RICONOSCIMENTI – Lettera aperta a Liliana Segre

Gentile signora Segre, Senato della Repubblica Italiana
ignoro chi per Lei si occupi, consapevole Ella o meno, di questioni che hanno a che vedere con il conferimento della cittadinanza onoraria in questo o quel Comune.
Quand’anche fosse Lei in prima persona – fatico non poco a crederlo – ad avere a che fare con determinati passaggi, ugualmente mi rivolgerei a Lei come segue.
Signora Segre: La prego di chiamarsi fuori da queste grottesche situazioni. 
Non mi importa nulla né del sindaco di Biella né di quello di Sesto San Giovanni – al più, mi compiaccio delle motivazioni con le quali Ezio Greggio ha rifiutato la cittadinanza che gli era stata conferita: ha usato parole di rispetto e di grande misura, merce rara nel nostro Paese e mi è toccato sentirle da un comico; mi importa di Lei, della Sua figura e di ciò che la Sua testimonianza significhi.
Viviamo, come Lei sa bene, in un Paese caratterizzato da faziosità, talmente forte da dare l’idea che, su questo, poco o nulla sia mutato da quando, due secoli fa Giacomo Leopardi scriveva non senza amarezza di come l’italiano medio preferisca, in luogo di sostenere le proprie idee e di convincere altri della loro bontà, distruggere quelle altrui, spendendo in ciò più tempo e fatica. Un Paese abitato da gente incattivita, incarognita, ridotta a gretta manovalanza e transito di cibo e di vari altri consumi. Dimentico, per costituzione e per diseducazione, di quanto e come sia successo, nel passato proprio e di altri popoli.
Lei è stata nominata senatore a vita da un uomo di grande equilibrio e saggezza, che ha riconosciuto – e noi concordiamo col Presidente Mattarella – nella Sua figura l’onore che Lei ha reso all’Italia; il che la differenzia non poco da coloro i quali al seggio del Senato sono giunti dopo essere stati selezionati, non di rado con motivazioni poco edificanti e talvolta votati di malavoglia o in cambio di favori di vario genere. I meriti che Le sono stati attribuiti parlano per Lei, anche se immagino avrebbe fatto volentieri a meno dell’esperienza che La porta in giro per le scuole a renderne testimonianza. 
Per questo, Lei è cittadina italiana di TUTTI i luoghi, di TUTTE le migliaia di Comuni che compongono la Repubblica: Lei non ha bisogno di altri riconoscimenti, di cittadinanze onorarie. Soprattutto, né Lei né quello di cui Lei parla e ricorda e infine noi tutti, abbiamo bisogno di sentire rispondere di no, a relative proposte. Risposte negative che, in taluni casi, sono anche motivate, quanto meno sotto il profilo formale, per quanto irrigidito da una certa burocrazia: ‘cosa ha a che vedere con il Comune di Sesto, Liliana Segre?‘ afferma il sindaco e non ha neanche tutti i torti.
Ne converrà anche Lei: i cretini, gli ignoranti, gli imbecilli, gli analfabeti, i fascisti, i razzisti, gli antisemiti o semplicemente i sempliciotti che riescono comunque a mettere in fila due frasi dotate di senso, come il primo cittadino della ex ‘Stalingrado d’Italia’, godono già di spazi in sovrabbondanza per riversare i peggiori reflui dai loro intestini mentali; non mi pare il caso di offrirne loro di ulteriori.
Perché lo sappiamo: dietro un rifiuto di cittadinanza onoraria alla Sua persona, c’è sempre qualcuno (e non sono pochi e, per quanto sia banale dirlo, tanti fanno tanto rumore, pochi non li sente nessuno) che dalla faziosità secerne volgarità in merito a cosa vuole questa vecchia ebrea che non si accontenta del clamore mediatico di cui gode e la scorta e altre amenità che avviliscono anche solo a sentirle in lontananza e queste sono cose che fanno male e suscitano rabbia e neanche di questo noi abbiamo bisogno. Lei, per prima.
Vorrei, pertanto, che prendesse le distanze da queste procedure: a Lei, per fortuna e per Suo merito, non servono a nulla, in compenso accatastano utilità verbali e non solo a personaggi quali l’ex ministro degli Interni e i suoi lugubri corifei. Altre distanze fra Lei e loro si misurano anche in questo modo. Senza le chiavi di questa o quella cittadina: di orpelli, gonfaloni e bande musicali ce ne sono già anche troppi in giro.
Rispettosamente,
La saluto

