Lo so bene.
A fronte del mio sdegno nel vedere e sentire una parata celebrativa, con tanto di inno americano, al cospetto di un mausoleo dotato di due sbarre di ferro facenti parte di una delle due torri del WTC (improvvidamente acquistate anni or sono dalla municipalità della città in cui vivo abitualmente), sdegno che stava per indurmi ad avvicinarmi e gridare dove e quando avremmo avuto un mausoleo anche per l’altro 11 settembre, incomparabilmente più grave e nefasto di quello newyorchese – dove migliaia di persone persero la vita e altrettante famiglie l’ebbero irreparabilmente compromessa, mentre a Santiago si consumava una tragedia di portata storica che di vite e di famiglie distrutte e di ideali (e non solo in Cile) ne avrebbe contate a decine di milioni – un eminente storico comunista quale Luciano Canfora mi avrebbe dato dell’imbecille. Continua a leggere »
GLI 11 SETTEMBRE SONO TUTTI UGUALI, MA QUALCUNO E’ PIU’ UGUALE DEGLI ALTRI
TIRIAMOLI DENTRO, NON BUTTIAMOLI FUORI
Rimango contrario. Essendo scarsamente (o per niente, ormai) interessato a convincere il maggior numero di persone riguardo a questa o quella mia opinione, esigo però da chiunque intenda argomentare in merito a cose serie – e chiunque lo deve esigere da me – che si parli e si ascolti in maniera seria.
Non è emettendo bandi di esclusione nei confronti di minorenni, per lo più infraquattordicenni, che si combatte la cretineria di coloro che si oppongono alle vaccinazioni. Costoro – i minorenni – non hanno alcuna colpa e l’unico rilievo che possa essere loro mosso è quello di avere due genitori imbecilli (oppure uno solo: e l’altro/a, del tutto inane), talmente imbesuiti dalla pubblicità, da trenta anni di berlusconismo e di analfabetismo di ritorno, da non rendersi conto dei disastri che le loro proteste a bocca larga provocheranno. Ulteriore conseguenza spiacevole – una delle minori: ma quando le conseguenze cosiddette ‘minori’ si contano in gran numero, finiscono per diventare ‘maggiori’ – è che, quando si tireranno le somme, ci sarà pace e perdono per tutti. Continua a leggere »
FALSE VERITA’ E VERE FALSITA’
Prendersela con le idee, ripeteva Fortini, è bastonare l’aria. L’idea è un qualcosa che rimane o se ne va, certo non a seconda di se, come ed eventualmente quanto chi la professa venga preso a male parole o impedito di coltivarla. Con, in più, il fatto che, in effetti, a bastonare l’aria ci si stanca ed è pure frustrante. Questo per quanto concerne l’idea – astrazione in sé, secondo Giorgio Gaber. Discorso tutt’affatto diverso, quando dalle idee si passa ai fatti, concreti o annunciati. Continua a leggere »
IL LIBRO DEL MESE DI AGOSTO – Consigliato dagli Amici di Filippo
E’ una lettura agevole, quella di “Volgare eloquenza”, appena dato alle stampe da Giuseppe Antonelli, ma non è per nulla piacevole: forse perché la sua analisi – di professionista che con le parole ci vive e ci scrive, essendo collaboratore dell’inserto domenicale del Corriere della Sera riferito alla lettura e alla rubrica “La lingua batte” su Radiotre – inevitabilmente ci ricorda e ci fa rimbalzare nella testa quell’eloquio davvero volgare e idiota dal quale oggi è difficile sottrarsi. Continua a leggere »
NON SANNO DI CHE PARLANO (E QUANDO NE PARLANO, VANNO PURE FUORI TEMA)
Al di là di mere ragioni di opportunità e di buon gusto che consigliano di non avventurarsi nel terreno minato degli argomenti sui quali non si ha la necessaria esperienza – che già di per loro sarebbero sufficienti – vi è un ulteriore motivo che milita in favore del mai tanto ripetuto e mai tanto disatteso adagio, secondo il quale le sentenze si rispettano, non si commentano, ed è il seguente, unicamente basato sui numeri.
