LASCIATE STARE ANTIGONE

Fa buon mestiere riferirsi alla legge, una volta ogni tanto: specie in un Paese in cui le teste calde esuberano una media appena accettabile e dove neppure fra coloro che sono demandati a governarlo spiccano quelle fredde.
Esiste una precisa norma di legge che, chiudendo i porti a determinate categorie di imbarcazioni, proibisce, con relativa sanzione penale, chi infranga tale divieto. Lo stato delle cose è questo: chi abbia da porre in discussione il profilo giuridico e morale di una simile statuizione di legge, intraprenda il percorso normativo previsto; qui e ora, a fronte di un’imbarcazione battente bandiera straniera e con un carico umano di persone al momento non autorizzate a entrare nell’area Shengen, discutere a quattr’occhi o in pubblico di questo porta a bastonarsi in testa, altro che a bastonare l’aria, come ammoniva Fortini.
La situazione porta a una prima domanda, con risposta pressoché obbligata: la comandante dell’imbarcazione, entrando nelle acque italiane e tentando di sbarcare, commette e commetterebbe un reato? Ovviamente sì. Se non vogliamo scendere a livelli di certi imprenditori della comunicazione, assurti al potere e responsabili del disastro socioculturale italiano, ai quali va fra l’altro addebitato, tramite anche nutrite truppe cammellate interclassiste, l’avere inculcato in un corpo sociale già individualista e anarcoide di suo, la convinzione (da cui hanno tratto e traggono tutt’ora consenso elettorale e commerciale) per la quale le leggi vanno bene quando fa comodo a me o al mio sodale e/o cognato. In caso contrario, le disattendo. Salvo poi pretendere che le seguano gli altri, sempre secondo comodità.
La comandante dell’imbarcazione si dichiara disposta ad affrontare il rischio (non evitabile: in Italia esiste ancora l’obbligatorietà dell’azione penale e coloro che propugnano una giustizia modello anglo-americano la rimpiangerebbero, quando le procedure dovessero essere avviate solo per calcolo elettorale) di essere indagata ed eventualmente imputata: c’è di che condividere e approvare. Dopo di che, sarebbe seriamente da augurarsi, nei tempi più celeri possibile, il giudizio di fronte a un giudice – che non sarà a Berlino, ma ad Agrigento va bene lo stesso: in Italia ci sono fior fiore di magistrati – avanti il quale, se non sarà egli stesso a sollevare questione di legittimità costituzionale di una legge incivile e indecente, la difesa della donna invocherà, a buonissima ragione, la scriminante dello stato di necessità. Vediamolo, questo arnese giuridico, previsto perfino dal codice Rocco:
Art. 54 codice penale, primo comma; “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.”
Ora, è evidente lo stato di necessità: chiunque argomenti a contrario e cioè che esso manchi quando un certo numero di persone, bambini inclusi, si trovino ferme in mezzo al mare, di fatto prigioniere in uno spazio angusto e precario, a rischio malattie – per non parlare dello stato di bisogno insito nel fatto stesso di essere in mare, ciò che obbliga da secoli al salvataggio senza discussioni di sorta, secondo il diritto marittimo, chi si imbatta in persone in tale situazione – dovrebbe avere la compiacenza di spiegare cosa intenda lui, per stato di necessità.
Da ciò, la sussistenza di un pericolo non necessariamente specifico – contagi, patologie connesse a quello stato particolare, perfino gesti di autolesionismo anche estremo – che di sicuro non è stato provocato dalla responsabile della nave; a meno che non si dimostri la sua complicità nel secolare sfruttamento dei Paesi dai quali provengono i profughi, nella politica dittatoriale di questa o quella nazione, ovvero nella gestione dei suddetti lager libici o nel traffico di esseri umani dal cuore dell’Africa al mare e, infine, nell’aver pensato, scritto e praticato una legge idiota, oltre che disumana. Poiché, non pare esservi discussione seria sul punto, questi e non altri sono i fatti che hanno portato 42 persone a soffrire quello che stanno soffrendo adesso e a correre i pericolo che corrono adesso. Con il corollario che il comportamento penalmente rilevante, scriminato dallo stato di necessità, non sia sproporzionato: chiaro che la salvezza di un certo numero di esseri umani non possa passare per l’uccisione di altrettanti di loro; tuttavia, l’entrata nelle acque territoriali e il possibile sbarco paiono penalmente superate dalla scriminante in questione.
E’ chiaro che una sentenza di assoluzione perché il fatto – indiscutibile, nel suo essersi verificato – risulta commesso in presenza di una causa di non punibilità (art. 530, III° codice di procedura penale) avrebbe una eco mediatica di grande portata: accompagnata, però, inevitabilmente da un ennesimo (e altri ne seguirebbero, dopo altre sentenze analoghe) posizionamento di armate scelte della faziosità. Sarebbe solo pastone per i mass media e, lungi dal portare una nota di civiltà, provocherebbe, almeno nel momento storico in cui ci troviamo, ulteriori fratture e scollamenti sociali, a tutto vantaggio di chi fa la faccia cattiva, alzando la voce senza peraltro dire niente di interessante. 
E’ altrettanto chiaro come sia da preferirsi la soluzione prospettata per prima: che arrivi cioè il momento in cui, trovatosi il fascicolo processuale sul tavolo d’udienza, un giudice possa finalmente dubitare della costituzionalità di questa o quell’altra norma o del loro combinato disposto e, interrompendo il processo, mandare gli atti alla Corte delle Leggi affinché faccia giustizia, sanzionandole di contrasto con alcuni principi basilari della Carta Costituzionale.
E lascino stare Antigone, le non poche anime belle del nostro Paese, memori degli studi classici al liceo; una sorella seppellisce il fratello in violazione di legge, rispondendo a un comandamento morale, oltre che all’affetto di sangue. Cose che meritano rispetto, come pure il possibile sacrosanto ribellarsi a una legge ingiusta, ma che alle quali, nel loro carattere squisitamente privato, non possono essere ricondotte situazioni inevitabilmente di interesse pubblico come la nave fantasma dei disperati che staziona nel Mediterraneo, indesiderata da tutti gli Stati europei, trattata alla stregua di un fastidioso questuante e, tuttavia, pesante sulla coscienza di chiunque, non solo delle sorelle.
Pesa sulle coscienze, la nave olandese poiché, contrariamente a comprensibili vicende personali, rappresenta il simbolo di una vicenda come le migrazioni, in passato non risolte da diversi ceti di personale politico di spessore storico e che figuriamoci se possono esserlo da quei quattro ultras da stadio che si trovano al governo oggi, nel nostro Paese.
Stipati, verrebbe da dire, in una Nave dei Folli.

Cesare Stradaioli

 

 