Cesare Stradaioli – inoltrata novembre 2019

NON BASTA

Una sentenza, perfino i primi passi di un’indagine, arrivano sempre DOPO.
Dopo che un fatto è accaduto – o si presume che lo sia. E’ il motivo principale per il quale ritengo di non dover credere nella giustizia: nel diritto, se mai. Se da un acquario si può trarre una zuppa di pesce ma logicamente non è possibile avere il processo inverso, allo stesso modo neppure la sentenza più equa, meditata, ponderata, perfino quella più spietata, pesante, innervata di spirito di vendetta e cieca rivalsa può riportare in vita un corpo morto. Ma non basta: neppure una sentenza, mai ma specialmente nel caso dell’uccisione di Stefano Cucchi.
La giustizia non basta, perché ieri giustizia non è stata fatta e non solo perché, passata l’emozione del momento, la famiglia di Stefano Cucchi prima o poi comincerà seriamente, più di quanto abbia fatto finora – certamente sarà stato fatto tantissimo – a convivere con la certezza che qualcuno non c’è più. E se non è sufficiente sapere che, forse (esistono pur sempre dei gradi di giudizio in questo Paese) due persone trascorreranno anni in prigione, a maggior ragione non lo è se costoro non sono altro, per la coscienza di tutti, che due capri espiatori.
E così, avremo due persone, indegni non solo e non tanto di portare la divisa, ma anche di chiamarsi cittadini, coperti di indignazione e allontanati come appestati dall’Arma di appartenenza e, verosimilmente, da amici e una buona parte di parenti, porteranno con sé lo stigma dell’omicidio aggravato, pur se avvenuto oltre le intenzioni: finirà tutto lì, quando diventerà definitiva una sentenza nei loro confronti, quale che potrà essere. E cambierà poco, anche se dovrà essere di assoluzione.
Perché altri, tanti altri, avrebbero dovuto trovarsi sul banco degli imputati, insieme ai quei due. Questi ultimi hanno preso a botte, a calci in faccia (gesto potenzialmente letale anche subito), a pugni e sberle un uomo, quello che viene chiamato tossico: può essere che in quella situazione si fosse comportato come uno che imprecava, che insultava, magari, insolente e insofferente per l’autorità, capace di far saltare i nervi anche alla più mite e tollerante delle persone. E forse no, non lo sapremo mai e non ci interessa. In ragione della mia professione potrei scommettere una cifra anche non solo simbolica, di avere avuto a che fare con simili individui in misura maggiore di quanto sia capitato ai due carabinieri, sicché posso dire di saperne qualcosa a proposito di quanto possa essere difficile rapportarcisi. Ma quei pugni, quei calci in faccia, quelle sberle, quella rabbia o esasperazione, si sono manifestati in un solo, ridotto periodo temporale; altri hanno visto i segni, hanno sentito i lamenti: e non hanno mosso un dito.
La scorta che lo ha accompagnato in tribunale per la convalida dell’arresto; i cancellieri presenti in aula; lo stesso avvocato d’ufficio; il giudice che ha disposto la detenzione; gli agenti di polizia penitenziaria; il personale ospedaliero, medici e ausiliari. TUTTI costoro, in momenti diversi hanno visto i segni, hanno sentito i lamenti, hanno ascoltato le richieste di aiuto e anche e soprattutto il silenzio, del tutto preoccupante – lo sa bene qualsiasi studente di medicina al primo anno di corso – in chi abbia subito colpi alla testa. Tutti costoro si sono resi conto dello scempio umano provocato dai due che sono stati condannati ieri e non hanno fatto nulla. Non si sono fatti domande: peggio ancora, se per caso se le sono fatte. Non hanno chiesto o prestato soccorso, non si sono rivolti a chi di dovere, non hanno chiamato, non hanno telefonato, non hanno scritto referti o verbali – in un Paese in cui si scrive troppo e inutilmente. La loro vita è passata vicino a quella di un ragazzo pieno di lividi, di segni, barcollante, gobbo, chino, storto, sofferente e ne avrebbero avuto più pietà se si fosse trattato di un cane abbandonato.
Vili, codardi, uomini e donne senza spessore, malvagi dentro o solamente vuoti, aggrappati al tengo famiglia, all’obbedienza cieca e idiota, al timore delle conseguenze; uomini e donne di poco valore, come di poco e sporco valore sono le lamentazioni che chiunque di loro verosimilmente rivolge alla politica o alla società, per i motivi più svariati, sdegnati per la corruttela di cui si macchia chi è stato da loro stessi e per primi votato. Valore scarso e sporco perché scarsi e sporchi sono LORO, miserabili uomini e donne di cartone, attaccati solo ai propri interessi del piccolo e lurido quotidiano e ciechi per calcolo, stupidità, convenienza. Qualcuno, personale medico interno al circuito carcerario o a quello esterno, è stato processato e assolto. Non mi interessa, non ci deve interessare. Esistono responsabilità che vanno oltre quella penale, la quale nella sua procedura deve seguire determinati percorsi di garanzia che spettano di diritto a chiunque venga chiamato a rispondere di fatti penalmente rilevanti. La stessa garanzia non può e non deve essere invocata per quanto riguarda responsabilità morali. Chiunque abbia visto come era ridotto il corpo ancora vivente di Stefano Cucchi ha concorso nel suo calvario che, a differenza del pestaggio, è durato ore, giorni e di questo concorso rispondono con la presunzione di colpevolezza, direi quasi insormontabile, che resiste e va logicamente oltre alla pronuncia di un giudice, che tratta di diverse responsabilità. Le loro, quelle di tutti noi, non si trovano nel codice penale, poiché qualunque codice scritto è incapace di contenerle tutte, per numero e significato.
La sorella di Stefano Cucchi ai augura che il fratello possa finalmente dormire in pace. Spero che, a fianco della consapevolezza di non averlo più vicino, questo pensiero le porti almeno un po’ di pace. Quella che noi non possiamo e non dobbiamo avere: per disgrazia sua e dei familiari suo fratello non è più fra noi, mentre tutti costoro, colpevoli di indifferenza continuano a viverci accanto, a decine, a migliaia, a milioni, a lordare la loro e la nostra vita ed è proprio un pensiero rivoltante.

Cesare Stradaioli

 

NON NE HANNO IL DIRITTO

Non ne avete il diritto.
Potessi incontrare, anche uno per uno, tutti coloro che, avendo un passato di elettore di sinistra, nelle recenti elezioni amministrative in Umbria e nelle precedenti europee, politiche e regionali, hanno votato la Lega di Salvini o Fratelli d’Italia, lo ripeterei fino allo sfinimento: non ne avete il diritto.
Avete il diritto – e non sono certo io a conferirvelo: ognuno di noi, in questo Paese, nasce dotato di questo arnese – di prendervela con chiunque.
Avete il diritto di criticare la Sinistra, sotto qualsiasi forma si presenti: l’assessore, il parlamentare, lo scrittore, l’intellettuale, il giornalista, il regista, fosse anche l’amministratore del condominio. Senza fare sconti a niente e nessuno; questo governo, tutti gli altri degli ultimi quarant’anni nei quali, in un modo o nell’altro, ne facesse parte un’idea di Sinistra, e più indietro, fino al PCI di Berlinguer, al leader scomparso stesso, alla deriva da aperitivo del PSI craxiano e ancora più nel passato, le scellerate opzioni su divorzio e aborto.
Avete il diritto di andare sotto casa di ognuno di loro, a protestare, a rinfacciare questa o quella scelta strategica, questa o quella alleanza, questa o quella campagna elettorale, fino a giungere a fare le pulci nei dettagli a questa o quella cosa detta, intenzionalmente o meno, a mezza voce e perfino nel sonno; chi si trovi oggi a rappresentare la Sinistra, non se ne adonti: anche in politica esiste la successione, testamentaria o meno e nessuno se ne chiami fuori. Oppure torni a vita privata. Le manchevolezze di chi viene prima possono e debbono ricadere su chi prenda il suo posto.
Avete il diritto di fermarli per strada – e, tanto per cominciare, protestare contro le indecenti scorte che, lungi dal proteggere il personaggio, di fatto lo allontanano dai suoi elettori e anche da coloro che intendono rivolgergli un più che legittimo appunto – e rovesciare loro addosso la vostra indignazione per la corruttela, per la precarietà della vita vostra e di quelle di parenti, amici, conoscenti; di chiedere loro conto di cosa sia stato fatto e perché, oltre a cosa non sia stato fatto, con relativa spiegazione.
Avete il diritto di far notare loro a cosa abbia portato l’abbandono degli ideali, delle tematiche progressiste; a cosa, a chi abbia portato l’abbrutimento del loro livello culturale; la narrazione sul cosiddetto ‘partito liquido’ – che se, oltre che un’idea politica squinternata, non fosse un’immagine idiota in se e soprattutto facilmente accostabile a determinate funzioni organiche, sarebbe anche buffa e invece è tragica; la deficitaria critica alla professionalità della politica, incredibilmente paragonabile alla sciocchezza anni ’70 della ‘musica ai non musicisti’ (se non che, la maggior parte di coloro che la pronunciavano aveva vent’anni e tutte le scusanti del mondo); l’appiattimento totale per quanto acefalo alle coordinate di mercato e badate bene di ricordare loro che Renzi è uno degli effetti, non la causa, di una simile sciagura.
Avete il diritto di chiedere conto, subito, non alla prossima campagna elettorale, delle privatizzazioni, dei costi umani e materiali dell’aver consegnato ai privati (i quali, anche operando onestamente, prima di tutto devono rendere conto agli azionisti e non ai cittadini) le chiavi di questo Paese, con la conseguenza, fra le altre, di avere, riguardo a energia, telefonia, internet, le tariffe grottescamente più alte in Europa.
Avete il diritto di prenderli uno per uno, rappresentanti sindacali inclusi – e, vorrei dire, per primi – una volta la giorno tutti i giorni della settimana e due volte alla domenica, anche per strada; avete il diritto di farlo anche mentre sono a pranzo o stanno facendo la spesa, perché per chi fa politica o si occupa di tutele sindacali non esiste il ‘fuori servizio’, privilegio riservato a chi lavora; e quando li disturbate, avete il diritto di rinfacciare loro tutte le scelte, fatte e mancate, avete il diritto di gettar loro addosso un quotidiano qualsiasi che parli di disoccupazione, giovanile e non, delle stragi sui luoghi di lavoro (e anche sulla via per andarci o da cui fare ritorno), dei disastri geologici, della metastasi criminalità organizzata, progredita in ogni ganglio statale, dell’ignoranza di ritorno, del predominio assoluto e incontrastato per quanto indiscusso e indiscutibile della pubblicità nelle vite di chiunque, dell’incapacità, reciproca, fra loro e le istituzioni europee, di quanto meno imbastire un dialogo e un’azione che possa degnamente chiamarsi politica e via discorrendo.
Avete, infine – tenendo a mente Rousseau quando sosteneva come i cittadini inglesi avessero una percezione errata della libertà di cui godevano o credevano di godere: la quale, in realtà, secondo lui si realizzava solamente per un giorno ogni quattro anni, quando si recavano alle urne per votare; il resto del tempo, fino alle elezioni successive, altro non era che delega, per lo più cieca e scarsamente interessata a cosa portasse – il diritto di rifiutarvi di votare, esercitando tale libertà anche in questo modo. Di manifestare la vostra protesta annullando la scheda, stracciandola davanti al seggio, cosa che qualifico come civilissimo modo di indignarsi, scrivendoci sopra quanto più riteniate politicamente opportuno, arrivando fino a pretendere legittimamente che non tanto l’astensione, quanto l’annullamento del voto sia conteggiato come manifestazione precisa e determinata del potere che il popolo, stando alla Costituzione esercita, proprio attraverso il sistema elettorale.
Di tutto questo, avete il diritto: e non pare poco, davvero.