Prendiamo, non a caso, la vicenda giudiziaria relativa a una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, in merito a un processo per stupro, con sentenza cassata e rinviata ad altro giudice di appello, della quale sentenza è emerso unicamente un principio che ha dato l’immancabile stura a tutta una serie di commenti. Il numero, per quanto qualificante è, però, impreciso: diciamo una ventina o qualcosa in più. Continua a leggere »
STROSZEK A VERCELLI
Il visionario Werner Herzog fece i conti anche con il Neorealismo (o con la ‘Neue Sachlichkeit’, che come ‘Nuova Oggettività’ culturalmente forse più gli appartiene: i nomi e le definizioni contano), quando portò sullo schermo, più di quarant’anni fa, una vicenda umana tragicamente simile a quella che si trova nelle cronache di questi giorni.
Un uomo qualunque, di cui sappiamo molto poco se non qualcosa sulla sua introversìa al limite dell’autismo, che non parla quasi mai e che appare costantemente stupito dal mondo che gli vive attorno e che lo trascina di qua e di là, esce di prigione ma non trova uno sbocco nella Germania del secondo dopoguerra in cui vive ai limiti della degenza e della decenza. Come niente, in un attimo si trova catapultato nella cosiddetta ‘terra delle opportunità’ – i miti sono duri a morire: e contro i miti non bastano le cifre, che definiscono gli USA come il Paese a economia di mercato da sempre con la più bassa percentuale di ascesa sociale – dove potrà (ri)farsi una vita. In breve, quel mondo disumano e assordante, pieno di colori accecanti, di false promesse, di parole urlate e musica sconclusionata e fastidiosa, gli si rivolta contro e, non potendolo rimandare da dove è venuto (mancano le risorse), lo emargina e gli manifesta la propria ostilità sotto forma della dipendenza dalla birra, che lo porterà a togliersi la vita in un sordido e miserabile luna park.
Quanto leggiamo sul tremendo fatto di sangue accaduto in Piemonte ricalca in maniera angosciosa la trama del film “La ballata di Stroszek”; soprattutto nel constatare che, al di là della considerazione che vede la morte di una persona – suicida, il protagonista del film: assassinata, la madre adottiva – la qualifica di ‘tremendo’ del fatto riguarda il motivo, il perché, il da cosa nasca il tutto. Un cittadino originario del Cameroun vede la propria vita cambiare nel momento in cui, giunto in Italia, viene successivamente adottato. La sua vita non cambia solo dal punto di vista del mettere insieme colazione pranzo e cena, possibilmente sotto un tetto in compagnia di persone che gli vogliono bene al punto da compiere quel nobilissimo gesto che, di solito, si sostanzia nell’adozione – e in questo caso, non si trattava di adottare un bel bambino biondo con gli occhi azzurri, bensì un ragazzo se non già un giovane adulto, con tutte le problematiche ulteriori che ben si possono immaginare. Cambia anche perché lui stesso, verosimilmente memore del bene ricevuto, decide di farne in prima persona e si attiva nella nostra società, che ora è diventata anche sua, nel fondare e dirigere una associazione che si occupa di integrazione.
Tutto bene? Neanche un po': perché, allo stesso modo in cui l’enigmatico Stroszek precipita nel tunnel della dipendenza dall’alcol, l’adottato cade nella rete delle scommesse e del gioco d’azzardo, ben presto ammalandosi di ludopatia. Il bisogno di denaro, che deve al contempo soddisfare la compulsione al gioco e saldare i debiti che ne conseguono, lo porta a uccidere la madre adottiva, che gli negava quanto chiesto.
E’ una storia che abbiamo già sentito e, possono ben dirlo anche coloro che non conoscono il cinema di Werner Herzog, è un film che abbiamo già visto: il tossicodipendente, l’alcolizzato che rubano in casa, che pietiscono denaro fino alla prostituzione, che malmenano i genitori e i conoscenti e infine li uccidono – per rabbia, per avere quello che vogliono, semplicemente perché quella vita che gli nega il denaro è un ostacolo al bisogno di togliersi per qualche momento i serpenti dalla testa e allora la si deve spegnere. Avevamo aggiunto, alla casistica del nostro Paese, anche i disgraziati che si ammazzano per debiti (e sono disgraziati a tal punto da non tenere conto di chi lasciano e in quali condizioni, morali e materiali): per non farci mancare nulla, finalmente anche la ludopatia.
