolici e protestanti, fiamminghi e valloni, cechi e slovacchi, prussiani e bavaresi, passando per gli anseatici e tutti costoro, momentaneamente e ideologicamente (quindi con cattiva coscienza) uniti dalla propria bandiera, ciascuno contro gli altri che sventolano bandiere diverse, frammentazione alimentata da palesi ingiustizie sociali e lasciata gestire a gaglioffi di ogni nazionalità? La mancanza di solidarietà fra Stati, che va ben al di là dello scherno e del disprezzo da barzelletta da osteria, non manca di farsi notare a ogni evento, ogni occasione, che sia di natura climatica, accidentale o di bilancio.
L’Europa non esiste neppure come entità politica, ché a malapena esistono i singoli Stati che la compongono, tenuti insieme unicamente da un vessillo poco sentito da chiunque e da un insieme di trattati la maggior parte dei quali è nata morta oppure fuori tempo massimo poco dopo. Le parole di Chistine Lagarde, come quelle, ben più scellerate di Ursula von der Leyen, che a fronte della minaccia turca di spalancare le porte del continente ai profughi della guerra in Siria (e, di conseguenza, a molti altri, poiché le migrazioni sono come i corsi d’acqua, scelgono naturalmente la via più facile per scorrere) definì la Grecia ‘il baluardo dell’Europa’, non sono altro che le classiche voci dal sen fuggite, le quali più vengono smentite e più rivelano la loro intima natura: è quello che pensano. Non solo quello che pensano le signore Lagarde e von der Leyen, bensì quello che pensa il tedesco medio, il francese medio, l’olandese medio e così via, includendo anche l’italiano medio – l’europeo medio, in due parole.
I quali, piaccia o meno, sono pur sempre gli elettori ai quali, di tanto in tanto, ci si rivolge. Se non si intende optare per la paradossale proposta brechtiana di cambiare l’elettorato, non potendo cambiare il governo. Il tutto, in realtà, si riduce a molto poco, non essendo necessario dilungarsi in cosiddetti ‘approfondimenti’, che hanno più spesso la funzione di diluire e infine disperdere ogni quesito, perplessità, critica, osservazione. Non c’è rappresentatività (c’è tutto sommato anche poca governabilità, se è per questo, pur se a quest’ultima i cosiddetti realisti sostengono sia necessario il doloroso sacrificio della prima – doloroso certo non per loro, che considerano la partecipazione democratica un fastidio, un disturbo al conduttore); non c’è modo di cambiare, non c’è modo che un’istanza, per quanto rimodellata, rimodulata, emendata fino a far sbiadire grandemente il proprio senso originario, giunga ad avere la benché minima possibilità di essere rappresentata.
Non intendo farmi carico del già nominato comune sentire, compito immane e impossibile per chiunque volesse assumerselo: invito, però, chiunque a volerlo verificare, nel proprio Paese e all’estero. E’ esperienza comune a chi abbia la ventura di avere un certo numero di anni di vita alle spalle: ogni popolazione ce l’ha col proprio governo e questo è un dato di fatto; così come è un dato altrettanto di fatto che una tale considerazione sia inevitabile quanto maggiore sia la popolazione e variegati siano gli interessi sociale ed economici di una determinata entità nazionale, se non altro perché è ovviamente impossibile accontentare tutti – è il motivo per cui qualcuno pensò al sistema maggioritario: chi vince prende tutto, lo sconfitto pensi a costruire la prossima vittoria, invece di lagnarsi del malgoverno degli altri. Ma un conto è il generico e a tratti qualunquista malcontento: altro è lo stordimento, altra cosa è la frustrazione nel constatare un deficit di rappresentanza che non si sa neppure come e quanto colmare; altro ancora è vedere come, sistematicamente, le istituzioni europee non perdano una sola occasione per rimarcare questa sensazione, che si tratti di migranti, di bilanci statali e comunitari, che si tratti di modi di pensare ed intervenire (o non intervenire) che a stento si può definire diversamente da disumani; altro ancora e infine, è toccare letteralmente con mano come la burocrazia, che a parole TUTTI esecrano, sia l’unico tratto comune e costante di qualsiasi iniziativa, attività, perfino pensiero e, sì, azione, all’interno del continente.