IL LIBRO DEL MESE DI LUGLIO – Consigliato dagli Amici di Filippo

Il sistema normativo, ogni singola prescrizione e l’insieme che ne risulta, non può e non deve contenere unicamente prescrizioni di comportamento ma deve avere in sé una specie di alone simbolico che concorre alla cultura e alla formazione di un Paese. Là dove la coesione sociale è forte e/o storicamente consolidata, permane una sorta di armonia fra quanto esista naturalmente nel sostrato comportamentale di un consorzio civile e quanto debba continuamente essere vigilato tramite prescrizione+punizione.
Discorso tutt’affatto diverso va fatto tutte le volte in cui il Paese presenti nel proprio tessuto connettivo larghe smagliature, strappi, deroghe morali e una diffusa per quanto sotterranea area di anarchismo, inteso non già come consapevole (condivisibile o meno, poco importa) ribellione al sopruso, quanto piuttosto come neanche tanto celato farsi le regole a proprio piacimento, in totale dispregio delle regole o vincoli della civile convivenza fra cittadini e non sudditi, detentori di diritti e doveri.
E’ in tali contesti che si verifica una reazione automatica, pavloviana, a fatti di cronaca che pongano in rilievo sofferenze private o pubbliche: la proposta di legge, quasi sempre veicolo di sanzioni sempre più severe, che paiono fatte apposta per rinchiudere il problema (il singolo problema volta per volta) in una specie di sarcofago che, novello capro espiatorio delle società contemporanee, in luogo dell’allontanamento dal villaggio, comporta il chiudere vicenda, sofferenze, ingiustizie e reazione sociale in un involucro sigillato, con lo specifico fine di esorcizzare il male.
Già a fine Ottocento, il giurista Francesco Carrara parlava di ‘nomorrea penale’, a proposito della ipertrofia legalistica che, periodicamente, veniva prodotta sull’onda del verificarsi di crimini dei tipi più vari, ma indicativi di una società in ebollizione, in perenne sisma sociale. Non molti decenni dopo, un giurista del medesimo livello – di quelli che gli atenei di giurisprudenza di tutto il mondo occidentale invidiano al nostro Paese – Franco Cordero usava la definizione di ‘elefantiasi normativa’, con riferimento non solo alla normativa penale ma in genere a quella complessiva.
L’enfasi, il sovrapporsi di norme, la sovrabbondanza di prescrizioni, nascondono, secondo l’Autore, due aspetti sui quali riflettere. Da un lato una specie di rancore sociale manifestato con l’eccesso normativo, diretta emanazione di un pensiero semplificatore che pretende – senza peraltro il riscontro di alcun risultato statistico; a titolo di esempio valido sempre: negli ultimi 40 anni, il ritorno della pena di morte negli USA non ha comportato affatto la diminuzione dei crimini gravi, ma esattamente l’opposto – di risolvere il problema delle violazioni di legge, inasprendo vieppiù le pene, focalizzandosi sempre sugli effetti (il reato) e raramente sulle cause (condizioni socioeconomiche, fra le altre); dall’altro, il sistematico, endemico, quasi inguaribile tratto dell’italianità che più che consapevolezza della necessità del rispetto delle norme per aversi una vera civile convivenza, il semplice pretendere obbedienza. La minaccia della proibizione, insomma, in luogo di una presa di coscienza e consapevolezza.
Avete presente gli annunci che mettono in guardia dal superare la linea gialla o dall’attraversare i binari mentre si aspetta il treno? In una società evoluta, composta da individui ragionevolmente consapevoli, dovrebbero avvertire che il superamento di quella linea o di quei binari è pericoloso; viceversa, nel nostro Paese appare indispensabile dire che è vietato. Il che, oltre a tutto, è una palese inversione nella logica delle cose: che un cittadino si faccia seriamente male, o che perda la vita nell’impatto col treno, è LOGICAMENTE e intrinsecamente, per l’appunto, un pericolo e non già (e prima che) una proibizione.
Tutto questo non è solo trattare i cittadini da bambini o, nella migliore delle ipotesi, da sudditi, ma è diretta conseguenza – qualcuno potrebbe, per contro, vederlo come un presupposto – di una mancata comprensione delle vicende umane: che, pare assodato dalla ormai ultraventennale retorica che atterrisce il cittadino per poi placarlo con norme severissime (almeno fino al prossimo stupro o al prossimo sbarco ‘illegale’ o alla prossima vittima della nuova, criminogena difesa che di legittimo non ha quasi più nulla) e che bolla come buonismo ogni tentativo che vada oltre la sanzione, per cercare di comprendere da dove e come e perché nasca un comportamento che va contro la legge.

Cesare Stradaioli

Gabrio Forti – LA CURA DELLE NORME – Vita e Pensiero editori – pagg. 221, €16.

FRASI CELEBRI (E PERSONAGGI CONNESSI)

Ignoro chi sia il giovane che, durante una trasmissione televisiva della Rai, ha espresso un concetto che potrebbe essere riassunto più o meno in questi termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, essendo ben coscienti del pericolo di essere uccisi in ragione della loro attività, avessero accettato tale pericolo facendo quella scelta di vita. Ritengo, a differenza di molti – probabilmente dei più – grave, non tanto che certi personaggi compaiano in trasmissioni dell’emittente pubblica e che venga loro consentito di esprimere certe opinioni (lo è, grave: non v’è dubbio), quanto piuttosto il fatto che persone di una certa età (e, in questo caso, la considerazione, contrariamente al solito, vada intesa al ribasso e cioè appartenenti alla categoria genericamente definita come ‘giovani’), pensino al lavoro di magistrato o di tutore dell’ordine, ma anche del semplice funzionario statale onesto, che non guarda in faccia a nessuno, come naturalmente foriero di pericoli. Naturale che a ballare sotto la pioggia capiti di prendere un raffreddore: chi ne incappi, non abbia a lagnarsi, dopo; sapeva cosa rischiava.
Ovvio che determinati tipi di lavoro, non solo in Italia, presentino il rischio di ritorsioni da parte della malavita, organizzata o meno: quello che, però, dà lo spessore di quelle affermazioni consiste proprio nel ridurre quel tipo di lavoro, di professione (per qualcuno, una missione), alla stregua di una bravata o del tentativo di battere un record e non già di valutarlo per quello che è, vale a dire fare il proprio dovere di funzionari di Stato (o di personale di Stato: il termine ‘servitori dello Stato’ non finisce mai di suonarmi pregno di sudditanza). Oltre a ciò, che frasi del genere siano profferite da una persona che, se non altro per ragioni di anagrafe, si suppone non abbia alle spalle lunghi anni di vita pregressa, incrostata di malaffare o di condiscendenza o conformismo allo spirito della mafiosità, pare anche peggio e viene spontaneo chiedersi (lo sappiamo benissimo, in realtà) come e dove si possa essere formato una simile opinione. Tenendo conto del fatto che ad attribuirgli un’opinione gli si fa anche generoso credito di coscienza e consapevolezza: si trattasse di essere umano scarsamente portato alla riflessione e più comodamente sdraiato sul divano del sentito dire, ciò conferirebbe un tono leggermente meno grave a tali affermazioni – ma proprio leggermente.
Peraltro; non me ne vorranno gli sdegnati (l’indignato va oltre lo sdegno e quasi tutti coloro che hanno commentato le frasi sui due magistrati assassinati si sono fermati lì) per questo avvilente episodio, ma penso che sarebbe più opportuno l’esercizio della memoria, oltre che dell’indignazione. La frase del suddetto, dimenticabilissimo personaggio, è brutta e offensiva  – e la finiamo qui con gli aggettivi: altri annacquerebbero solo il tutto, come spesso accade – ma dovrebbero costoro avere la compiacenza di ricordare come, una trentina e più di anni fa, una frase ben più diretta, “se l’andava un po’ cercando” (che, ce lo sia consentito, è anche più infamante e irrispettosa del dire che qualcuno era cosciente dei rischi che correva; c’era dentro un inequivocabile riferimento alla tenacia della vittima, alla sua specifica attività verso specifiche persone in ben specifiche circostanze), fu pronunciata in davvero bella e riconoscente memoria di Giorgio Ambrosoli, fatto assassinare da Michele Sindona o da chi per lui.
La pronunziò, come tutti sanno, Giulio Andreotti il quale, da bravo e solerte uomo di Stato quale NON era, si guardò bene dal rinunciare alla prescrizione nel processo intentatogli per mafia (sacrosanto diritto del cittadino Andreotti, non del celebrato e magnificato uomo politico Andreotti), come sarebbe stato suo dovere fare. Per la propria figura e per quella della politica e dello Stato italiano. Non ricordo di avere letto o sentito espressioni di sdegno per una frase cento volte peggiore, per contenuto e per chi fu a dirla, di quella del giovane apparso in televisione qualche giorno fa. Ma certo: la disse l’uomo politico più noto e votato, quello che ogni tanto elargiva aneddoti, frasi celebri, giudizi che lasciavano il segno, opinioni ripetute per ogni dove e per ogni come, richiamate come espressioni di saggezza, sano cinismo politico, destrezza e furbizia, accortezza nelle relazioni personali e politiche, che qualcuno percepiva più simile a quella di un mafioso che a quella di un politico prudente.
Non si sentì un fiato, se non qualche isolata voce di dissenso. Niente, neanche dalla sinistra istituzionale, dal Partito Comunista e ci fu (e c’è tutt’ora) poco di che stupirsi; Andreotti era quello che venive regolarmente invitato alle Feste dell’Unità e fra un sorrisetto e un ammiccamento alla Alberto Sordi, li prendeva per i fondelli  o li attaccava al muro con frasi di contenuto ben poco implicito: loro, stolti, ridevano e il pubblico applaudiva.