L’avevamo detto. Lo diremo. Lo ripeteremo. Da antiproibizionista qual è sempre stato, chi scrive insiste a dire che il gioco deve essere proibito; che deve essere eliminato lo sconcio della pubblicità per qualsiasi tipo di gioco d’azzardo, di scommessa; che devono essere chiuse le sale slot e dai locali pubblici devono essere bandite le macchinette cosiddette ‘mangiasoldi’ (e già il nome dovrebbe essere d’avviso: possiamo immaginare una bottiglia che contiene una bevanda alcolica in libera vendita, con scritto sopra “distrugge il fegato”?); che devono essere oscurati i siti che pubblicizzano e incrementano le scommesse. Prontissima la risposta all’altrettanto pronta e più che legittima obiezione: ma come, sei antiproibizionista perché sai – e lo vai ripetendo – che laddove si proibisce qualcosa, la sua qualità peggiora, provocando più danni di quando non era legale e arricchendo la criminalità organizzata e vorresti proibire il gioco d’azzardo?
Se è per questo, proibirei anche cinodromi e ippodromi.
Il motivo per cui ritengo, oltre che doverosa, assolutamente praticabile la proibizione del gioco, che siano scommesse, azzardo, quello che volete, sta nel fatto che procurarsi illegalmente alcol, stupefacenti o prodotti farmaceutici proibiti, è piuttosto semplice: certo che esisterà sempre il maniaco che, pur di scommettere, punterà denaro con qualche amico anche sulla corsa di due scarafaggi catturati alla bisogna e messi a gareggiare nel retro del garage di casa! Ma voglio proprio vederli, gli scommettitori illegali, a organizzare ricevitorie e puntate (con relativo pagamento), negli stessi luoghi immondi in cui, molto più facilmente, si vendono l’eroina o il crack, emarginati e additati al pubblico ludibrio allo stesso modo degli spacciatori; voglio proprio vedere quanto durerebbe l’estensione del gioco d’azzardo, non potendo essere praticato comodamente seduti davanti a uno schermo o anche semplicemente al calduccio (o al fresco dell’aria condizionata) di un locale accogliente. Lo ritengo impraticabile: la proibizione ridurrebbe al minimo dei suddetti folli degli scarafaggi la percentuale di cittadini che dilapidano la propria e l’altrui vita.
Quanto al possibile guadagno derivato dalla proibizione del gioco e delle scommesse – che è conseguenza indiscutibile del divieto di fare o assumere alcunché – e in merito alla considerazione per la quale il divieto del gioco, contrariamente, porta a introiti molto minori, ci si può limitare a citare le sacrosante parole dell’amministratore delegato di “William Hill”, una delle più grandi catene di gioco e scommesse, dette qualche anno fa riferendosi alla legalizzazione delle scommesse sul calcio, intervenuta in Gran Bretagna a inizio degli anni ’60: “E’ come se ci avessero autorizzato a stampare carta moneta per conto nostro.”
Penso che ogni commento sia superfluo.
Per contro, è richiesto – con una certa urgenza, anche – un serio dibattito: prima che ci pensi la Lega.
Oltre che gesto umanitario, sarebbe anche sana e lungimirante strategia politica.
Cesare Stradaioli
GIORNALISMO CRIMINOGENO
Una sera due uomini, armati, si affrontano in un sordido luogo nella periferia della città dove passo la maggior parte del mio tempo. Dopo poco quello che la stampa ha chiamato “duello”, uno dei due rimane a terra, ucciso da un colpo di katana brandita dall’altro. Tempi brevissimi, arresto, qualche indagine – poca roba: è tutto chiarissimo – e, infine, il processo; quando ci sarà: a breve, direi. Nel corso del quale si sapranno motivi e moventi, ragioni e dinamiche del fatto, prima della sentenza che, inevitabilmente, sarà di condanna.
Immediatamente, lo stesso giorno dopo, in tutte le edicole della città campeggiano le locandine dei tre quotidiani locali, riportando la notizia con, di seguito, la dichiarazione – virgolettata, dunque diretta, dunque ancor più enfatizzata – di un congiunto della vittima, che preannuncia la vendetta: quando e dove non importa, garantito che ci sarà. Un giorno di pausa per dare il tempo ai lettori di introiettare il tutto e la sarabanda riprende. Di nuovo le locandine tornano sul fatto, questa volta non riportando dichiarazioni di persone toccate dalla tragedia, bensì un breve ‘telegramma’ di stampo editoriale: si teme una faida. Sarebbe da ridere – riportare certe dichiarazioni e poi temere una faida è come gettare benzina su un incendio a piano terra e paventare il suo allargarsi ai piani superiori – se non ci fosse da rabbrividire e provare umana pietà per due famiglie che saranno per sempre segnate dal fatto accaduto.