Personalmente ho l’ardire di affermare che esista una percezione concreta e fondata di come all’interno di questa Europa Unita, sottoposti non tanto e non solo a una certa politica comunitaria – che, nella pratica non ha valore, non al proprio interno e neppure all’estero, data la palese mancanza di un progetto comune – vincolati a leggi di bilancio e a politiche monetarie che per loro stessa natura o sono indipendenti dalla politica e ne pretendono subordinazione oppure, semplicemente in quanto tali non esistono e, infine, di fatto governati da personalità che non devono rispondere ad alcun elettorato, non essendo stati votati da nessuno e quando dico governati intendo dire che le vite di ciascuno dipendono strettamente da decisioni prese da costoro, ebbene detto tutto questo, i cittadini europei nel loro insieme e presi uno per uno singolarmente, abbiano la sensazione, più o meno definita e precisa che chiunque sia il rappresentante politico da loro scelto, per il proprio parlamento o per quello che siede a Strasburgo, di qualsivoglia tendenza politica, le più estreme fra loro in opposizione ovvero le più blande, accomodanti –  e, verrebbe da dire, ecumeniche – il suo peso politico e, in definitiva, economico, sia uguale a zero, proprio in quando governati da non eletti, dunque da persone che non hanno responsabilità se non avanti a un consiglio di loro pari.
Detta in altre e conclusive parole: che importa quanto dice Lagarde a proposito del rapporto fra resa dei titoli di Stato di questo o quel Paese, quando la politica stessa del credito è loro sottratta? Quando è esclusiva materia – più spesso preda – di un mercato finanziario che non è una maledizione divina e neanche una catastrofe atmosferica, eventi sottratti alla volontà umana, ma proprio da esseri umani creata, gestita e sottratta al controllo di coloro i quali, poi, ne pagano le conseguenze e perciò stesso modificabile se solo fosse possibile e, invece, questa alternativa non viene offerta loro?
Di quale offesa alla solidarietà comunitaria si lamenta (ma anche: di quale solidarietà comunitaria blatera?) chi critichi le parole di von der Leyen, nella sua veste di presidente della commissione europea, quando nello stesso continente che rappresenta vi sono singoli Stati che, offrendo condizioni fiscali vergognosamente più favorevoli alle multinazionali, di fatto assimilando la propria attività a quella di un qualsiasi altro paradiso fiscale, nel concreto svolgono quella che perfino il diritto romano chiamava, condannandola, concorrenza sleale? E neanche nei confronti di Paesi extra europei – il che, già si per sé violerebbe uno dei principi del liberismo economico, ma si sa che i liberali sono prontissimi a vedere la pagliuzza altrui, dimenticando la trave propria – ma a danno dei propri consociati europei?
Non c’è niente di male a essere un’espressione geografica: essendo un dato di fatto, se non altro è anche situazione più facile da affrontare e il farsene una ragione costituirebbe quanto meno una sofferenza minore per i popoli e gli strati più deboli, presenti in ciascuno dei componenti la UE. E, per cortesia, la si faccia finita col mantra, frusto e offensivo per l’intelligenza altrui, secondo il quale un’Europa di Stati bensì sovrani ma volta per volta strategicamente alleati in questa o quella situazione e non costretti in un’Unione ipocrita e sottomessa alla finanza, sarebbe ramoscello in preda alla piena del fiume, al cospetto delle potenze mondiali, giacché quello che vediamo adesso, che molti di noi vedevano trenta e passa anni fa con le prime sciagurate avvisaglie della moneta unica allora chiamata ECU, e che ancora vedremo per decenni, non è altro che una comunità di riottosi, distantissimi per lingua, sostrato culturale e senso di comunanza che si detestano fra di loro, che vivono una condizione schizofrenica di obbligati a obbedire a regole assurde e non democratiche, per poi agire (coloro che ne hanno maggiore forza economica) in ordine sparso e senza il minimo barlume di pensiero e interesse comune: se non è un ramoscello divelto dalla piena, è qualcosa che gli assomiglia molto, per chi voglia vederlo e non è con la retorica autoreferenziale degli europeisti da parata che lo si trarrà in salvo.