Ma non avete il diritto di orientare il vostro voto a chi anche solo giustifica e propala – nel concreto ne fa pratica – il fascismo, la xenofobia, la discriminazione razziale e di genere, il terrore sociale, l’odio verso l’identità diversa, l’antisemitismo, il giustificazionismo, il revisionismo storico. E’ chiaro: ognuno parli e soprattutto ascolti la propria coscienza e quel barlume rimasto di legge morale che porta con sé; ma, a meno che non siate voi stessi, intimamente convinti di essere quello che sono e che mettono in atto quelli che avete votato – in questo caso, non solo avreste piena facoltà di votarli: vi spetterebbero, con pieno merito reciproco, aggiungerei – non avete il diritto di votarli.
Voi, specie nelle Regioni storicamente guidate da amministrazioni di sinistra o, comunque, progressiste e illuminate, che siete cresciuti nel progresso sociale, nella promozione e attuazione della cultura per chiunque, nell’emancipazione dalla povertà, nel dialogo, in una politica tesa fare uscire l’Italia dal provincialismo e dall’arretratezza, voi che da tutto questo avete avuto infinitamente più di quanto avevano i vostri e nostri padri e nonni (o che, per limiti culturali, non volevano o ritenevano di non averne bisogno), con in più la seconda o terza auto, il secondo o terzo abbattitore per il pesce, l’idromassaggio, il ventesimo cellulare, le doppie vacanze, la migliore sanità al mondo, ma anche se solo aveste fatto solo un passo in avanti – là dove, in altre realtà regionali, se mai di passi ne sono stati fatti indietro; voi che non potete sottrarvi all’obbligo di guardare cosa succede al di fuori del cortile di casa, qui in Italia e soprattutto nel mondo, non avete il diritto di votare il peggio, solo perché avete o credete di avere per strada un certo numero di esseri umani fuggiti dalla guerra e/o dalla fame, perché viene tassata l’auto in regalo al primogenito, perché le Procure, oltre che alla cosiddetta ‘casta’ (peraltro eletta e non al potere a seguito di un colpo di stato), hanno rivolto attenzioni e indagini verso qualche vostro amico o conoscente, dato che se c’è un corrotto – politico – ci sarà pure un corruttore – privato cittadino – o semplicemente perché qualcuno di sinistra (tantissimi, bisogna dirlo) dice stupidaggini.
Non ne avete il diritto, per il semplice motivo che le ragioni per cui l’avete fatto e, verosimilmente, lo farete ancora, sono indegne, vili, meschine, indecenti e, detto da agnostico, scarsamente empatiche e misericordiose, considerato che molti di voi alla domenica si recano alla santa messa; ragioni basate sul rancore, la rivalsa cieca e sorda, il risentimento, l’utilitarismo personale, l’egoismo, la totale mancanza di senso sociale e di solidarietà, l’attaccamento a privilegi fondati anche sullo sfruttamento di persone e risorse lontane e, infine, sulla vergognosa mancanza di memoria su come vivevano tanti prima di noi, costretti a migrare.
Avete il diritto – e, per il poco che possa valere, sono con voi – di voler mandare a casa tutti coloro che, pretendendo di essere di sinistra e in questo nome di governarvi, si manifestano inadeguati, pavidi, neghittosi, intimamente corrotti anche senza percepire denaro, ignoranti, mendaci.
Non avete, però, il diritto di sostituirli con gli altri. Con QUEGLI altri: quando va bene liberali a parole e in realtà profondamente assistenzialisti nel loro vacuo e ridicolo tentativo di identificarsi in quella che un tempo si chiamava ‘destra sociale’. Incapaci di essere una Destra seria o, meglio, per nulla interessati a diventarlo, dato che il consenso di cui godono è in gran parte frutto di disinformazione, sciacallaggio politico, puro e semplice sfogatoio di frustrazioni generalizzate.
Poi, come ripeteva Fortini, ognuno coltivi il proprio giardino e spazzi davanti alla porta di casa propria. Per legge si presume che, in quanto aventi diritto al voto, siate maggiorenni e adulti, sicché non v’è bisogno di ricordare, a ognuno di voi che in passato ha votato la propria e altrui promozione sociale, che a ogni azione corrisponde una conseguenza: più di una, talvolta.