E’ da chiedersi cosa spinga il direttore di un quotidiano, che risponde non solo di chi lavora sotto la sua supervisione, ma anche e direi soprattutto di cosa e quanto viene scritto su quel giornali, a utilizzare in maniera così bieca, incosciente, irresponsabile le notizie di cronaca. Cosa c’è di razionale nel dare libero sfogo e risonanza allo stato d’animo di chi viene toccato negli affetti, nelle amicizie, nella piena consapevolezza che, in questo modo, difficilmente emergeranno parole di pietà o di distacco (o, magari, nessuna parola del tutto), mentre invece verrà dato il microfono ai peggiori miasmi che abitano nel corpo sociale di una cittadinanza stremata dalle emergenze, per lo più fasulle, incattivita per reazione e per autodifesa? Scelta di mercato? Un modo come un altro per incrementare le vendite? Dobbiamo assistere a spettacoli come questi, come se non bastassero gli allarmi che si susseguono uno via l’altro? C’è poco da discutere: pubblicare simili locandine equivale a rinfocolare l’intolleranza latente, l’aggressività che permea praticamente ogni angolo della nostra vita e delle nostre giornate: detta in altri termini, contribuisce ad alzare il livello di violenza, verbale e fisica che connota l’occidente negli ultimi decenni. Equivale a essere complici, consapevoli o meno ma su questo io non accetto scuse, di ogni possibile atto di sangue che potrebbe sorgere da quanto è accaduto.
Qui non si tratta di comprimere la libertà di espressione e il diritto di cronaca – attivo e passivo: di chi la racconta e di chi la legge – per quanto, proprio in punto di libertà di stampa, sarebbe sufficiente riportare le notizie sul ritrovamento del corpo di una donna, prima violata e poi uccisa e infine occultata o, peggio, vilipesa, senza soffermarsi morbosamente sui particolari più crudi e orribili, la cui diffusione NON è un omaggio al diritto di cronaca, quanto piuttosto una palese violazione dell’intimità di una persona, pure se non più vivente, e dei suoi cari, congiunti e conoscenti.
Il punto è che ci troviamo in presenza, e non da oggi, di un modo di fare giornalismo che sembra avere smarrito i principi base della professione, che prima di tutto poggiano sul senso di responsabilità e – sì, perbacco – sullo spirito di servizio: che non deve essere inteso come servizio a favore di qualcuno, bensì serietà e consapevolezza verso la società in genere. E se questo significa rendersi conto che, per tutta una serie di motivi che ben conosciamo, nel mondo in cui viviamo qui e ora basta poco, pochissimo per rincrudire all’istante ogni forma di relazione umana, e che questo rendersi conto possa, se non addirittura debba portare ad abbassare i toni, a fare in modo che le notizie vengano date tutte e per intero ma senza l’inevitabile condimento di esasperazione, rabbia, sfogo da latrina, abbruttimento (di chi legge ma anche di chi scrive in quei modi), ebbene che i toni si abbassino e si evitino certe locandine che nulla danno di positivo e nulla aggiungono al doveroso riportare una notizia terribile, ma che servono solo ed esclusivamente a incattivire ancora di più chi legge ed elabora in maniera distorta e, per l’appunto, criminogena, quanto gli viene servito da una stampa che sembra avere meso in soffitta – o in cantina – ogni senso del limite, della decenza e del senso civico.
Cesare Stradaioli
Una nota a margine.
Qualche giorno fa, il quotidiano Repubblica dette grande enfasi alla notizia che proveniva da Roma, secondo la quale il consiglio comunale aveva votato una delibera che avrebbe portato a intitolare una via della capitale a Giorgio Almirante. Il sindaco – da chi scrive mai si leggerà l’orripilante ‘sindaca’ – Virginia Raggi, pareva cadere dal pero a fronte di una simile notizia che, per ovvie ragioni, dovrebbe indignare i più. Dovrebbe.