Cesare Stradaioli

I CONTI LI FACCIAMO DOPO

L’occasione è di quelle storiche: di quelle che meriterebbero, un domani, una citazione particolare. L’occasione per fare qualcosa di diverso. Per pensare e agire da comunità e non da sommatoria di individui. Poiché un’epidemia è cosa che riguarda tutti, nessuno escluso – e, quand’anche riguardasse qualcuno in meno della totalità dei cittadini, pure se interessasse solo poche migliaia di persone, non di meno affare di tutti rimarrebbe. L’occasione per sciogliere legacci, incrinare mura, abbattere barriere materiali e morali, opporsi a modelli consigliati. In due parole: andare contro. Con urgenza, prima di ogni altra cosa.
Contro l’isterismo di massa, contro la disinformazione, contro il semplicismo, il riduzionismo, il pietismo a tre palle a un soldo e farvi fronte; contro ciò che istintivamente muove chiunque, vale a dire la paura, il timore di essere presi, di trovarci alla parte del malato e vincerla con l’arma del pensiero razionale; contro l’ancestrale aspirazione a una purezza, a una esclusività, a un essere non come quelli là, il che è semplicemente fuori dal mondo, oltre che moralmente inaccettabile, a tutto prescindere e andare oltre. Contro il desiderio di ritrarre la mano, di metterla in tasca, di girarsi dall’altra parte – o, peggio, di fissare l’altro, come a dirgli io sono di qua e tu sei di là – per porgerla, questa mano, guardandolo negli occhi come individuo e non addosso come oggetto.
E’ un’occasione storica: riuscire ad affermarci come consorzio civile, per non restare nella nostra cuccia, stantia e distante da tutto e fallire ognuno come singolo essere umano.
Poi, quando tutto sarà finito, ci sarà tempo per fare i conti e i conti dovranno essere fatti.
Con un sistema rappresentativo che solo i peggiori istinti riesce a spurgare, che della nobiltà della politica ha fatto carne di porco e scudo al fine di regolare per conto terzi questioni legate a gruppi di potere grettamente affaristico. Con un sistema di informazione ispirato da una categoria giornalistica generalmente puttana ottusa mascalzona analfabeta irridente e terrorista, che prima bombarda a tappeto e in seguito manda la fanteria a sparare a raffica, per poi alzare alti lai per tutto il sangue sui muri e sui tappeti e tutto questo al quasi esclusivo scopo di vendere immondi spazi pubblicitari che hanno saturato e intossicato la vita di chiunque. Con coloro che delle vittime se ne infischiano bellamente (facendone pure motivo di vanto, gli infami) ritenendo più urgente e opportuno parlare di mercato e di economia, di punti di prodotto interno e di quotazioni di borsa, penosi e patetici strimpellatori da quartetti d’archi scordati, seduti sul ponte di un Titanic che NON sta affondando ma loro pensano di sì e forse lo sperano anche, sempre con la riserva di trovare posto sull’ultima scialuppa.
E, infine, fare i conti con noi stessi, che a questi individui abbiamo dato credito, mandato, fiducia o non ci siamo opposti con sufficiente forza per revocarglieli e delle cui neghittosità, meschinerie e porcherie assortite – ultime ma non ultime delle quali sciorinate in occasione delle diffusione di una malattia a bassa intensità – siamo, in quanto deleganti, corresponsabili.