Cesare Stradaioli

BALLE SPECIALI

Come la totalità degli italiani, esclusi alcuni rappresentanti sindacali, del governo di allora e dell’azienda, non conosco – se non dalle notizie di stampa: ergo, li ignoro completamente – i dettagli del contratto sottoscritto dalla Arcelor Mittal, operante nell’ex Ilva di Taranto. So di non sapere qualcosa ma, al tempo stesso, so di sapere qualcosa d’altro: nello specifico, in merito alla questione (posto che esista davvero: le fake news sono ben altra e più grave cosa dei gattini nati con due teste) della cosiddetta ‘immunità penale’ di cui, ai sensi del suddetto contratto, dovrebbero beneficiare i dirigenti della multinazionale dell’acciaio, quanto meno rispetto a determinate situazioni interne alla gestione della struttura.
Se non ho compreso male, l’accordo contrattuale rischia di essere vanificato, con conseguente disimpegno da parte dell’Arcelor Mittal, proprio in relazione al fatto che tale ‘immunità’ non verrebbe più garantita, pur se sottoscritta. Se le cose stanno in questo modo, bisogna fare chiarezza.
In Italia esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Detta in termini più semplici possibile, CHIUNQUE, a meno che non si chiami Sergio Mattarella (esclusa l’ipotesi di alto tradimento) e che non sia uno dei novecento e oltre parlamentari (limitatamente alla loro attività politica) e tutti costoro per il solo periodo in cui sono in carica, è soggetto a iscrizione a notizie di reato ed, eventualmente, ad azione penale (quando da indagato diventa imputato), sol che la notizia percepita dall’autorità giudiziaria riguardi un reato perseguibile d’ufficio o su denuncia querela. Ciò significa che la competente Procura della Repubblica non può – per calcolo politico, per strategia di indagine, per quello che si vuole – decidere se procedere o meno con le indagini: l’iscrizione a notizie di reato è obbligatoria, nei due casi di cui sopra. Ciò significa, come minimo, altre due cose.
La prima: qualcuno – chi ha pensato questa clausola, chi ha letto la bozza, chi l’ha scritta, chi l’ha sottoscritta, chi l’ha resa nota – ha pensato, letto, scritto e ha menato vanto (il ministro competente di allora: Carlo Calenda, tanto per non fare nomi) relativamente a una solenne e pericolosissima idiozia. Per ignoranza, per dabbenaggine, per stupidità congenita, per conformismo, quello che si preferisce. E su questo ha costruito un accordo da cui è derivato un bonus elettorale, anche questo tanto per cambiare alle spalle dei cittadini, quelli di Taranto, nel nostro caso.
La seconda è un’ipotesi alternativa: è stata scritta eccetera, nient’affatto nell’ignoranza e, al contrario, nella piena consapevolezza trattarsi dell’idiozia di cui sopra, nello specifico intento di giocarsela come un jolly a Giochi senza Frontiere. In altre e poche parole, nel disegno complessivo di quello che, se non possa essere definito ricatto, allora bisognerebbe accordarsi sulle parole. Perché è evidente come, dovesse verificarsi un fatto passibile di notizia di reato, qualora chi fosse interessato opponesse una simile clausola per evitare conseguenze penali, qualsiasi giudice nel nostro Paese – civile o penale che fosse – lancerebbe in fascicolo in faccia a chi la sollevasse, alla stregua di quello che leggenda vuole facesse del libretto universitario un noto docente dell’ateneo padovano al candidato che gli rispondeva in maniera palesemente errata. Che, detta a titolo personale, è quello che meriterebbe un candidato all’esame di Diritto Penale parte generale il quale rispondesse affermativamente alla domanda se una tale clasuola fosse conforme all’ordine pubblico.
Quale sarebbe la conseguenza del lancio del fascicolo dal banco del giudice e, dunque, dove si sostanzierebbe il ricatto? Semplicemente nel fatto che chi aveva preteso l’inserimento nel contratto di una tale bruttura, avrebbe in mano un’arma pronta a essere esercitata: non mi tieni lontani i cagnacci della Procura? E io denuncio il contratto avanti un giudice civile e me ne vado. Non posso ottenerne la risoluzione? Me me vado lo stesso. E’ chiaro che la possibilità di esercitare un simile ricatto consente a chi la maneggi di godere di un enorme potere e non mi pare il caso, sul punto, di aggiungere altro se non, a proposito delle due ipotesi, quanto segue.
Questi sono gli investitori esteri: quelli in favore dei quali piangono lacrime virginali politici, giornalisti e opinionisti da tre palle a un soldo, lamentando il fatto che qualcuno o qualcosa in Italia li tenga lontani dall’investire nel nostro Paese.
E questi sono il ceto politico, giornalistico e (bisogna dirlo) sindacale i quali –  almeno il primo e il terzo – agendo su preciso compito istituzionale a essi conferito da elettori e iscritti, si occupano di questioni strategicamente fondamentali, quali il lavoro, la salute, la gestione dello Stato. E con questo, per citare il grande Peppino, s’è detto tutto.

Cesare Stradaioli

PAROLE, PAROLE…

La stampa odierna riporta la notizia intorno un raduno tenutosi ieri a Predappio, in memoria di sappiamo bene chi: basta la parola, come recitava un noto moto pubblicitario d’epoca. In modo particolare, viene dato rilievo al dato numerico della partecipazione: tremila persone, secondo ‘Repubblica’. Suggerisco un diverso modo di ricalcolare il numero di coloro che hanno dato vita e appoggio alla celebrazione: a mio parere, il numero andrebbe aumentato di tre-quattro unità, come minimo, vale a dire chi abbia pensato, chi abbia scritto, chi abbia controllato e infine approvato la titolazione dell’articolo che, riferito al celebrato, lo nomina “Duce”.
Poiché, a titolo personale, non intendo sottoporre a discussione – e, dunque, all’eventuale modifica delle mie idee in proposito – se si tratti o meno di questione di lana caprina e cioè, in definitiva, di una questione puramente semantica, mi limito alle seguenti osservazioni sulle quali, per contro, c’è molto da dire e ascoltare.
Detta in poche parole: chiunque, quindi ben oltre i tremila e spiccioli di cui sopra, ancora adesso, parlando di Benito Mussolini, lo chiami “Duce”, vale a dire utilizzando non solo un termine altamente onorifico – come è noto, o dovrebbe esserlo, riservato nell’antica Roma ai comandanti e ai condottieri – ma addirittura rinforzandolo con la maiuscola, ebbene costoro di fatto si fanno partecipi della pressoché quotidiana operazione di rispetto e di nostalgia in favore di qualcuno che ha fatto quello che ha fatto e non staremo qui a ripeterlo.
Non si tratta quasi mai né di cattiveria, né di doppiezza; che l’Italia non sia un Paese fascista, ma neppure antifascista è considerazione assodata, sol che la si voglia vedere e percepire con un minimo di attenzione. E’ andata com’è andata: nel 1945 si rendeva storicamente necessario un repulisti radicale – non servivano, se non in limitatissimi casi, plotoni di esecuzione: sarebbero bastate delle collocazioni in carcere ovvero a riposo e al minimo di dignità pensionistica in numero di qualche decina di migliaia – e non è stato fatto: i risultati sono, da sempre, sotto gli occhi di tutti. L’albero della smemoratezza, puteolente per natura, ma nel nostro Paese fiorente in maniera perfino splendida, produce i frutti che sa e questo è quanto.
Che, poi, ognuno di noi o quasi conosca personalmente individui, anche solo a parole lontani dal fascismo e da quello che ha significato, i quali per l’appunto utilizzano, anche senza volerlo – sia detto alla siciliana – il termine ‘Duce’ quando, il giorno prima o quello dopo, chiacchierando con gli amici siano in grado di dire con assoluta disinvoltura che ‘ha ragione Nanni Moretti: chi pensa male, parla male e vive male…’, è un altrettanto certo dato di fatto e non rappresenta altro che un terribile mix di ignoranza e conformismo: i quali camminano fianco a fianco e mai separati, come il Gatto e la Volpe, a menare perennemente per il naso tutti i Pinocchi del nostro Paese, poveri di memoria e di nerbo vitale.