Cesare Stradaioli

A PENSAR MALE SI PARLA MALE: E SI FA PECCATO COMUNQUE

Ad assistere, anche solo di passaggio, ad alcuni dibattiti radio e/o televisivi, capita di apprendere l’esistenza di persone le quali, per varie ragioni, non dovrebbero avere – per manifesta disumanità – il diritto di parola in pubblico. E poiché si tratta di confronti dialettici, spesso la ragione è l’uso di determinate parole (una, in modo particolare) indicativo di un’impostazione mentale – come dire? storta.
Nel corso di un acceso – e, come capita spesso, maleducato: tutti a darsi sulla voce reciprocamente – confronto televisivo, un rappresentante del PD (a far notare certe cose riguardo al Partito Democratico comincia ad avvertirsi una certa stanchezza mista ad amarezza), riferendosi a quella percentuale di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà, ha usato il termine ‘stock’: per completezza, ‘stock’ di poveri. Il che ha provocato una reazione infastidita da parte di uno dei suoi interlocutori il quale, neanche tanto garbatamente – ma alle volte non serve arrivare all’ingiustizia, per farsi storcere brechtianamente i tratti del volto – lo ha fortemente ripreso in punto di eleganza e opportunità del termine, tenuto soprattutto conto del fatto che non di bestiame o di investimenti azionari si trattava.
Ne sortiva, neanche a dirlo, un vivace battibecco, durante il quale l’accusato di ineleganza formale ribatteva, anche col ditino alzato – brutto segno, quando uno così supporta le proprie ragioni; non si agitassero, i suoi interlocutori e, anzi, si informassero prima di indignarsi: aveva usato termini squisitamente tecnici, ‘stock’ e ‘flusso’, di carattere economico-statistico, al fine di indicare, in un determinato periodo la permanenza di un dato o il suo fluire. In sostanza e nel caso di specie, il persistere di un dato percentuale e il suo modificarsi tramite un flusso, necessariamente variabile. Ovviamente, detta spiegazione non ha convinto nessuno dei presenti, come quasi sempre tutti dediti alle proprie ragioni, inducendo peraltro il conduttore a rivolgere al tizio (si chiama Luigi Marattin ed è parlamentare del Partito Democratico: insomma, i nomi ci sono, vanno conosciuti) l’invito a usare termini meno brutali – esortazione, peraltro, rimasta inascoltata, travolta dall’ennesima spiegazione, fornita dallo stesso, per la quale detti termini derivavano dallo studio dell’economia e via discorrendo.
Ora, è davvero poco importante sapere quanta parte (‘stock’) di maleducazione, che di frequente si manifesta in chi manchi di quel minimo di umiltà in grado di chiedere scusa o di cambiare atteggiamento quando serve, sia presente nel modo di relazionarsi con gli altri del signor Marattin: di molto maggiore appare la sua pochezza umana. Il pover’uomo – lui sì, poverissimo – malgrado gli fosse stato fatto notare coram populo l’inopportunità sottesa all’utilizzo di quel termine riferito a esseri umani (oltre a tutto, particolarmente caratterizzati in modo negativo in punto di capacità economica), ha rivendicato il diritto di farlo, vantando così una certa ricercatezza di linguaggio e questo è, purtroppo per lui, alquanto indicativo di un modo di pensare – prima che di parlare, che però per gli adulti ne è (o dovrebbe esserlo) diretta conseguenza e manifestazione – miserabile, arido, disumano. Insomma, pur se è antipatico sentire qualcuno, invitato a usare termini meno brutali (ché le sue ragioni non avrebbero perso un grammo della loro valenza), reagire a muso duro, infischiandosene dell’appunto ricevuto e, senza minimamente rifletterci intorno, pervicacemente insistere, ebbene è ancora più mortificante e avvilente il dover prendere atto che il Partito Democratico seleziona, candida e fa eleggere personaggi come il Marattin: il quale, non solo si è presentato come un arrogante maleducato – e passi; la buona educazione è assurta al rango di optional: si paga un qualcosa in più per poterne godere i benefici – ma anche come un essere umano mancante di umanità, disinvoltamente capace di ricondurre suoi connazionali (‘Tutti gli uomini saranno fratelli‘, scriveva aulico e romantico Friederich Schiller: quanto ottimismo…) a dati statistici, ridotti a numeri, deprivati non solo di capacità economica in quanto poveri, ma anche del diritto di non essere vilipesi.
Che, a essere vilipeso, è per il Marattin diritto pienamento acquisito: infinitamente di più che di essere chiamato ‘onorevole’ – per mio nonno che, reazionario com’era, MAI avrebbe mancato di rispetto in tal modo nei confronti dei meno fortunati, non avrebbe probabilmente avuto neanche quello di vedere il proprio cognome preceduto da ‘signor’.

Cesare Stradaioli

MISERIA NELLA DEMOCRAZIA

Chiunque sia dotato di un minimo di ingegno e di senso critico e sia disposto a utilizzare entrambi, è consapevole di come la parola ‘democrazia’, in sé, rappresenti qualcosa di assimilabile al vuoto: o a qualcosa di neutro, come ci ricorda Gherardo Colombo in una recente intervista, parlando della legalità. I tempi che ci tocca di vivere sono opachi e afoni per quanto cromaticamente sovraesposti e afflitti dal rumore di cose e voci; consola poco sapere che, in genere, ogni generazione che abbia attraversato una considerevole porzione di vita si sia poi trovata a dover fare i conti con un periodo storico che risultasse poco chiaro, ostile, in gran parte sconnesso rispetto a molti dei valori più o meno esistenti e riconosciuti.
Il tratto costante del termine ‘democrazia’ e di tutte le forme che ne derivano – aggettivi, avverbi, parole d’ordine, slogan – è rappresentato dal fatto che, in un modo o nell’altro, generalmente e con l’eccezione di rari casi, chiunque vi faccia riferimento; è di qualche giorno fa l’intervista, più volte passata nei mezzi di comunicazione, resa da un fervente mussoliniano in occasione di una celebrazione presso il cimitero di Predappio. Il signore, in modi inaspettatamente per nulla aggressivi e tracotanti, aveva usato poche parole per differenziare a suo modo la democrazia anarchica – quella scaturita dalla fine del fascismo – dalla democrazia autoritaria; era palese come questa seconda accezione fosse quella che meglio si attagliasse al regime del quale si proclamava fedele (e non già nostalgico, ci teneva a precisare, non avendolo vissuto in ragione dell’età).
Ora, stante che nel mondo attuale la democrazia anarchica non pare, al momento, realizzata – anche considerando come i termini ‘potere’ e ‘anarchia’ appaiano difficilmente conciliabili se non in discorsi in cui viga il principio delle parole in libertà in luogo della libertà di parola – va detto come il signore di cui sopra, il sacco vuoto della parola democrazia l’abbia a modo suo riempito, colorandolo al tempo stesso in modo tale da sottrarlo alla neutralità. D’altronde, che una democrazia possa essere autoritaria, in maniera decisamente più marcata di quanto fisiologicamente potrebbe essere – il rispetto delle regole ci rimanda ancora a Colombo e quante volte l’abbiamo sentito e letto ripetere un simile concetto! – è un dato di fatto evidente per tutti coloro che abbiano la compiacenza di dare una sia pure sommaria scorsa alla storia degli ultimi 70 anni. Data, direi, per assodata la necessità – se non altro per mantenere un minimo di dignità e credibilità, per non parlare di onestà d’animo – che detto sacco una volta ogni tanto vada riempito da coloro che si candidano, volta per volta, alla guida della politica locale e nazionale e per non lasciare che a riempirlo siano sempre figuri quali il tizio che manifestava la propria lealtà a Predappio e considerato come, per l’appunto, faccia richiamo al termine democrazia perfino uno che amerebbe vivere in prima persona il Ventennio (una trentina di anni fa girava la battuta che in Italia fossero tutti antifascisti tranne Almirante e Montanelli – cui, nel personale, venivano accostati gli amati nonno e padre di chi scrive: faceva anche sorridere e sembrava pure rispondente al vero, ma solo perché ci si fermava alla scorza; la polpa si è manifestata poi tutt’altra cosa), sarei curioso di ascoltare qualcuno che avesse la pazienza di spiegarmi cosa ci sia di democratico nelle prossime elezioni europee.
Non mi riferisco – non in questa sede, almeno – a tutte le possibili e doverose critiche che è legittimo muovere a quella specie mezza umana e mezza burocratica sul cui funzionamento effettivo (e democratico…) hanno avuto e hanno tutt’ora da dire molti che l’hanno sostenuta e ancora la sostengono, quanto piuttosto al fatto che il Parlamento che ne scaturirà, avrà avuto il contributo elettorale dei cittadini britannici. Il che porta, di passaggio, a domandarsi cosa ci sia stato di effettivamente democratico nel referendum che, or sono tre anni, non tre mesi, portò alla vittoria i sostenitori della cosiddetta ‘brexit’ – termine idiota come molti e, allo stesso tempo, idiota come pochi: ideato al solito scopo di banalizzare ciò che sottende. Si sono espressi i cittadini britannici? Hanno votato? Le domande sono retoriche; meno retorico è se ci piaccia o meno COSA abbiano votato. Poco retorico ma terribilmente inutile. Tanto varrebbe chiederci se ci piaccia il governo di Orbàn o il ceto politico attualmente al potere in Polonia: posto che in nessuno dei due casi il potere sia stato preso con un colpo di Stato, il nostro giudizio lascerebbe il tempo che trova, allo stesso modo di ciò che pensiamo di coloro che, al di là della Manica, abbiano ritenuto opportuno prendere le distanze da quello che significa l’Unione Europea. C’è stato un voto e quello è: lamentarsene, è come prendersela con la pioggia che ci rovina la partita a tennis su un campo scoperto prenotato da tempo. Fa ancora effetto, a ripeterla, una battuta di questo tipo – purtroppo, fa effetto, aggiungo.
Ma. Già, il fatto che dopo tre anni ancora non si sia concretata la volontà della maggioranza dei votanti in quel referendum è grave di per sé e, questo sì! dovrebbe porre serie domande su cosa sia davvero l’unità europea e dovrebbero esserci da subito risposte altrettanto serie: ma che, in attesa del definitivo distacco, a meno che non si verifichi la bestialità assoluta dal punto di vista giuridico (e democratico!) di un secondo referendum – e, ovviamente caldeggiandolo, la sinistra non si fa mancare l’ennesima occasione per dire qualcosa di sbagliato – alla consultazione che si avvicina partecipino i cittadini di uno Stato che con tutta probabilità dell’UE non farà più parte, sicché ci si domanda a quale titolo siederanno nel Parlamento europeo e prenderanno la parola e voteranno e infine contribuiranno a decidere anche sui nostri destini, relativi a un’entità politico-economica di cui non vogliono fare parte, è cosa che va ben oltre il ridicolo.
E, in ultima analisi, lo riempie sì, quel sacco: temo, di aria e neanche fritta – ed è quasi un peccato perché si sa che, col fritto, quasi tutto diventa commestibile.