(Per quanto grave possa essere, e lo è senza discussione, che a un difensore della razza, nonché incidentalmente fucilatore di partigiani possa essere dato il nome di una via, personalmente ritengo sia stato più grave che il signor Giulio Andreotti sia stato nominato senatore a vita e che tale carica non gli sia stata revocata dopo la sentenza di Palermo che pronunciava intervenuta prescrizione per reati di mafia fino al 1980, ma questa è opinione personale)
Pochi giorni dopo, come peraltro aveva preannunciato, Virginia Raggi intervenne e la cosa finì lì: a Giorgio Almirante NON verrà intitolata una via di Roma.
Nessuna notizia di questo su Repubblica.
Ora, questo non è certamente giornalismo criminogeno: disonesto e puttaniere, però, sì e di molto anche.
CS
FARE QUALCOSA DI SINISTRA
Sia consentito un ricordo personale, a mo’ di preambolo.
Da poche settimane Forza Italia, guidata da Silvio Berlusconi, aveva trionfato alle elezioni politiche. Era il 2001, l’anno dei famosi 61 collegi a 0 in Sicilia e l’enfasi e il significato del risultato di quella tornata elettorale erano inevitabilmente giunti in Australia. Al culmine di una discussione con alcuni nostri connazionali che commentavano il possibile prossimo futuro italiano, Filippo Ottone disse (vado a memoria): “Io non posso augurarmi che Berlusconi governi male. Non posso sperare che combini disastri, solo per poter dare alla sinistra l’occasione di rifarsi, per poter dire ‘eh, avete visto?’. Se Berlusconi governa male e fa danni, più di quelli che temo provocherà, quando finirà questo suo mandato o il prossimo, se ve ne sarà uno, lui se ne tornerà a casa più ricco di prima, mentre l’Italia, specie nelle classi medie e basse, sarà più povera, più ignorante, più socialmente disgregata. Quello che deve essere fatto, è un’opposizione senza quartiere.”
Ecco, ci sono quelli come Filippo, che guardano lontano e pensano al meglio per il Paese e a come fare per cambiare; poi ci sono i mascalzoni che si siedono in poltrona con il pop corn (una fetta di pane e Nutella gli pareva troppo provinciale, bisogna sempre scimmiottare quegli imbecilli che stanno al di là del lago – parole e musica di Wilfredo Pareto, 1911), beati e felici come maiali nella merda che l’attuale esecutivo, di fatto guidato da Matteo Salvini, porti l’Italia a destra, semini il terrore, faccia salire in superficie come lurida schiuma di scarico le peggiori pulsioni di una cittadinanza resa schiava dall’ignoranza e rimbecillita dalla pubblicità. Vedete come va male, anche senza di noi? E giù risate e un sorso di Coca-cola. Allegri e appagati di vedere gli italiani sempre più poveri e più razzisti. Rivendicano con forza – insistono, ancora adesso, non si lasciano sfuggire un’intervista per ribadirlo – di avere chiuso la porta in faccia al M5S, con la netta consapevolezza di allora, confermata dallo stato attuale delle cose, che così facendo avrebbero consegnato il Paese alla Lega, con tutto quello che ne consegue.
Non tocca a loro, riportare questo disgraziato Paese sui binari della civiltà e dell’umanità. Sono ignoranti, stupidi, boriosi, arroganti, infantili; per tendenza e per educazione ricevuta sono incapaci di dialogare, di sostenere un confronto (ma neanche una semplice conversazione da vagone ferroviario) con opinioni contrarie o leggermente dissonanti dalle loro, di insistere su questo o quell’argomento su basi culturali e con coscienza e volontà. In poche parole: non sono adatti alla politica. Non hanno spirito di servizio.
Invece di andare al cinema – specie in questo periodo, dove si vedono generalmente film orrendi – a osservare il loro stesso mondo che si decompone, idioti come scimmie che segano il ramo su cui stanno sedute, la Sinistra, una vera Sinistra dovrebbe apprestarsi a fare qualcosa di molto semplice, perché l’esercizio del potere e la sua stessa opposizione sono, in realtà, piuttosto semplici: governi? Dirigi, legifera, agisci. Stai all’opposizione? Opponiti. Fai programmi. Combatti ogni giorno. E finalmente, voci quali quella di Piero Ignazi si fanno sentire: un governo ombra. L’opposizione di sinistra DEVE – in questo sistema politico, in questa situazione non si vedono alternative serie – formare un governo di opposizione, speculare a quello in carica e agire sotto due profili.