Cesare Stradaioli

QUALE VOTO

Fra poche settimane si terrà un referendum concernente l’approvazione o il rigetto della riforma costituzionale che prevede una drastica riduzione del numero dei rappresentanti parlamentari, deputati e senatori. Non ricordo una consultazione di tale portata così silenziosamente in marcia verso la data scelta per il suo svolgimento. Considero con il massimo disinteresse possibile le varie motivazioni che accompagnano questo silenzio, poiché non ve n’è una sola che sia meritevole di trattazione. Quello che, a mio avviso, conta è il permanere del silenzio in sé, che arrivo a definire fisiologico, rispetto a questa consultazione.
E fisiologico non dovrebbe essere, bensì patologico, proprio in quanto si tratta di una decisione di portata epocale – o dovrebbe esserlo, come qualsiasi riforma di rango costituzionale porta in sé. In poche parole, una decisione, ridurre il numero dei parlamentari o lasciarlo com’è sempre stato, che guarda ai prossimi cinquanta, settanta e forse più anni e non fino a lunedì prossimo, com’è diventato uso e costume della politica dei partiti liquidi e deprivati delle relative scuole, connotazione così cara a Veltroni e compagnia cantante. Patologico sarebbe, quindi, che il corpo elettorale, chiamato a una simile decisione, ne fosse disinteressato o, di suo, già portato alla mancanza di interesse. Che sia diventata una cosa, per contro, fisiologica, quasi naturale, è diretta e inevitabile conseguenza dello spappolamento istituzionale che vede il potere legislativo decisamente e quasi definitivamente transitato dal parlamento al governo in carica pro tempore, quale che ne sia la composizione, cioè da uno a un altro dei tre poteri.
Da quanti anni, da quanti decenni assistiamo a leggi che nascono come decreto legge, quasi sempre carente della sua principale caratteristica, vale a dire l’urgenza, per poi essere votato alle Camere spesso con chiamata di fiducia da parte dell’esecutivo che ha, come noto, sessanta giorni di tempo a che sia convertito in legge? Non ce lo ricordiamo. I contorni sono a tal punto sfumati che le – poche – leggi di iniziativa parlamentare finiscono esse stesse con il dover passare sotto le forche caudine della fiducia, sicché le differenze sbiadiscono e consegnano alla società una o l’altra legge che, in quanto approvata, ha un’unica e definitiva ragione d’essere e solo una campagna appassionata può arrivare a portare nelle case degli elettori, come ad esempio, quella che accompagnò i mesi che precedettero il voto referendario del dicembre 2016, che rigettò l’oscena riforma costituzionale del governo Renzi, le motivazioni per discutere, confrontare le ragioni di un referendum e infine votare secondo coscienza e volontà.
Una passione che non si vede, oggi.  Non intendo neppure scendere nel merito delle motivazioni che hanno portato a questa legge, se non per dire che mi paiono fortemente venate del populismo inteso nel modo e senso più gretti e cialtroni, figli di quello scellerato assalto alla diligenza chiamata ‘Casta’, brillante campagna di opinione, principalmente tesa a convincere gli italiani – con ottimi risultati, aggiungo – che fossero marci solo i rappresentanti politici e amministrativi, liberando la coscienza di coloro i quali, non meno marci di loro, li avevano ripetutamente votati e delegati al (mal)governo.
Mi limito a una sola osservazione, più o meno così riassumibile: oggi il rapporto parlamentari/popolazione è più o meno di un eletto ogni 63mila e qualcosa (scenderebbe a circa uno ogni 133mila, con l’attuale legge). Non mi pare una percentuale opinabile e francamente non intravedo la necessita di una riduzione, neppure sotto il profilo grettamente economico – la rappresentanza politica dovrebbe andare indenne da certe considerazioni davvero da bottega – che, peraltro, potrebbe essere ottenuto con drastici ridimensionamenti degli emolumenti e dei benefici concernenti il ruolo di eletto.
Ma, detto della percentuale e così giungo al vero punto della mia osservazione, se nel compilare la Costituzione la maggioranza di coloro che la scrissero ritenne opportuno che 945 parlamentari fossero un numero congruo per una popolazione di circa 35 milioni di persone – cito a memoria degli studi scolastici – all’epoca costituita, oltre a tutto, in buona parte da analfabeti e cittadini scarsamente in grado di comprendere un testo scritto anche di breve corposità, il numero dei parlamentari, 70 anni e qualche decina di milioni di abitanti in più, caso mai dovrebbe essere aumentato, anche per venire incontro a quello che dovrebbe essere un incrementato bisogno di partecipazione – e se tale non fosse, come di fatto non è, dovrebbe diventarlo, facendone obbiettivo civile di eletti ed elettori – certo non ridimensionato.
Ma qui si pone un’ulteriore serie di questioni: teniamo davvero a questo parlamento? A questa forma di democrazia indiretta? Seriamente riteniamo più importante la governabilità, quando essa si ponga in alternativa e a discapito della rappresentanza? Basta decidersi e agire di conseguenza, anche per non rimanere costantemente impantanati in una mediocre via di mezzo che nulla decide e nulla cambia.