Cesare Stradaioli

GLI ALTRI, DOV’ERANO?

Decenni fa, a seguito di un fatto di cronaca all’epoca particolarmente impressionante – l’uccisione del padre violento da parte di un figlio minorenne, da anni vittima, come tutta la famiglia, della sua crudeltà – si mossero alcuni fra i nomi più noti della cultura e della politica, promuovendo una raccolta di firme di solidarietà con il ragazzo, auspicandone la sottrazione al processo e il perdono, facendo riferimento alle ragioni che lo avevano spinto al terribile gesto. Richiesto di esprimere la propria adesione, Franco Fortini declinò la proposta: con la durezza che gli si conosceva (non raramente scambiata per alterigia e talvolta la era davvero), non si fece scrupolo di schierarsi anche a favore di quel povero bestione ucciso, in quanto vittima lui pure di una situazione di degrado sociale e culturale – nonché, con tutta probabilità, lui stesso malmenato e forse abusato da ragazzino. Ma il rifiuto di quella firma portava con sè una seconda motivazione; il ragazzo, sostenne con forza, aveva il diritto di essere giudicato, proprio affinché il suo gesto, che verosimilmente l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, ben oltre il periodo di detenzione che gli sarebbe toccato, non perdesse di valore e di significato: per lui e per tutti noi, che dobbiamo avere comprensione, sia pure a diverso titolo, per tutti coloro che fanno parte di tragedie come quella.
Ora, quello che lo scrittore chiamava ‘diritto’ a essere giudicati, è senza dubbio manifestazione di un pensiero fortemente condizionato e formato da una evidente matrice giudaico-cristiana: fermo restando il diritto di ognuno a pensarne quello che ritiene per il meglio, rimane il fatto che nel nostro Paese le sentenze vengono emesse dalla Magistratura in nome del popolo italiano e non solo – e, soprattutto, non tanto – in nome di questo o quel singolo cittadino che a seguito di un’azione criminale abbia subito danno, morale o materiale, diretto o indiretto. Anche per questo, il diritto penale rientra nella categoria del diritto pubblico e non già in quella del diritto privato (come, per esempio, una causa di risarcimento danni o di separazione fra coniugi).
Immagino che nel giudizio che il giovane parricida aveva il diritto di affrontare, Fortini vedesse non solo e non tanto l’emissione di una sentenza – e sospetto che non avrebbe visto di buon grado un eccesso di attenuanti – quanto una specie di crescita interiore: fino a quando non fai i conti con il diritto-dovere di punire da parte dello Stato e, dunque, da parte della comunità all’interno della quale vivi, non hai piena contezza del gesto che hai commesso. Può essere. Ma il ragazzo era un singolo individuo: come lo sono, uno per uno quei giovani sciagurati che in una cittadina della Puglia hanno percosso e maltrattato fino alla morte un povero pensionato indifeso e gravato da disabilità mentale.
Per mestiere – così mi piace chiamare il lavoro che per maggiore continuità ho svolto in vita mia e non è un vezzo narcisista – mi occupo di vagliare le accuse rivolte a una persona che si affida a me o che a me viene affidata dallo Stato, non avendo un difensore fiduciario: di valutare gli elementi di prova a carico ed, eventualmente, quelli a favore. Mi rivolgo a uno o più (a seconda dei casi) miei concittadini, togati e non, esortando un giudizio favorevole, che non necessariamente deve essere di assoluzione per essere definito tale. In poche parole: cerco di convincerli del mio punto di vista. Avendo chiara consapevolezza che, in ogni caso, quale dovesse essere la decisione, non spetterà a me. Non sono avvezzo a giudicare, quanto meno non all’interno di un’aula di tribunale: e in questo senso mi riesce poco agevole il concetto di ‘diritto’ al giudizio, avendo chiara l’idea che Fortini avesse ragione da vendere ma che, forse, non gli fosse mai capitato di assistere in prima persona a un processo in cui erano coinvolte persone con le quali aveva un rapporto di conoscenza e/o di comunanza politica – o di avversità, rispetto a quest’ultima: il senso sarebbe stato lo stesso. Il distacco cambia la prospettiva e non di poco.
Farei, perciò, molta fatica a giudicare quei ragazzi, alcuni dei quali minorenni. Molta ma molta meno, lo devo ammettere a me stesso, un senso catartico di punizione alberga in ognuno di noi – in me, di sicuro – se mi trovassi a valutare le responsabilità di tutti coloro, tanti, tantissimi, pure se in una comunità piuttosto contenuta (il che, se possibile, è ancora peggio), che di quelle botte, di quegli insulti, di quella assurda e lurida per quanto immotivata mancanza di rispetto, SAPEVANO e niente hanno fatto, quanto meno per mettersi di traverso, se non proprio per impedire che proseguisse quell’oscenità. Sarà anche vero che il coraggio uno non se lo può dare (ci sono tanti ‘bravi’, ma i don Abbondio sono di gran lunga in numero maggiore), però una telefonata anonima basta se non altro per allertare le forze dell’ordine, inducendole ad andare a vedere, magari di concerto con i servizi sociali, cosa stesse succedendo in quella casa della vergogna.
Giudice lo sarei volentieri; e, detta tutta, in piena convinzione di essere nel giusto al momento di una condanna, che vorrebbe e dovrebbe essere severissima. Perché in quel luogo di tristezza non si è solo consumato un crimine, previsto e punito dal codice penale: altri, che non sono quei ragazzi, sono colpevoli più di loro; perché sono adulti, perché sono persone di esperienza di vita, perché sapendo quello che succedeva non ne erano emotivamente coinvolti come esecutori materiale e, dunque, si trovavano nella piena capacità di dire a se stessi ‘basta’ e attivarsi affinché quello scempio umano e morale si interrompesse.
La loro colpa è più facile da individuare – per questo me la sentirei di essere giudice e, potendo, anche carceriere – perché non servono né indizi  né prove e neppure sarebbero da valutare attenuanti e aggravanti, ché quest’ultime sono superiori: devono, dovrebbero esserlo, oppure un giudizio negativo verso questi adulti (parenti, conoscenti, vicini di casa degli aguzzini e della vittima) semplicemente non avrebbe ragione di esistere. Basta sapere: sapere che sapevano. E’ morta, dopo varie sofferenze, una persona: muore, qui e là, anche la pietà. Che potremmo – anzi: dobbiamo – tenere in conto e usare come sprone per sperare lo sperabile; che quei giovani nostri concittadini, in un modo o nell’altro, possano recuperare loro stessi ed essere recuperati al consorzio civile, anche grazie al diritto di cui scrisse Fortini. Gli altri, gli adulti, speranze di cambiare, di capire non ne hanno e non ne meritano. E questo nuoce molto anche a noi tutti.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