Primo, quello di analizzare, sviscerare, esaminare punto per punto ogni singola azione dell’esecutivo, fosse anche una banale circolare interna. Capire, cosa vuole fare l’esecutivo, intuire le sue intenzioni e fare le pulci a ogni passo compiuto; stargli addosso, non mollarli neanche un istante, concordare quando è il caso e non cedere neanche di un passo su quello che non va bene.
Secondo, contemporaneamente, stilare un proprio programma che, da un lato proceda su proprie gambe e dall’altro proponga tutto quello che deve essere proposto rispetto a ogni legge, decreto, missione politica, dichiarazione, in Italia e all’estero.
Il significato è, per l’appunto, semplice: farsi conoscere. Rendere note le proprie posizioni con una sistematica, quotidiana attività di informazione e di contrasto. Ogni giorno, a partire dal primo atto governativo dell’esecutivo in carica. Cioè fare esattamente il contrario di quanto la Sinistra ha sempre fatto, vale a dire proporsi solo ed esclusivamente in campagna elettorale, quando il meglio che si può ottenere è un po’ di attenzione, subito stritolata dalla macchina propagandistica del governo in carica. Per non parlare del fatto che farsi vedere solo quando si avvicinano le elezioni, rischia seriamente di dare l’idea all’elettorato meno attento di essere solo a caccia di voti e di poltrone, da mantenere o da riconquistare.
Farsi conoscere non solo e non tanto (e, al limite, anche per niente) in merito a questioni complicate, contorte, complesse, quanto piuttosto e, direi, soprattutto, per quelle più comprensibili, semplici e sulle quali un intervento non sia impastoiato da mille laccioli, ciò che annacqua e diluisce nel minestrone del tutto è uguale ogni istanza, per quanto sincera e doverosa sia. Una per tutte? Lotta senza quartiere al gioco d’azzardo, dati alla mano, porta per porta, piazza per piazza, intervista per intervista, per combattere la ludopatia. E’ semplice: chiunque conosce una famiglia con problemi di gioco; anche un bambino sa che la maggior parte dei profitti finisce alla criminalità organizzata; qualsiasi adulto ragionevole sa bene che uno Stato biscazziere è una bestemmia. Non è neppure tanto difficile e dispendiosa da fare, come campagna di informazione, presa di coscienza e, infine, di mobilitazione.
La Sinistra DEVE operare in questo senso, su argomenti quali il gioco d’azzardo: per il bene del Paese e prima che se ne occupi la Lega, perché qui e ora, chi scrive è disposto a scommettere una cifra che sarà uno dei prossimi cavalli di battaglia (per meglio dire: di consenso, perché in realtà non faranno nulla di concreto: sarà sufficiente sbandierarlo) di Matteo Salvini.
Anche questa scommessa è un gioco d’azzardo: con la differenza, rispetto a quelli che vogliamo combattere e bandire, che garantisce una vincita sicura.
Cesare Stradaioli
IL LIBRO DEL MESE DI GIUGNO – Consigliato dagli Amici di Filippo
La fisica è una materia strana. Molti di noi la considerano cosa da appassionati, da menti portate allo studio della scienza; argomenti troppo specifici, astrusi, magari da affrontare superficialmente nel programma di scuola per poi lasciare appena possibile.
La fisica invece, permea il mondo; lo stesso mondo che a misura d’uomo possiamo imparare a conoscere tramite altre materie come la chimica e la biologia, quando si espande nell’infinito dello spazio o nell’infinitamente piccolo dell’atomo può essere compreso nel suo profondo funzionamento proprio dalla fisica che abbandonando questioni, come dire, contingenti, di elettricità o dello scorrere della pallina sul piano inclinato, ci svela la realtà in tutta la sua complessità e bellezza.
“Senza la conoscenza della fisica non si può fare niente, neanche politica”
Così scrive Friedrich Adler politico che è diventato fisico avendo compreso che se la fisica studia il funzionamento del mondo, in questo funzionamento sta anche la politica che ne è parte fondamentale.
Fisica per la pace è un libro che parla di fisica ma anche di politica e soprattutto di uomini, menti brillanti nel loro campo ma anche dotati di coscienza e spirito libero che hanno visto questo stretto legame tra scienza e politica e si sono adoperati per un sapere legato alla pace e all’unione delle comunità di scienziati ma soprattutto dei popoli.