Cesare Stradaioli

NON SI ABBANDONA LA MEMORIA

In natura, come è noto, il vuoto non esiste e quando qualcosa si sposta, qualcosa d’altro ne prende il posto.
E’ noto o dovrebbe esserlo: peraltro, si sa che il livello di conoscenza scientifica, nel nostro Paese è clamorosamente e scandalosamente arretrato, il che si manifesta non solo nelle aule accademiche o nella comune vita di tutti i giorni, ma anche nella pratica politica. Non dovrebbe costituire una novità, nell’esperienza di chiunque ma, tant’è: lo è, continuamente, rinnovandosi in maniera inspiegabile. Con questo intendo dire che chiunque sia dotato di un minimo di ingegno nota piuttosto agevolmente come, ogni qual volta presidi quali la legalità e la presenza dello Stato lasciano un luogo – fisico e morale – immediatamente esso viene occupato da altre realtà, necessariamente del tutto diverse, vale a dire abiezione morale, arretratezza culturale, criminalità, che sia micro oppure organizzata. Ne consegue – o dovrebbe – che l’abbandono di un luogo, come potrebbe dire qualsiasi caporale di qualsiasi guerra,raramente si rivela una scelta opportuna e strategicamente vincente.
Tale non è stata, infatti, quella operata dai rappresentanti del Partito Democratico, di abbandonare il luogo di celebrazione della giornata dedicata alla tragedia delle foibe, nelle vicinanze di Trieste. Irritati per la piega che aveva preso la celebrazione, definita anche da osservatori neutrali come una bieca manifestazione di propaganda negazionista, sia per le cose dette, sia per la qualifica degli oratori che le pronunciavano, i suddetti rappresentanti, un ex democristiano, già stretto collaboratore di Francesco Cossiga (e questo, già di per se dovrebbe qualificare il personaggio) e l’ex presidente della regione Friuli Venezia Giulia (di natali romani e infatti durante il suo mandato stava più tempo nella capitale a puntellare il governo Renzi che a occuparsi della Regione di cui era stata chiamata a prendersi cura – “sfrutto i trasferimenti notturni in treno per svolgere il mio mandato”, soleva ripetere con una certa boria e si vedeva: la carenza di sonno non aiuta a vivere bene, figuriamoci a svolgere una qualsivoglia attività politica – hanno deciso di lasciare il luogo e la manifestazione. Si tratta, in tutta evidenza, di un grave errore, politico e culturale.
Non importa quanto menzognere, strumentali, offensive alla memoria (il solo spendere la parola ‘genocidio’, come ha fatto la presidente del Senato, a proposito delle foibe e con questo metterla linguisticamente sullo stesso piano della Shoah, è di per sé oltraggioso) fossero le parole e le rappresentazioni usate; non importa che molti di costoro abbiano sfruttato l’occasione per fare l’ennesima e stucchevole propaganda politica che poco o nulla aveva a che vedere con le vittime delle foibe, essendo per contro praticata a esclusivo uso e consumo elettorale; anzi, proprio per queste ragioni il PD, nella persona delle figure mandate in loco col preciso scopo di parlare di Storia, doveva rimanere. Non fosse altro che per un motivo già valido per conto proprio: lasciare un auditorio significa consegnarlo a una voce unica. Poi, dopo, non ci si lamenti degli episodi più o meno nostalgici del Fascismo, peraltro mai completamente scomparso nel nostro Paese, fin dal 26 aprile 1945.
Va detto come non sia del tutto colpa loro: né dei due pallidi rappresentanti e neppure del partito come gruppo di elettori e figure istituzionali. Detta colpa va interamente ascritta al Partito Comunista Italiano e all’Anpi i quali, nel corso dei decenni, sistematicamente ignorarono, quando non coprirono, quanto accadde nelle zone intorno a Trieste – non solo foibe, dunque, ma anche ben altro – escludendolo dalla ricostruzione storica di un nobile fenomeno quale la Resistenza. Nobile, perché se è vero che il fenomeno socio-politico chiamato Fascismo sia di genuina matrice italiana, allo stesso modo lo è la Resistenza, non presente nell medesime forme in alcuno Stato europeo (men che meno in Germania) durante il secondo conflitto mondiale.