MA BISOGNA CAPIRE

Abbiamo il dovere di capire. Di tenere lontani, per quanto possibile, sentimenti di presa di distanza e di disprezzo: da riservarsi, se mai – anzi, esorto a farlo – a quelle canaglie emerse dalla schiuma della peggiore destra che, astuti quanto basta, avendo riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni in genere e dalla Sinistra nello specifico, cavalcano la rabbia e la protesta di persone e famiglie che vivono in condizioni e luoghi vergognosi, di degrado umano, culturale e materiale. Non sono loro i nostri interlocutori: non ne hanno titolo.
Coloro con i quali, se ancora ci dichiariamo di Sinistra e progressisti, dobbiamo confrontarci, sono donne e uomini che vomitano odio e rancore contro l’altro, il diverso, l’intruso; quelli che calpestano il pane destinato a un gruppo di persone che non aveva, autonomamente, di che procurarsi un pranzo appena dignitoso – e, nel calpestare il pane, senza rendersene conto hanno calpestato la memoria dei loro padri e nonni per i quali il pane era non solo e non tanto un indispensabile alimento, ma il vero e primo concetto di umanità e solidarietà.
Certo, i gesti fanno orrore; le cose dette – per lo più urlate – rivoltano lo stomaco e l’intelletto, ma nel nostro essere quello che siamo o abbiamo cercato di essere e di praticare nelle rispettive vite di ognuno, ci siamo fatti carico di capire e porre rimedio. Se per qualcuno il carico di comprendere il difficilmente comprensibile, di provare a dialogare con chi il dialogo neanche sa cosa sia – dato che nessuno gliel’ha insegnato – di evitare la comodità dell’indignazione fine a se stessa, sia diventato un onere pesante e non più praticabile, se la veda con la propria coscienza: eviti, però, in futuro, di stupirsi se l’esercizio del voto sistematicamente lo spiazzi, tirandolo giù dal pero a rompersi le ossa contro la realtà, dura come la terra.
Capire, peraltro, è solo il primo passo ed è anche il più agevole da compiere; solo uno stolto può non capire (o non voler capire) che interi gruppi sociali emarginati materialmente e moralmente, mandati a vivere in luoghi di vuoto totale, lasciati a loro stessi dopo avere dato tacito mandato alla televisione di occuparsi di plasmare i loro pensieri, riducendoli a puro istinto votato al consumo immediato – che sia cibo o propaganda, sempre di spazzatura si tratta – e incoscientemente messi in campo a combattere per la loro sopravvivenza contro altri disgraziati loro pari, non possono che esprimere rabbia e rancore. Allo stesso modo, chi sia dotato di un minimo di ingegno sa bene che in politica come nella fisica, il vuoto di fatto in natura non esista e là dove l’autorità (una autorità qualsiasi, legale o illegale che sia) abbandoni una porzione di territorio, immediatamente dopo il suo posto sarà preso da qualcun altro.
Questo qualcun altro si impadronirà del tessuto sociale e morale e lo gestirà; non gli costerà neppure tanto: basterà la distribuzione periodica di vivande e denaro. Poca roba, a confronto del tornaconto politico che ne avranno, utilizzando oltre a tutto vere e proprie forme di volontariato, del tutto assimilabili a quelle religiose o laiche, nella loro esplicazione.
Il tutto, non andrebbe neanche ripetuto, non nasce senza motivi, senza ragioni storiche e politiche. La destra di questi anni, in Italia e in Europa pare in grado di raccogliere non tanto consensi – il concetto di consenso presuppone un minimo di analisi e di spirito critico – quanto di adesioni, principalmente pescando in strati sociali più spaventati che effettivamente poveri di risorse materiali: cercare e trovare adesioni in quelli che miserabili sotto il profilo culturale ed economico lo sono per davvero,  diventa quasi un gioco da ragazzi. Bisognerebbe insistere a spiegare come e perché sia sia creato quel vuoto. Chiedersi come sia potuto succedere che non solo la Sinistra, ma perfino la Chiesa, naturali, fisiologici direi, punti di riferimento dei reietti, degli ultimi, di coloro che patiscono più degli altri la disuguaglianza, nelle forme vecchie e più moderne, vengano per contro visti come estranei. Da un lato, il politico di sinistra non è più credibile come persona e come messaggio, tanta e tale è la distanza che la sinistra stessa negli ultimi decenni ha deciso di mettere fra sé e le classi più povere e bisognose di riscatto sociale; dall’altro – da un punto di vista laicamente sociologico si palesa, se possibile, storicamente ancora più significativo – non solo e non tanto la figura di questo o quel sacerdote, perfino quella del Papa, quanto piuttosto il significato intrinseco di solidarietà e compassione al momento sono obnubilati e, di fatto, rifiutati, anche e soprattutto da persone che, poi, alla domenica vanno in chiesa.
Di quest’ultima problematica se ne prenda cura chi di dovere, all’interno delle strutture pensanti del Vaticano – chè là, certo, non mancano. Di quella che nella scena politica sta relegando la sinistra a ruoli di comparsa, più che di attrice, dovremmo occuparcene noi. Perché non è finita qui. Il pane calpestatato non è più un inizio e non è solo uno sviluppo: ben di peggio ci troveremo di fronte negli anni a venire e blaterare di cambiamenti e incaricarne lo stesso personale che ha provocato i disastri, equivarrebbe a nominare commissario liquidatore del fallimento lo stesso imprenditore fallito. Non è cambiando segretario, che si cambia la politica, se il nuovo rappresentante proviene dallo stesso ceto che risulta arduo definire ‘politico’.
Sono, la quasi totalità di questo ceto, a seconda dei casi – e scelgano loro quale qualifica preferiscano – incapaci, ignoranti, mascalzoni, corrotti (prendere soldi o regalie è solo il momento finale: la corruzione inizia prima, quando si pensa di poterli prendere), cialtroni, dilettanti allo sbaraglio, bugiardi, cafoni, maleducati, incapaci di condurre un dialogo e un confronto serrato su temi concreti. Sono perfino pessimi imitatori; e si sa che lo spettatore ride quando vede un’imitazione ben fatta – e loro neanche di questo sono capaci, patetici scimmiottatori di una destra che ai loro occhi pare più svelta e attenta e lo è – ma poi quando diventa elettore il voto lo da all’originale che, in genere, è meglio della copia, specie se brutta.
Che se ne vadano. Mandiamoli via. Abbiano diritto a qualcosa di meglio; abbiamo il diritto e il dovere di non trovarci sempre a scegliere per il meno peggio. Il dovere, insisto: lo dobbiamo anche a quelli che cacciano i rom, i profughi, i diseredati quanto lo sono loro, lo dobbiamo a donne e uomini talmente degradati da non rendersi conto di essere usati come arma di consenso per le peggiori menti di questo Paese e che nel fare questo consegnano loro stessi e i propri figli a un destino anche peggiore del loro. E’ anche colpa nostra per quanto è accaduto per come e cosa è diventato questo Paese e, anche solo per questo, dovremmo sentire il dovere prima di tutto civico di voltare pagina.