Cesare Stradaioli

QUELLO CHE IL VENTO NON DICE

In uno dei suoi testi giovanili più noti, Robert Zimmermann si chiedeva, fra le altre cose, quante miglia dovesse percorrere un uomo, prima che potesse dire di sé stesso di essere tale. La risposta a tutte le domande che si poneva, come è giusto che sia, prima che al vento, è affidata all’interpretazione del lettore: è, o dovrebbe essere, una delle funzioni dell’arte, uno degli scopi della sia stessa esistenza. Invero, sia detto a titolo personale, quel richiamo al generico amico non pare essere indirizzato a un qualcosa di vivido, di luminoso, quanto piuttosto sembrare una specie di appello rassegnato, disilluso.
Dovremmo noi, forse, domandarci e domandare agli altri: osservando quanto accade in Cile, quanto e come e perché si connoti la protesta fronteggiata dall’esercito, lì come in quasi tutta l’America latina, quante volte dovremo leggere e rileggere, ascoltare e riascoltare, vedere e rivedere e rivedere e ancora rivedere, a cosa porti una politica di sfrenata privatizzazione di quasi ogni tipo di servizi, utenze, gestione delle risorse e della conseguente produzione, amministrazione dell’istruzione, della sanità, del mercato in genere, dalle quotazioni dei titoli alla vendita al banco dei supermercati, quante volte prima di essere convinti che a QUESTO e non ad altro porta l’idea neoliberista, finalmente e felicemente galoppante in una piatta e deserta pianura, non più abitata da vincoli, legami, pastoie, materiali e morali.
Si dice che per la maggior parte delle persone l’ascolto di “Blowin’ in the wind” arrivi, sì fino in fondo, mentre la più attenta comprensione e la memoria del testo si limitino alle prime strofe le quali, per l’appunto, paiono non solo disperate ma addirittura quasi una sorta di presa di distanza, di disimpegno; se non che, il futuro Nobel per la Letteratura, a un certo punto torce la domanda in forma di ammonimento quando, in modo meno aulico e più prosaico e diretto rispetto ai passaggi sulle colombe e sulle bombe, si chiede quante volte serva guardare dall’altra parte, per finalmente fingere di non vedere.
Di nuovo: quante volte ancora dovremo assistere, prima che alle manifestazioni di piazza – che, in quanto tali, rappresentano un effetto necessariamente successivo alle cause che l’hanno prodotto – all’evidenza stessa del disastro umano e materiale cui portano le privatizzazioni. Non c’è se, non c’è ma, non c’è distinguo: ovvero, potrebbero anche esserci; rimane il fatto che, finora, non appare essersi dato un solo esempio di esproprio proprietario che abbia portato a un miglioramento del livello di vita (e, conseguentemente, di partecipazione politica: consumarsi nella ricerca di un lavoro e nelle preoccupazioni insite nella precarietà, difficilmente lascia poi spazio ed energia per agire nel sociale) delle classi sociali, da quella media fino alle meno abbienti. Prova contraria non l’abbiamo ancora avuta, né mai l’avremo. Per contro, SEMPRE le privatizzazioni portano all’arricchimento dei gestori e di coloro che detengono i servizi a esse connessi, con relativo impoverimento delle persone e dei servizi forniti, a meno di non disporre di potere d’acquisto sufficiente per beneficiarne: in maniera magari un po’ più equilibrata nei Paesi europei, più sfrenata, spietata – e, aggiungo, più vera e genuina nel suo essere essenzialmente e inevitabilmente predatoria – altrove. Come, per l’appunto, in Cile, per quello che vediamo, se vogliamo vederlo e non guardare da un’altra parte.
Molte cose sono cambiate, dal golpe del 1973; per certi versi la Storia stessa, a rileggerla, parrebbe appartenere a un intero secolo addietro, invece che a neppure 50 anni fa. Tali sono stati i cambiamenti, che sentire ancora oggi nominare la scuola liberista dei cosiddetti “Chicago Boys” di Milton Friedman induce a riflettere sia sull’immutabilità della natura di un capitalismo che si trovi del tutto libero da obblighi legali e scrupoli morali, sia su quella che in psicanalisi viene definita ‘coazione a ripetere’, che quando da patologia personale, singola, trascende verso una scala di massa è ancora più preoccupante e di difficile lettura, specie in un continente quale quello sudamericano in cui pare non sia mai abbastanza chiaro cosa accada quando il voto (o un colpo di stato: entrambi, in ogni caso, generati da una precisa scelta economica e politica) porti al potere chiunque solo accenni alla sottrazione dei poteri amministrativi e di controllo da parte dello Stato, riducendolo ad arbitro delle contese fra chi cerca e chi offre (più spesso sul libro paga dei secondi).
Facciamo bene a porci le domande: è parte del nostro essere quegli uomini e donne che tante miglia hanno percorso. L’importante sarebbe percorrerle senza guardare da un’altra parte, per quanto sia facile e suggestivo farlo: la libertà è difficile e fa soffrire, queste parole Roberto Roversi metteva in bocca a Lucio Dalla; al punto che viene facile delegarla ad altri, degradandola in questo modo a quella ‘patonza’ che, con la classe e l’eleganza che gli veniva riconosciuta, Gianni Agnelli sosteneva dovesse ‘girare’, come un cabaret di paste (Berlusconi faceva notizia, in ragione dei modi con cui lo diceva e lo prescriveva: il senso rimaneva lo stesso). L’importante, in definitiva, sarebbe che quel tipo di libertà non inducesse a disimpegnarcene come un pesante e fastidioso soprabito, fino a lasciarla andare nel vento.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI NOVEMBRE – Consigliato dagli Amici di Filippo