Bisognava parlare delle foibe. Era una questione di onestà storica e intellettuale: proprio perché era necessario farlo in un Paese, a tratti decisamente anticomunista e fortemente refrattario al cambiamento e all’idea di prendere definitivamente le distanze dall’orrore del Fascismo, e specialmente riguardo a fatti accaduti in una Regione la quale, per motivi di strategia geopolitica, era diventata l’ultimo baluardo contro l’Unione Sovietica, fortilizio di opposizione alla Cortina di Ferro e di importanza fondamentale per l’Europa della Nato e, dunque, Regione ancor più profondamente anticomunista e nostalgica del precedente regime.
Onestà intellettuale e opportunità politica – perché, poi, le mani si devono sporcare, in un modo o nell’altro – lo imponevano; se ho, dentro di me, il coraggio di dire la verità, specie se dolorosa e grave e umanamente terribile, una verità che richiede chiarimenti di spessore epocale, nel momento in cui compio questa operazione, di fatto lascio il mio antagonista politico – che di quella verità si potrebbe servire, e l’avrebbero immancabilmente fatto, per riscrivere la storia alleggerendo le proprie pesanti responsabilità e ricaricarle tutte altrove – con in mano una temibile arma scarica. Così non è stato: il che, dopo decenni di silenzio (che, a tratti, purtroppo somigliò sinistramente a una banale forma di negazionismo e il negazionismo non è mai banale), ha fatto in modo che di quella tremenda porzione di Storia fu accreditata a parlare una pletora di rappresentanti della destra più schifosa, opportunista, ignorante, berciante, analfabeta. Nei corridoi di partito e nella dirigenza partigiana fu deciso di scopare la polvere sotto il tappeto e prima o poi i tappeti si gonfiano e furono chiamati a occuparsene gli eredi politici di un fucilatore di partigiani e i corifei di un pregiudicato pericolosamente vicino alla mafia, proprietario di reti televisive con le quali ha manipolato e tutt’ora manipola decine di milioni di cervelli. Stupirsene è sciocco, se si considera quanto detto sul vuoto lasciato.
Era necessario parlare delle foibe, da subito, fin dai tempi in cui l’identità e l’appartenenza di Trieste era dibattuta e contesa, come in una grottesca causa di rivendicazione di confini. Sarebbe così stato agevole, istruttivo e – non vi si insisterà mai a sufficienza – intimamente onesto, spiegare il perché accadde l’orrore delle foibe, inquadrarlo in una precisa collocazione storica, non dimenticando quanto tutti coloro che vivono nelle vicinanze sanno benissimo, vale a dire che la pratica di infoibare qualcuno risale a secoli addietro, per qualsiasi motivo, politico o personale.
I rappresentanti del PD dovevano rimanere e parlare, spiegare, perfino confessare gli errori di un passato: a essere chiari e schietti non si sbaglia mai e si rischia perfino di recuperare un elettorato malinconicamente deluso, anche sul piano umano, da un certo ceto politico. Adontarsi adesso di quanto è accaduto, l’altro giorno come 70 anni fa a Bassovizza, è pratica ridicola e particolarmente stupida, poiché da l’idea di voler ricostruire la Storia con bende e cerotti e di voler giustificare le foibe come risposta alla vera e propria pulizia etnica che il Fascismo praticò in Jugoslavia prima e soprattutto durante la seconda guerra mondiale, il che significa, fra le altre cose, equiparare i due fatti, il che è inaccettabile. Parlare, ora, di quanto accadde nella zona di Bassovizza, a maggior ragione dopo l’abbandono della manifestazione, dà l’idea di essere quello che è, vale a dire una giustificazione.
E’ pur vero, come disse tempo fa Moni Ovadia, che non è che una mattina Tito si svegliò e decise di ordinare di infoibare gli italiani ed è altrettanto vero e mostruoso che a pochi chilometri da Bassovizza, in pieno centro a Trieste, si trovasse l’unico campo di raccolta e sterminio non tedesco e non polacco, ma questo ha un significato relativo, in questa presente situazione. Poiché in guerra non si può e non si deve giustificare nulla, ma solo spiegare tutto: perché comincia, come si sviluppa e in che modo finisce. Come sanno tutti gli storici e le popolazioni che vissero la fine di ogni conflitto, quando una guerra giunge agli ultimi mesi accadono sempre cose orribili e disumane, solitamente le più difficili da raccontare e ricordare, ma proprio per questo necessitano che lo si faccia.
Per non lasciare la pratica della memoria a chi non ne ha, storicamente e politicamente, il diritto.