Cesare Stradaioli

QUARANT’ANNI DOPO

Oggi cadono quaranta anni da quel mattino in cui partì l’operazione giudiziaria divenuta nota con quella data, il 7 aprile.
L’indagine coordinata dalla Procura di Padova, che si estese fino a Roma, con le decine di mandati di cattura ebbe come conseguenze anni di carcere preventivo – era ancora vigente il codice Rocco, che qualcuno (non senza ragioni) rimpiange in alcuni aspetti – espatri, esili e vite in buon numero spezzate, cambiate, divelte. Non furono divelte solo le vite dei singoli interessati. Lo furono anche la legalità, la presunzione di innocenza, il rispetto delle regole e quel poco di dignità professionale che all’epoca la stampa italiana ancora vantava. Fu anche divelta, quasi cancellata una intera generazione di ragazzi e giovani uomini e donne che si ponevano a sinistra del Partito Comunista Italiano e della sua politica: per un singolo compagno inquisito, incarcerato, costretto alla latitanza,  ve ne furono mille che per paura, per incertezza, per timore del proprio futuro e anche, va detto, in diversi casi per opportunismo (forse scarsa convinzione nelle proprie idee), lasciarono del tutto la politica e l’idea stessa di partecipazione.
Fu un’indagine monstre, condotta a tamburo battente e in prima persona dal pubblico ministero Pietro Calogero, pienamente assecondato dal Procuratore Capo, Aldo Fais. Il quale divenne famoso agli annali per due fatti; il primo fu l’aver firmato un manuale di procedura penale, in merito al quale eminenti giuristi processualpenalisti spesero elogi per la grafica in copertina, mentre il secondo fu la scellerata frase “Li abbiamo in pugno!” pronunciata in una conferenza stampa improvvisata, a manette appena scattate, quando non tutti gli arrestati avevano raggiunto le supercarceri di tutta la penisola, cui erano destinati.
L’appiattimento al cosiddetto ‘teorema Calogero’, eterodiretto e appoggiato senza se e senza ma – e senza alcuno scrupolo – pressoché da tutti i vertici, locali e nazionali del PCI, fu quasi unanime e a voce unica; pochi si distinsero dall’indegna canizza celebrativa, a prescindere dalle convinzioni politiche di ognuno: Giorgio Bocca, Umberto Eco, Beniamino Placido, Gian Maria Volontè (che, lo si seppe dopo la sua morte, offrì a Oreste Scalzone la propria imbarcazione per consentirgli di riparare in Francia) giuristi quali Giuseppe Branca, Stefano Rodotà e Alberto Malagugini, oltre a buona parte (non tutta) della redazione de Il Manifesto. Certamente sto trascurando altri nomi: rimane il fatto che, nel totale, furono scandalosamente pochi. Così come ben pochi altri si posero domande, espressero perplessità, si opposero concretamente in punto di diritto e di logica all’operazione giudiziaria e mediatica che ne seguì.
Si può senza dubbio dire che fu la prima indagine giudiziaria che fu seguita, accompagnata – talvolta preceduta – da una stampa che, anche in considerazione degli anni di cui si tratta, fu compatta come mai prima. Scrivo ‘compatta’ e con questo non si deve intendere compatta nel coprire, occultare, nascondere, mettere in sordina, come era tradizione che facesse, dal dopoguerra in poi quanto, per contro, quasi l’opposto: enfasi, titoli raramente visti prima, distorsioni, amplificazioni, martellamento continuo, fino a giungere a quella che va considerata come una delle punte più basse e avvilenti della vergogna giornalistica, la diffusione prima e la pubblicazione poi in vinile formato 45 giri allegato ad alcuni quotidiani e settimanali della famosa telefonata con la quale le Brigate Rosse, chiamando la famiglia di Aldo Moro, annunciavano la sua esecuzione, dando riferimenti in merito al ritrovamento della vettura nel cui bagagliaio si trovava il corpo del politico sequestrato.
La vergogna, il luridume di tutta l’operazione propagandistica fu nell’avere anche solo ipotizzato – in realtà da più parti era stato dato per scontato e la diffusione della registrazione intendeva costituire supporto a tale delirante ipotesi investigativa – che la voce fosse quella di Toni Negri.
Chiunque avesse sentito parlare Negri anche una sola volta, non poteva non captare un deciso accento padovano – dell’alta borghesia padovana, aggiungo, avendone una certa familiarità – là dove il telefonista ne palesava uno tutt’affatto diverso. Come si potesse attribuire a un padovano, ma anche a un veneto, la frase “siete stati un po’ ingannati”, dove l’ultima parola veniva chiarissimamente pronunciata ‘incannati’, inflessione tipica di regioni quali le Marche (e infatti la voce fu poi con certezza attribuita a Mario Moretti che, per l’appunto, era originario di quella zona), può essere solo spiegato in un modo e con tre parole semplici e chiare: mala fede assoluta.
Senza scuse, senza remissioni, senza giustificazioni. Non si trattò di un errore: non lo fu il tentativo di cucire addosso a Toni Negri la veste di capo delle Brigate Rosse, né l’avere equiparato, nella forma, nella sostanza e nella quotidianità, il linguaggio e la pratica politica dell’area extraparlamentare comunemente nota come ‘Autonomia Operaia’ a quelli delle Brigate Rosse. Anche il semplice fatto di non cogliere le sostanziali differenze fra la teorizzazione di una violenza che voleva essere di massa, di base (che poi, nel suo concretarsi, non lo fu che poche volte, non cambia le intenzioni, a prescindere dal giudizio che ognuno da della violenza come mezzo politico) e quella elitaria di una formazione clandestina – la quale, oltre a tutto, proprio nella dinamica dell’intera vicenda Moro, a cominciare dalla incredibile potenza e precisione militare dell’agguato, per proseguire con la gestione del sequestro e infine nella tragica conclusione, a tutt’oggi presenta lacune logiche e politiche mai chiarite e non trascurabili – lungi dal costituire un abbaglio, rappresentò invece l’idea di base per l’elaborazione di un progetto, predisposto e messo in atto con attenzione. Le colse Giovanni Palombarini, allora giudice istruttore, che nel pieno della sua autonomia e indipendenza di giudizio – oltre che di una genuina onestà intellettuale – costituì un baluardo di garanzie e giustizia nella funzione di controllo attribuita a quell’organo; ancora oggi ne parla, in qualche intervista: da persona equilibrata quale era ed è rimasta, non aggiunge una sola parola di giudizio politico e giuridico sul lavoro svolto dalla Procura di Padova, ma insiste a sottolineare le palesi diversità, di lunguaggio e di pratica politica intercorrenti fra le sue situazioni.
In realtà l’operazione ‘7 aprile’ non fu che lo sviluppo più organico, seguito poi negli anni successivi da ulteriori operazioni giudiziarie, che ebbero minore eco nella stampa, ma che dettero risultati particolarmente importanti, di un preciso progetto che, per l’appunto e non per caso, fu non solo appoggiato, ma sostenuto fin da prima dell’inizio dal PCI, tendeva a eliminare qualsiasi ipotesi di movimento o aggregazione politica, o anche di semplice dissenso alla sinistra del partito guidato da Enrico Berlinguer. Naturalmente non si può ragionevolmente affermare che tutti coloro che l’appoggiarono avessero chiaro in mente come sarebbe andata e quali ne sarebbero stati, alla fine dei conti e a rovine fumanti, i costi umani e politici: certo, quando tutto il baraccone fu in moto, NESSUNO dei vertici politici del PCI mosse un dito, non fosse altro per motivi di garanzia processuale e con questo mi riferisco a quello che poteva essere detto e fatto e non fu né fatto né detto a mezzo stampa o tramite le nascenti radio cosiddette libere, organiche alla sinistra parlamentare.
Quanta intelligenza politica, quanta creatività, quante idee, quanto entusiasmo, quanta sincera convinzione nella vera e diretta partecipazione politica (e la violenza c’entrava, all’epoca: le geremiadi odierne sono false e storicamente puttane, dal momento che non è consentito ragionare col metodo ora per allora), quanto vero personale politico sia andato perso, frantumato, eliminato militarmente con l’operazione ‘7 aprile’ è difficile dire, probabilmente impossibile.
Parlino quelli che c’erano, come chi scrive: dicano quello che sanno o facciano il favore di tacere, ma per sempre. Ogni generazione produce, oltre a una fisiologica quantità di errori, energia politica che, poi, nel prosieguo, nella crescita umana di ognuno e nella considerazione contingente della politica del momento e delle opportunità che è bene cogliere ovvero conviene lasciare perdere, necessita di una tara pesante; per dirne una a titolo di esempio, ognuno di noi – che si sia o meno impegnato in politica da giovane, a scuola, all’università o al lavoro – conosce persone che sono state corrotte, guastate dal denaro, dall’ambizione, dal tornaconto personale. La generazione che è stata colpita dal ‘7 aprile’ non si discosta dalle precedenti e dalle successive: ma, anche a tara fatta, chi c’era ricorda che una considerevole percentuale di coloro che lottavano nei luoghi in cui si trovavano, avrebbe poi potuto, in un Paese appena appena normale, costituire un ceto politico serio, responsabile, forte e coraggioso. Soprattutto questi ultimi due aggettivi – ché, in fin dei conti, brave persone serie e responsabili ce ne sono in quantità – sono quelli che maggiormente l’avrebbero caratterizzato.
Avrebbero dato una spina dorsale a una Sinistra che oggi – e non da oggi – non c’è e forse non ci sarà più, grazie allo smarrimento, alla svendita al migliore offerente degli ideali che verosimilmente sono iniziati con l’appoggio a un teorema giudiziario impresentabile. Ogni azione comporta una reazione, diceva il barbuto sepolto a Highgate; osserviamo la società italiana degli ultimi decenni: vediamola priva di – che posso dire – dieci o dodicimila donne e uomini che oggi avrebbero fra i sessanta e gli ottant’anni e che negli ultimi quaranta avrebbero potuto costituire, nella politica e nel sindacato, una vera forza prima di opposizione e poi di governo, che avrebbe reso migliore il Paese che è diventato invece. E consideriamo le conseguenze che ogni attività umana genera. Poi, ognuno faccia i conti con la propria coscienza: o, per dirla con Fortini, coltivi il proprio orto.