Si tratta di un romanzo o, almeno, ne avrebbe un’idea di struttura; se non che, è il romanzo stesso che si rifiuta di farsi racchiudere entro schemi già decisi. Meglio definirlo una serie di episodi, ognuno a sé stante e però tutti fra loro connessi, che nel loro insieme separato ma univoco possono essere anche letti a salto, senza un ordine specifico.
Ha solo 24 anni, Peter Handke, quando pubblica “I calabroni” ed è un esordio che già lascia capire, già si fa leggere come la cifra più importante del futuro (e tardivo!) Nobel per la letteratura. La vicenda, se può essere interessante farne cenno, si svolge nell’ambito di un nucleo familiare ma qui, come poi si consoliderà nelle opere successive, la narrazione, pressoché priva di dialoghi, è talmente rarefatta, così distaccata, analitica al punto tale che il soggetto narrante – che è una costante delle sue opere – fa in modo che essa si oggettivizzi nelle cose, negli accadimenti, nel fluire del tempo, che si separano dai personaggi o, in questo caso, dal personaggio principale, diventandolo esse stesse.
E’ questo l’anno – il 1966 – in cui Handke esordisce anche a teatro col celeberrimo “Insulti al pubblico” (il cinema, con Wim Wenders, arriverà più avanti), ma il lato apertamente ed esplicitamente provocatorio praticamente finisce sul palcoscenico: tutto quanto seguirà nei decenni dopo, da “L’ambulante” a “Prima del calcio di rigore”, da “Infelicità senza desideri” a “La separazione”, “Il peso del mondo”  e così via, avrà, proprio a cominciare da questa opera d’esordio, la tipica struttura della narrazione handkiana che, è da ritenere opportuno pensarlo, ha motivato l’assegnazione del premio a Oslo. Niente urla, niente scenate, niente gesti espliciti, niente rumore che non sia quello della vita che passa senza che le varie scansioni narrative riescano a raccontarla del tutto, anzi: il tempo dilatato, lo sguardo quietamente ossessivo di tutte le sue opere, l’esasperante passo che sembra lento ma che, ogni volta, fa ritrovare il lettore da un’altra parte, la scarnificazione dei rapporti fra le persone e il correre delle loro stesse vite, è già tutto in questo primo romanzo.

Cesare Stradaioli

Peter Handke – I CALABRONI – Guanda – pagg. 249, €18

FILOSERBO SARA’ LEI!

Apprendo da alcuni commenti seguiti all’assegnazione dell’ultimo premio Nobel per la letteratura, che essere filoserbi è disdicevole, al limite dell’essere un paio di scalini al di sotto della complicità nei terribili fatti accaduti durante guerra nella ex Jugoslavia.
Ora, il tutto sarebbe meritevole, al più, di un commento ironico o, forse, di nessun commento: non fosse che, all’interno della pletora di commenti ridicoli e idioti, se ne trovano altri più pacati e qualificati e, perciò stesso, più insidiosi. Dei primi, non merita di essere detto nulla, lo dico a titolo personale: si arriva a una certa età in cui si trova che ci sia di meglio e di più urgente di cui occuparsi rispetto alle stupidaggini scritte dagli analfabeti; ci pensi chi benefici di maggiore tempo di vita e di energia, la vita è fatta anche di questo e ha i propri tempi. Quanto ai secondi, bisogna dirlo con forza: la disonestà intellettuale è il loro fango di battaglia e farebbe mestiere astenersi: giusto per misurare la distanza.
Se non che, se le idee e le opinioni vanno rispettate, ciò deve essere sottoposto a condizione che loro il rispetto lo meritino, trattandosi di una strada a doppia corsia. Vorrei astenermi, come detto, dallo scendere su un terreno che, viscido com’è, richiede utensileria adatta, ciò di cui non dispongo: detta altrimenti, chiunque estrapoli, a proprio uso e consumo, frasi e concetti da un contesto più ampio e articolato, per giungere a coloro che piluccano qui e là dichiarazioni, magari prese in momenti di concitazione – non è una scusante: è una spiegazione – per poi utuilizzarle come argomento di un certo livello, ebbene tutti costoro facciano i conti con la propria coscienza, se lo ritengono opportuno. D’altronde, non essendo questo imponibile per legge, per parafrasare il creatore della lingua italiana, l’impulso a esaminare la propria coscienza uno se non ce l’ha, non se lo può dare. Affari suoi.
Se non che, al di là dei giudizi sull’autore, è il termine ‘filoserbo’, inteso come dispregiativo, a essere interessante. E’ necessario dire che si può, a pieno titolo e a buon diritto, sostenere le ragioni del popolo serbo, prendendo le distanze da episodi di vera e propria criminalità di guerra, anzi condannandoli? Direi di sì: è pratica antipatica – l’interlocutore dovrebbe avere la bontà e la capacità culturale di essere LUI a discernere le due cose, ma non si può avere tutto dalla vita – e, però, va fatta, piaccia o meno.
Ora, a parte il fatto che la qualità di uno scrittore è da valutarsi a prescindere dalle sue idee politiche – discutibili entrambe, sia pure sotto diversi profili che vanno tenuti ben distanti e distinti – e quindi evitando con cura di scendere nello scantinato della dialettica, per vedere se questa o quella frase, questa o quella dichiarazione siano o meno compatibili con il consorzio civile in cui uno vive, meritandogli oppure non il premio Nobel, bisognerebbe interrogarsi sul termine. Chi avesse espresso solidarietà col popolo tedesco, vittima tutt’altro che collaterale della tragedia della Seconda Guerra Mondiale – stando bene attento a condannare l’antisemitismo, il suo cieco revanscusmo, il concetto stesso di Reich Millenario, con tutto quanto ne conseguì – sarebbe stato gratificato della qualifica, dispregiativa e vergognosa, di ‘filotedesco’? [Gunther Grass a 15 anni vestì per qualche mese la divisa delle SS, il che, anche considerando il suo comportamento successivo, non lo escluse dalla lizza per il Nobel, che poi meritatamente gli fu assegnato] O non fu John Maynard Keynes a mettere in guardia, inascoltato – e ne abbiamo visto le terribili conseguenze, di questa sordità di chi non volle sentir – dal sottoporre i tedeschi, dopo la Prima Guerra Mondiale, a inutili e avvilenti umiliazioni? Filotedesco anche il grande pensatore britannico? La lunghissima serie di presidenti Usa, sistematici declamatori della grandezza del proprio popolo (pochissimi di costoro, peraltro, hanno avuto la compiacenza di spendere due parole di scuse per il massacro dei veri nativi americani), potrebbero vedersi oggetto dell’epiteto ‘filoamericano’?
Qui non si tratta di fare a gara a chi si è sporcato mani e coscienza più dell’altro, né di fare la conta dei morti (pratica da maneggiare con grande cautela; nasconde sempre tranelli qui e là): semplicemente di mantenere un minimo sindacale di senso della misura. Chi ritenga che gli orrori perpetrati dalle truppe irregolari cetniche serbe – notoriamente fascisti, esaltatori del saluto pollice-indice-medio, vale a dire dio-patria-re, dunque quanto di più distante dall’idea di socialismo nella ex Jugoslavia – o dagli scherani agli ordini del generali Mladic o, ancora la politica antialbanese condotta da Milosevic (l’attuale dirigenza kosovara che oggi se ne lamenta, conta al suo interno personaggi molto più che sospetti di avere avuto ruoli apicali nei traffici di armi e droga nei Balcani, per cui la lascerei perdere), anche solo lontanamente paragonabili alla Soluzione Finale nazista, si toglie dal dialogo storico-politico per ritagliarsi un più che meritato angolo in un qualsiasi tabarin dove le idiozie vanno un tanto al chilo – sia detto per inciso: medesima considerazione meriterebbe chiunque sostenesse il paragone fra il massacro degli indiani d’America e la Shoa: ancora una volta, non per il numero, bensì per la sottesa, differente dottrina politica che ne ha funto da propulsore.
Ignoro cosa faccia, come si comporti e quali idee esprima Peter Handke nella sua vita privata: siamo grandicelli a sufficienza per sapere e ricordare quante e quali illuminate figure di artisti fossero tali solo nella vita pubblica, per lasciare il posto a veri e propri uomini di merda in quella privata. Handke ha espresso solidarietà a Slobodan Milosevic non per la politica attuata, bensì in ragione di quello che lui ritiene essere stato un trattamento pesantemente differenziato – in peggio – dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, a paragone di altri comportamenti tenuti da rappresentanti politici croati e bosniaci. Io non lo so: non ho letto gli atti del processo cui è stato sottoposto. Osservo però come nel carcere de l’Aja sia ospitata una percentuale di imputati/condannati serbi enormemente maggiore di quella di politici e militari di altre, opposte fazioni: se la convinzione alquanto comune secondo la quale, in definitiva, le colpe sono sempre al 50% è stupida e di comodo, direi che una differenza percentuale dell’80% rispetto a un 20% è, per lo meno, alquanto sospetta di una certa differenza di trattamento.
Personalmente, mi annovero fra coloro che possono definirsi vicini alle sofferenze cui è sottoposto (non da oggi e neanche da ieri) il popolo serbo: del resto, fu l’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini, non esattamente un arrabbiato bolscevico, a definire umilianti per Belgrado gli accordi di Dayton. I filoserbi sono fra noi?