Cesare Stradaioli

L’IGNORANZA HA IL POTERE

Raramente l’ignoranza merita il dileggio. Non lo meritava la serva di casa, totalmente analfabeta, delle cui frasi infelici ridevano il padrone, i padroncini e tutti gli altri poveri servetti: non era previsto il rispetto, considerati i termini qualificativi delle persone, che rendevano ovvio il dileggio. Non lo meritava neppure la disgraziata frase sulla speranza di cavarsela, attribuita a un oscuro ragazzetto meridionale – e, forse, detta mai e solo invenzione mediatica – e certamente non era lecito il praticarlo, anche per un minimo di buona educazione, oltre che appunto di rispetto, da parte di chi, dall’alto della propria, supposta, superiorità culturale, ci ha scritto libri e girato film.
Ma il dileggio se lo deve prendere tutto il rappresentante comunale triestino, a proposito della sconsiderata frase che avrebbe dovuto manifestare il suo disappunto nei confronti della senatrice Liliana Segre, colpevole di avere affermato che Gesù fosse ebreo. Va detto, però, che il dileggio (meritatissimo: il tizio in questione non è figlio della gleba e non pare essere cresciuto in zona ad altissimo tasso di criminalità ed emarginazione) rischia di oscurare l’altra, di gran lunga sua più grave mancanza e, proprio per questa ragione, dovrebbe essere moderato e breve: possibilmente esteso, oltre che a lui come singolo, anche chi lo ha candidato e chi lo ha votato – costoro dovrebbero provare una sostanziosa vergogna per avere consentito a un simile personaggio di ricoprire un ruolo istituzionale.
La gravità di quanto esternato dall’individuo sta non solo e non tanto nella sua piramidale ignoranza, (se possibile rinforzata dalla confusione che evidentemente deve avere in testa, nell’essersi qualificato come cattolico e non già anche come cristiano: eccessivo pretendere che il tizio sia al corrente dell’esito del Sinodo di Jamnia), che l’ha portato a ritenere una bugia la definizione di ‘ebreo’ nei confronti di un predicatore nato a Nazareth, al cui nome è intestata una religione diretta discendente dal giudaismo – la pratica del parlare a vanvera è largamente diffusa a tutti i livelli – quanto piuttosto per il fatto che per costui la qualifica di ‘ebreo’ sia, di per sé, offensiva. Il tutto viene reso ancora più grottesco, solo che si consideri come abbia preso la parola (sperabilmente a verbale di assemblea comunale: a futura memoria) uno che vive in una città, dove è impossibile percorrere cinquanta metri a piedi senza imbattersi in un luogo, una statua, una via, un nome, una manifattura, un’impresa commerciale, un qualcosa di culturalmente rilevante a livello universale, direttamente connesso con l’ebraismo. Una città in cui fu in attività l’unico campo di sterminio non polacco e non tedesco – la Risiera di San Sabba – e ciò vorrà pur dire qualcosa, anche per colui a cui manchino i fondamentali della conoscenza.
Sarà anche sfortunato, secondo Brecht, il Paese che ha bisogno di eroi: certo, quello che deve assistere a simili spettacoli presenti nelle sedi istituzionali, più che sfortunato è disgraziato; in buona parte lo è anche per colpa propria, perché è evidente la stretta connessione fra simili, ignobili manifestazioni di ignoranza (per non usare altri termini) e una scolarizzazione talmente insufficiente da non essere riuscita a fissare nella mente di uno studente una verità semplicemente indiscutibile e che fa parte – o dovrebbe – della nostra radice culturale.
Faremmo (e faremo) volentieri a meno, trovandoci a Trieste come spesso ci accade, di incontrare quel rappresentante comunale, che non merita lo si chiami per nome – anche il nome bisogna meritarselo. Non di meno, dovesse succedere, ameremo provare ad aggiungere al suo magro patrimonio culturale (tremano le vene e i polsi a usare, riferiti a lui, sostantivi di tale portata) una ulteriore, forse, per lui esiziale, informazione; Gesù Cristo non solo era ebreo: era pure palestinese.

Cesare Stradaioli