Cesare Stradaioli

LA NAVE DEI FOLLI VA…

Proviamo a ricapitolare.
In tutta Europa e in alcune regioni in modo più preoccupante che altrove, spira un vento che potrebbe essere definito di destra, se della destra avesse un minimo di dignità: non ce l’ha; poiché, però, governare è roba da sporcarsi le mani e la coscienza, al momento attuale e alla bisogna bastano e avanzano opache figure senza spessore e senza retroterra culturale. E’ un vento portatore di ignoranza, intolleranza, reflui delle peggiori schiume umane: un vento fascista, insomma.
Il nostro Paese non ne è esente – non può: per natura e a causa di invincibili sedimenti di un passato di arretratezza umana e culturale. I risultati di questa o quella consultazione elettorale possono avere importanza, fino a un certo punto: da molti anni al tavolo delle elezioni siede il convitato di pietra che si ammanta della spaventosa (o salvifica: dipende dai punti di vista e da come la si analizza) percentuale di cittadini che non votano, sicché le analisi del voto restano sempre necessariamente precarie e incomplete. Costoro non votano per svariate ragioni, anche se la principale rimane la disillusione: e siccome il vento di cui sopra gonfia le vele della peggiore reazione, è evidente che le formazioni politiche che da quella parte si ispirano – neo fascisti, pseudo fascisti, vorrei ma non posso fascisti, potrei ma non voglio fascisti e, ultimi ma non ultimi, anzi la grande maggioranza, quelli che, rifacendoci all’appellativo siciliano con cui vengono definiti, con malcelato disprezzo, coloro che non sono mafiosi ma neppure contro la mafia, potremmo chiamare ‘terzi’, cioè né fascisti né antifascisti – hanno fatto da tempo il pieno: l’astensione punisce la sinistra. Meritatamente, aggiungo.
Che altro?
Esiste poi lo stralunato dibattito intorno al treno ad alta velocità e l’assordante fragore di piume provocato da discussioni che del confronto civile, tecnico e politico non hanno pressoché nulla, per lo più a causa dei sostenitori di un’opera che ingolosisce la criminalità organizzata prima di chiunque altro.
Le città, le periferie, allo stesso modo dei rapporti personali, diretti o mediati dai mezzi di comunicazione, rappresentano situazioni letteralmente imbevute di violenza: nei discorsi, nelle narrazioni e, infine, nella pratica. Ne fanno le spese, fra gli altri e come esempio più tristemente emblematico, i rappresentanti di quella che dovrebbe essere – e spesso è – una delle parti migliori della società, vale a dire gli insegnanti, lasciati soli da governi irresponsabili (tutti, quelli degli ultimi decenni) e da ministri pro tempore che si sono dimostrati indegni sotto il profilo umano e culturale.
La totale delegittimazione del corpo insegnante e del suo stesso significato rappresenta una delle cause che hanno portato larghe fasce di popolazione (e non tutte prive di titoli di studio) a un livello di ignoranza, di analfabetismo di ritorno e di vera e propria incapacità di analizzare un testo di difficoltà medio-bassa, oltre che di immaginare e mettere in forma scritta concetti dotati di senso e di struttura acettabili, che trent’anni or sono sarebbe sembrato fantascienza.
Manca il lavoro: dove c’è, non di rado manca la dignità che dovrebbe accompagnarlo e buon lavoro a chi provi a menzionare, in proposito, il dettato costituzionale. Del resto, è da chiedersi seriamente su quale lavoro si fondi la Repubblica, se del lavoro cresce la temporaneità, al pari con la disuccupazione. L’Italia deve, ormai da diversi anni, fare i conti con qualcosa che non è solo l’austerità; non solo la riduzione dei consumi – che, in sé, non sarebbe neppure una connotazione negativa; non solo un più ragionevole – e più contenuto – livello di vita. Bensì con una generalizzata situazione sociale che se qualcuno non è d’accordo a chiamarla povertà, allora è necessario sedersi attorno a un tavolo e giungere a un punto comune per definire cosa sia la povertà, se non sono ‘poveri’ 9 milioni di persone su 60 che non hanno di che nutrirsi a sufficienza e non possono permettersi cure mediche appena di base.
Il nostro Paese vive, pressoché DA SOLO la situazione derivante da un vero e proprio movimento epocale che deve essere chiamato col proprio nome e cioè migrazione, dato che l’emigrazione è, in genere, cosa alquanto diversa, ridotta e riduttiva; il tutto, benché non ci venga fatto mancare per un solo giorno il mantra secondo il quale siamo europei, con tutta la limatura ideologica che vi è sottesa. Nel frattempo, è lo Stato italiano a sopportare i costi finanziari e umani di questa migrazione: una volta accolti, rifocillati, dato loro quel minimo sindacale di livello umano che ci si aspetta da un paese civile, i laureati, coloro che hanno studiato (che hanno competenze, secondo uno dei tanti termini orrendamente correnti), verranno calorosamente accolti dalla Germania e dal relativo Commonwealth di centro e nord Europa; gli altri abbiate la compiacenza di tenerli voi italiani, la nostra parte è già stata fatta… Fossimo sulla Settimana Enigmistica, sarebbe da mettere due vignette; in una, un mercato ortofrutticolo, nell’altra quello dei migranti e scrivere: TROVA LE DIFFERENZE – se ne sei capace …
L’ambiente crolla; oppure è avvelenato; oppure non è in sicurezza; oppure tutte e tre le cose insieme.
E per carità di patria, lasciamo stare la politica estera: sia quella che (non) pratica l’Italia, sia quell’ammasso di nefandezze che si vedono un po’ ovunque.

Madamine, il catalogo è questo ed è largamente incompleto. Eppure.
Eppure, di cosa si occupano stampa e rappresentanti politici, inclusi – il che è ancora peggio – quelli della cosiddetta sinistra? Ma delle ripetute sconfitte elettorali del Movimento Cinque Stelle, naturalmente. QUELLA pare essere la notizia, la questione più importante, fra tutte, su cui occupare il tempo proprio e quello altrui, mentre la nave dei folli procede  motori spenti.
In realtà, c’è poco da scherzare. Un partito serio, davvero riformato – come pretende di essere il PD – può anche gioire delle sconfitte altrui: non è molto elegante, come cantava Gino Paoli (e qualche volta bestemmiano anche, costoro, specie quando parlano di economia e società), però in qualche modo rientra nella dinamica della politica. Il che andrebbe anche bene se, oltre all’esistenza di uno straccio di proposta politica di sinistra (degna di entrambe le definizioni), dal crollo – o presunto tale – del M5S derivasse un beneficio elettorale che desse un po’ di colore all’esangue percentuale che questa strana bestia politica che ancora si ispira alla sinistra, bene o male vanta. Il che non pare essere avvenuto.
No. Gongolano, lieti che il Movimento creato da Beppe Grillo perda pezzi, consenso elettorale e – fra pochi mesi, con verosimili nuove elezioni politiche – anche la maggioranza che detiene in Parlamento. Che questo avvenga a tutto vantaggio della Lega e non della sinistra (che, pure, ha generosamente dispensato voti di protesta – parte dei disillusi di cui sopra – al M5S, ritenendosi, perciò, creditrice di una specie di partita di giro di rientro), pare non preoccuparli più che poco. Probabile che siano ancora convinti che con Salvini e i suoi si possa venire a patti, sia a livello locale sia a livello nazionale: non si rendono ancora conto – e quando ci sarà il risveglio da questo dolce torpore oppiaceo, la sberla del 3 marzo 2018, a paragone, sarà valutabile come una leggera scrollatina che si dà al compagno di viaggio in treno che russa accanto – che costoro non hanno in mente alcuna trattativa.
Non dovremmo averla neanche noi: con i fascisti del terzo Millenno non si tratta. Non era cosa neppure con i fascisti del ’22 che, pure, una qualche testa dotata di grande spessore culturale l’avevano, figuriamoci se si possa (e si debba!) farlo con quelli che ci troviamo a fianco nello scompartimento, cento anni dopo.