Cesare Stradaioli

PAROLE NOTE, COSCIENZE IGNOTE

Gustavo Zagrebelsky si pone domande di un certo rilievo, a proposito di quale lingua si servano i magistrati italiani, riguardo alcune intercettazioni che coinvolgono diversi componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Una volta tanto, la questione non concerne come si esprimano – a voce o nei provvedimenti che redigono – quanto piuttosto perché si servano di parole che comunemente vengono definite ‘parolacce’. Non vernacolo: ché pur sempre merita una certa dignità e considerazione. Parolacce, anche per il modo e il contesto in cui vengono utilizzate: e coloro rispetto ai quali vengono usate. Io, però, avrei qualche altra domanda e non ha a che vedere con l’onestà personale di ognuno di costoro.
Intendo dire questo; per quanto sia necessaria la massima cautela, nelle indagini in genere e nell’esame delle intercettazioni telefoniche e ambientali nello specifico, alcuni consiglieri del CSM, togati e di nomina politica, nell’usare termini strettamente attinenti alla zona ano-genitale, quasi inevitabilmente connessa – nel significato per nulla implicito nei loro discorsi – a situazioni di dominio e sopraffazione, cui corrispondono gesti di sottomissione, avvenuta, auspicata o minacciata, avrebbero per questo meritato di essere indagati. Difficile non pensare, subito, a questioni penalmente rilevanti: offra spiegazioni plausibili, chi pensi a qualcosa di diverso. Non pare davvero che i vari interlocutori intendessero attività di carattere puramente sessuale, fra adulti consenzienti, pienamente lecita e interdetta all’interessamento delle forze dell’ordine.
Il profilo delle loro attività, di quanto detto e fatto, è dunque oggetto di indagini delle quali, come quasi tutto il rimanente della popolazione italiana, esclusi inquirenti, personale di cancelleria e difensori – così almeno si spera – nulla so; se dovesse aversi un seguito in sede di giudizio, questo sarà compito di giudici di vario grado e così via. Spetterà a costoro, se del caso, occuparsi degli eventuali risvolti penali; quanto alle coscienze, è materia che appartiene al singolo accusato. Insisto: ho ben altre domande.
Perplessità, per lo più. Senza rigirarsi più che poco alla ricerca di termini specifici, ritengo che l’essere onesti e integerrimi siano i due requisiti necessari e sufficienti affinché taluno sia legittimato a esercitare il ruolo di magistrato, esigendo e meritando rispetto: della singola persona e del Potere che rappresenta. Però credo che, a parte questo, a chiunque porti una toga curiale, in seconda battuta possano e debbano essere chieste – pretese, direi – la cautela e la capacità di ponderare a sufficienza dove, come, a chi stia parlando e cosa si stia dicendo o ascoltando. Se mi è permessa una considerazione dettata soprattutto da qualche decennio di esercizio della professione legale, posso affermare che l’assistito che incautamente parla al telefono – e di quanto dice viene captato il contenuto – sia una delle iatture peggiori che un difensore possa immaginare. Specie in questi anni, nei quali forse solo i membri di qualche isolata comunità nativa, sparsa o confinata in qualche remoto territorio non raggiunto dai mezzi di comunicazione (e neanche dalla telefonia), ignorano cosa siano le intercettazioni.
Insomma, questi magistrati che minacciano, blandiscono, organizzano, architettano, si spartiscono favori e prebende, condendo il tutto con una variegata macedonia di cazzi rotti, merda da spargere o dalla quale togliersi o mettere taluno, prenderlo o metterlo in culo da o a talaltro e via discorrendo, hanno idea di come stanno parlando, cioè di quale mezzo si stanno servendo? O del fatto che, se sono a quattr’occhi, ci potrebbe essere qualcuno – tramite qualcosa – in ascolto? Magari qualcuno o qualcosa che si trova a pochi metri dal loro ufficio in palazzo di giustizia, mentre concreta un atto di indagine analogo a quelli che loro stessi, in altre situazioni hanno chiesto, autorizzato, convalidato?
Diciamo che, fino a dieci minuti prima di tenere un comportamento penalmente rilevante, attinente a quelle intercettazioni, alcuni di costoro fossero da ritenersi magistrati onesti e integerrimi: incensurati, non perché mai coinvolti, ma perché mai avevano in passato commesso alcunché di illecito. Onesti: integerrimi, come magistrati; ma, cauti? Attenti? Dotati di capacità di ponderare, valutare, nell’esercizio della giustizia? Erano equilibrati, equanimi, distaccati? In grado di percepire, con la prontezza e la lungimiranza necessarie, le insidie che si annidano in un’indagine o nella gestione di un processo? 
A sentirli parlare fra loro al telefono, in un ambiente – un palazzo di giustizia come quello di Roma o altri, oppure in stanze particolari di ministeri – dove se qualcuno dagli Affari Riservati starnutisce, qualcun altro risponde ‘salute’ dalla sala intercettazioni della Procura, si direbbe proprio di no.
Insomma, di che cibo si nutrono questi nostri magistrati, la cui alimentazione non è meno importante di quella di Cesare? Da cosa è composto il loro essere uomini e donne di legge? Il signore che si alza alle 4 del mattino per gestire il banco ortofrutta sotto casa mia, si domanderebbe che testa hanno questi. Prima di compiere gesti che potrebbero portarli alla condanna, come e dove vivevano? Come ragionavano quando entravano in un’aula di giustizia? Che livello di esperienza di vita, dei comportamenti umani, della società avevano, tutte le volte che si alzavano per chiedere una condanna o entravano in camera di consiglio per emettere una sentenza in nome del popolo italiano? Quale metodo di lavoro utilizzavano, dove l’avevano imparato e da chi, quando coordinavano le indagini della Polizia Giudiziaria, o dirigevano gli interrogatori in prima persona? E, sì, cazzo – coloritura vernacolare – quando venivano portati alla loro attenzione nastri o tabulati di intercettazioni telefoniche e ambientali?
Un Potere che legittimamente pretenda rispetto e che eserciti autorevolezza – ché di esercitare autoritarismo, come possiamo constatare, son buoni tutti: o’Malamente, che ha da fare la faccia cattiva, ha da tempo lasciato i palcoscenici della sceneggiata per unirsi al Bar Sport nell’occupare ben altre sedie – non può sottrarsi a queste domande, non importa chi le ponga. Deve anzi dare risposte, prima che gliene venga chiesto conto, non potendo sperare di cavarsela con la condanna di quattro turpiloquenti della mezza porzione alle due di notte. Non è possibile garantire a priori l’onestà del singolo giudice o pubblico ministero: la sua preparazione, vorrei dire umana prima che tecnica, sì. Lo deve essere: se così non fosse, potremmo tranquillamente parlare d’altro.