Cesare Stradaioli

 

 

 

CHI PARLA E CHI NON ASCOLTA

Non è questione di cifre.
Tutto quanto ha a che fare con il TAV è strettamente ed esclusivamente connesso all’informazione e all’effettiva valenza della rappresentatività. Mi mette al riparo il fatto di non avere competenza alcuna in merito al rapporto costi/benefici o a questioni sia pur minime relative a ingegneria e viabilità; nulla, per contro, ci offre salvaguardia rispetto al modo di relazionarsi che vige in questo Paese, se non offrire quelle che Fortini amava definire insistenze. Che l’Italia fosse congenitamente portata alla divisione lo scriveva Leopardi due secoli or sono e la natura accanitamente faziosa dei suoi abitanti non pare essere cambiata più che molto poco, nel corso del tempo. Insisto, perciò, nel dire che non si tratta di cifre, di soldi, a costo di sfiorare il paradosso. Per quanto possa costare la realizzazione dell’alta velocità, per quanto potrà gravare da qui a chissà quando sulle finanze pubbliche la verosimile sommatoria di costi vivi, corruzione, plusvalore incamerato dalla criminalità organizzata, oltre all’altrettanto prevedibile per quanto immancabile sempiterna attività di manutenzione, tutto ciò sarà, in un modo o nell’altro, assorbito: come sono state assorbite, nei decenni passati, abominevoli opere che di ‘pubblico’ e di ‘utile’ non avevano quasi nulla – molte fin dall’inizio.
Quella che rischia di non esserlo (e, anzi, non lo dovrebbe) e che oggi si trova sul tavolo, più che l’onestà, più che la trasparenza – termini, come libertà, assimilabili a sacchi vuoti che devono essere riempiti a modo e che, in sé, poco valgono – è la VERA consapevolezza sociale di se, cosa e come si stia realizzando, in val di Susa come altrove. E il punto è che la discussione, vale a dire la sincera disponibilità non solo a dire la propria opinione, non solo ad ascoltare quella altrui, ma anche e infine a prendere in considerazione il cambiare idea, a fronte di argomenti che si reputino validi e fondati, è semplicemente non possibile. Non qui, non ora. Il giochino, perché di un gioco si tratta in realtà, è piuttosto semplice e già in sé denota la pochezza intellettuale e la sostanziale immaturità personale di chi lo pratichi. Scopo di questo gioco è non rispondere mai a tono; la vulgata lo declinerebbe in prendere l’altro per sfinimento. Proviamo a immaginare uno scenario che lo possa rappresentare; argomento qualificante: l’alta velocità, tanto per non fare nomi.
Al bombardamento mediatico, improvvisamente sollevato dopo decenni nei quali i favorevoli al TAV si contavano forse sulle dita di due mani, Tizio – cittadino ragionevolomente bene informato – oppone come, a quanto gli consti, tecnicamente il TAV non abbia ancora avuto un solo metro di galleria ferroviaria scavata, perciò di cosa stiamo parlando, quando parliamo di lavori sull’alta velocità già iniziati? Caio gli risponde a mezzo stampa, facendo sì che vadano sistematicamente in onda su qualsiasi canale, come proemio al servizio del giorno sulla questione del TAV, una decina di secondi nei quali si vede, sciamanti qui e là un gruppo di lavoratori in tuta catadiottrica, una galleria scavata che, in realtà è solo un deposito attrezzi. Non è una risposta. E’ molto di più: è un segnale, comunicazione per solito più elementare di un argomento e perciò stesso più facilmente assimilabile da un auditorio normalmente distratto e superficiale, facile all’imbonimento.
Non mi consta che in nessuna parte del mondo le merci viaggino ad alta velocità, continua Tizio (e dio solo sa se in Germania, fosse necessario, non l’avrebbero già fatto). Caio stavolta gli risponde a muso duro, allora tu sei fra coloro che vogliono le autostrade intasate dal trasporto su gomma. Tipico modo di rivoltare il discorso; non mi piace questo colore: preferisci il bianco e nero, quanto sei antiquato…
Per la verità – Tizio non molla – se proprio fossi posto di fronte all’alternativa secca, preferirei che sulle autostrade girassero i TIR e che fossero i treni passeggeri (inclusi e per primi i regionali) a sottrarre dal traffico centinaia di migliaia di auto. Caio mena il torrone, cavandosela con un classico del gaglioffo pensiero neoliberista: non c’è alternativa. Non andare oltre con i lavori significherebbe pagare una penale che non possiamo permetterci, considerato il nostro disavanzo e lo stato delle finanza, figuriamoci poi la restituzione di fondi che l’Europa già ha conferito.
Pur dotato di una certa tenacia tipica dei rompiscatole, Tizio non se la sente di salire di livello, ribattendo che la politica esiste anche per trovare SEMPRE un’alternativa e chi lo neghi è un mascalzone o un utile idiota: per il momento si limita a notare come non vi sia traccia di penali in nessun capitolato contrattuale dell’alta velocità e che, quanto all’Europa, sia universalmente noto come, se mai, i soldi dall’UE arrivino a opera completata, sicché non vi è nulla da pagare né tantomeno da restituire. Ma insomma, Caio sta perdendo la pazienza, ti poni come un pauperista grillino che sogna il ritorno alle carrozze a cavalli.
Tizio rimane perplesso: una risposta del genere gli suona sinistramente – ma non imprevedibilmente (la disonestà si basa spesso sul ripetere frasi a effetto) – simile se non uguale a quella che ricevevano negli anni ’70 gli ambientalisti che mettevano in guardia contro l’abuso degli idrocarburi e il conseguente inquinamento. Sta per dire di essere così contrario alle grandi opere al punto da avere in mente la messa in sicurezza di qualche centinaia di migliaia fra scuole, edifici pubblici e privati, territorio (e qualcosa d’altro che somigli a quello che è venuto giù nel ferragosto dello scorso anno a Genova), oltre alla coibentazione di milioni di strutture, con la possibilità di lavoro a tempo indeterminato di centinaia di migliaia di persone, il che porterebbe, di passaggio, a un risparmio energetico epocale, ma poi si rende conto, mentre nella pausa pubblicitaria tre messaggi su cinque si riferiscono ad automobili, di trovarsi nei panni di Alice a dialogare con il Cappellaio Matto, con la netta sensazione che qualsiasi ulteriore obiezione al TAV riceverebbe una risposta degna del sarà anche vero che il mio orologio non segna l’ora esatta, ma d’altra parte il tuo non ti dice che anno è…
Questo è il punto. Portare gli argomenti a spasso, per poi mettere l’interlocutore di fronte al fatto compiuto – vero o fittizio che sia questo fatto: ormai siamo in ballo, tornare a sedersi è poco elegante e non dà fiducia ai mercati. Chi vada cercando un minimo di effettività nell’essere rappresentati e, di conseguenza, nel vedere pur contare qualcosa le argomentazioni proprie o mutuate da altri, prosegua pure la ricerca – siamo in un Paese libero, n’est-ce pas?: qui e ora si fa la storia tramite l’economia, anime belle e la creazione di posti di lavoro è il carico da undici che chiude ogni argomento.
E se giungesse una commessa da parte dell’Arabia Saudita, notoriamente uno Stato dittatoriale con gravissime limitazioni alla vita della cittadinanza femminile, prevedendo la fornitura di mine antiuomo da prodursi in Italia con decine di migliaia di posti di lavoro, che si farebbe? Non è la stessa cosa, prontamente ribatte quello che porta in giro i discorsi; non si rende conto (ignora i fatti oppure ignora di essere strumentalizzato: veda lui cosa preferisce) che, per contro, la cosa è esattamente la stessa, perché è il principio a essere lo stesso. Non puoi invocare i posti di lavoro solo quando ti fa comodo. Peraltro, non è neanche la cosa peggiore che possa capitare.
Se il primo gesto del nuovo (sic!) segretario del Pd che ha fatto della discontinuità coi disastri renziani e i nuovi progetti di Carlo Calenda, già ministro dello sviluppo economico (delle imprese private: quello che, rappresentando il governo, sedeva al tavolo delle trattative industriali/sindacati, stando sempre dalla parte dei primi), è quello di schierarsi pro TAV (lo sapevamo già che nella torta ci sono le cooperative edili emiliane, grazie: sappiamo anche noi leggere fra le righe), c’è ben poco di cui discutere. Mancando gli interlocutori degni di nome, rimangono i soliloqui.

Cesare Stradaioli