Cesare Stradaioli

DI PIETRE DA TIRARE E DI GUANCE DA PORGERE

In merito alla vicenda della giovane padovana uccisa dalla leucemia, i cui genitori avevano rifiutato le cure mediche tradizionali, preferendo affidarsi a un diverso trattamento, non riconosciuto dalla medicina ufficiale, andando così incontro a un tragico quando inevitabile destino, Michela Marzano ammonisce a che nessuno pensi di scagliare una pietra contro i genitori, segnatamente la madre – che tutto conosce della figlia: sogni, sofferenze, fede – per una scelta del genere.
Al di là della retorica sulle mamme, mi risulta che, ultimamente scagliare pietre abbia ben scarsa valenza, sia politica sia a livello di opinione pubblica. Nel terzo millennio, come diceva quello, non si fa più ammenda, né autocritica: si scrive un’autobiografia, se proprio. D’altronde e per evidenti motivi, sono più le persone che nulla sanno di quei genitori, rispetto a quanti li conoscono e li frequentano: il che facilita anche la riflessione, dato che la vicenda ben poco ha a che vedere con amicizia, conoscenza, solidarietà o totale estraneità. Proprio perché, vorrei dire a Michela Marzano, di prendere a pietrate due genitori indubbiamente sofferenti per la perdita – e c’è poco da scherzare anche sulla fede: aiuta molto, specie i fanatici e la Ragione ci si rompe le corna – non solo non c’è bisogno ma neppure vi è la minima utilità. E, anzi, facendo così si sbaglierebbe clamorosamente bersaglio.
Ci tocca di vivere in un Paese a bassa intensità culturale e l’aspetto più squisitamente scientifico è quello maggiormente negletto e trascurato. A coloro che ne imputano la responsabilità a Benedetto Croce, verrebbe da dire: va bene, bravi, ma adesso sarebbe il caso di voltare pagina. Detto questo, ci pensi chi di dovere, a mettere mano in maniera consapevole e razionale al Metodo di insegnamento in Italia e la maiuscola ha per forza il proprio significato. Perché c’è poco da chiedersi se un metodo vada più o meno bene, sia più o meno accettabile, quando di metodo non si vede nemmeno l’ombra.
La mancanza di metodo, l’indecente livello di insegnamento e diffusione del pensiero scientifico, prima o poi dovevano sfociare in manifestazioni di pensiero – parola grossa, in certe situazioni – e di comportamento che, esaminate fuori dal contesto parrebbero a buona ragione balzane, idiote, bizzarre e folkloristiche. Siccome però nel contesto bisogna stare, esse sono per contro gravissime, preoccupanti ben oltre il livello quasi da scherno che incontrano oggi in chi vi si oppone. E’ bastato – stravolgendo il più che rispettabile intento di abbattere l’autoritarismo – mettere in discussione qualsiasi forma di autorità ed ecco che i comitati di genitori contrari ai vaccini hanno rotto gli argini: ponendo loro stessi, noi tutti di fronte al ricatto (va chiamato così: sono dei minori, cioè cittadini a tutti noi affidati a subire le conseguenza di una disposizione di legge) che subordina l’iscrizione a scuola all’essere lo scolaro stato vaccinato, senza che chi l’abbia posto in atto si sia domandato se per caso non stia contribuendo a creare una generazione di ignoranti, per di più non vaccinati. Il peggio sommato al peggio. A cui va sommato un ulteriore peggio, in quanto è verosimile che molti di questi bambini diventeranno – e certo non per colpa loro – cittadini incarogniti e fanatici.
Il tutto, bisogna dirlo, con il contributo essenziale della rete, senza la quale – so bene che dell’abuso non risponde il mezzo, ma senza pistola il proiettile non parte che nella fantasia del potenziale assassino – tutto questo, a cominciare dalla diffusione di vere e proprie menzogne, la cui smentita altro non pare servire se non a rincarare il messaggio velenoso e mendace, non si sarebbe potuto concretare.
Ora. Non ho alcun interesse per quella mamma, per quel papà: umanamente mi fanno molta pena, per avere perso una figlia e perché questo è successo grazie alla loro profonda ignoranza. Quel tipo di ignoranza – assimilabile a quella che risulta da statistiche europee: mediamente un cittadino italiano è fra gli ultimi in graduatoria a essere in grado di decifrare un messaggio scritto, una frase compiuta e comprenderne il significato – che rischia di retrocedere il nostro Paese non solo nelle statistiche, ma letteralmente nella Storia. Quel tipo di ignoranza, caricata a pallettoni di retorica e tribalismo, che conferisce nuova linfa alle superstizioni, alle credenze da mestatori da fiera di paese.
Non è colpa loro. O magari anche. Ma non è con loro che dobbiamo prendercela. E, sì, Michela Marzano, qualche sasso addosso a chi alimenta l’ignoranza, l’individualismo, la superstizione, la retrocessione culturale, non solo può, ma deve essere tirato. Perché i dotti richiami evangelici sono materiale da maneggiare con una certa attenzione; specie da quando qualche studioso più testardo di altri (dopo il definitivo chiarimento che era una gomena e non un irragionevole cammello, quello che non sarebbe passato per la cruna di un ago) ci ha portato alla luce come il porgere l’altra guancia, lungi dall’essere prona sottomissione, fosse un formidabile invito alla provocazione, poiché ai padroni non era consentito che colpire col dorso della mano e porgere la guancia opposta significava sfidarli a violare le loro stesse norme che proibivano di toccare gli schiavi a mano aperta. Per cui, farei un po’ di attenzione ad abusare del divieto di scagliare la prima pietra: si corrre il rischio di dare l’idea che non siano affari nostri, quando invece lo sono a pieno titolo. E se anche solo la minaccia di farlo potesse avere una qualche valenza e ricondurre i dialoghi a livelli di civiltà e consapevolezza (bisogna pur circonchiuderla, l’acqua, prima di averci a che fare e usarla) allora che ci si pensi, almeno.
Ma questi nostalgici nazisti vanno combattuti con il ridicolo e lo scherno” ammonisce – cito a memoria – una convitata alla festa in un film di e con Woody Allen. Al che, il personaggio che lui interpreta risponde che sì, ma anche qualche mattonata sui denti fa il suo bell’effetto.
Santissime parole.

Cesare Stradaioli