Quando hai in mano la chiave per la distruzione del mondo e quando perdi l’innocenza di chi pensa alla conoscenza come valore di per sé mentre assiste allo sgancio della bomba nucleare, devi scegliere. Non puoi non scegliere. E molti scienziati hanno scelto la costruzione di un percorso di pace fatto di incontri, conferenze, manifesti scritti in collaborazione, firme ottenute dalla comunità internazionale scavalcando le cortine di ferro, simposi e gruppi di lavoro che sono diventati occasione di incontro e condivisione della conoscenza per uno scopo comune: promuovere la pace e affrancarsi dalla avidità del mondo militare per strumenti troppo potenti da lasciare in mano ai guerrafondai.
Il libro aiuta a capire la nascita di questa coscienza pacifica da Einstein e il suo pensiero (che fu il primo) per una Europa unita, a Bertrand Russell e il suo manifesto Mans Peril che ha dato il via all’impegno transnazionale degli scienziati. La nascita del CERN prima e della cooperazione spaziale europea, poi, grazie allo sforzo visionario di un grande fisico, Edoardo Amaldi, fa capire quanto sia stato difficile affermare la visione pacifica della scienza europea contro la visione militare delle altre istituzioni mondiali. Il passato recente è fatto di successi internazionali: il Centro Internazionale di Fisica Teorica di Trieste definito un “ponte per la pace”; l’Uspid, Unione degli scienziati per il disarmo; l’Isodarco, Scuola internazionale sul disarmo e il SESAME, una nuova luce per il medio Oriente.
Tutto il libro, molto ben scritto e documentato, ci avvicina a persone che abbiamo visto sempre come scienziati e non come uomini che vivono il loro tempo anche in una dimensione politica e sociale; e ci ricorda che tra le materie di cui non possiamo fare a meno per costruire un mondo di pace, oltre alla fisica, un posto importante lo occupa la STORIA.
Anna Campo
Pietro Greco, a cura di – Fisica per la pace – Carocci Editore -210 pagg. 262, €21
IL CIELO IN UNA FOTO
E’ la foto di una foto, quella che è comparsa su molti quotidiani, qualche giorno fa. La foto di un ragazzo che scatta a sua volta una foto nella quale, oltre a se stesso in primo piano, appare l’immagine di una disgrazia. Detta così, probabilmente dice poco. C’è di peggio, accade di peggio, tutti i giorni, è ovvio, rispetto al comportamento di un ragazzo che, vedendo una donna ferita a terra mentre viene soccorsa in mezzo a due binari ferroviari – perderà una gamba, come si saprà più tardi – invece di contribuire al soccorso (anche solo parlando, a questa donna: non serve per forza, sempre e comunque la stramaledetta specializzazione, in questo mondo rimbecillito) o, più semplicemente, voltando lo sguardo altrove per non profanare l’intimità di qualcuno che sta soffrendo, con esposti il proprio volto oltre a carne e sangue, non trova di meglio da fare che immortalarsi con tanto tragico spettacolo alle sue spalle.
Non dovremmo prendercela con questo ragazzo in ridicoli pantaloni corti, così inelegante e goffo (ma quanto goffa sia la sua moralità fa splendere di eleganza il suo vestiario esteriore). Dovremmo giudicare noi stessi, prima del singolo. Cosa l’abbia spinto a un simile gesto – penalmente non rilevante – sarà, se qualcuno vorrà farlo, materia di studio per i cultori degli studi sui comportamenti umani. Personalmente non vedo cattiveria, né disprezzo, in quella foto; trovo che ci sia molta più mancanza di rispetto per la condizione umana in quei poveri disgraziati (non trovo altri termini) che si fermano a bordo strada a guardare quello che rimane di un incidente stradale, bloccando traffico e soccorsi. Costui ha fatto una foto, con tutta probabilità nell’intento di condividerla. O forse no. Che questo suo gesto abbia espresso il bisogno umano di condivisione, dunque di esistere come parte di qualcosa o la necessità di uno sfogo al limite dell’onanismo nel conservare per sé una immagine di quel tipo, sta di fatto che guardando quella foto di una foto noi vediamo, dobbiamo vedere, un’umanità dolente. Che è incapace di provare sia il bisogno di soccorrere sia l’imperativo di non violare la sofferenza umana (quella stessa che ovunque al mondo dove ci sia una parvenza di umanità, porta qualcuno a coprire il volto di una persona morta, esattamente a quello scopo), questo è chiaro: ma, più nel profondo, un’umanità che non sa cosa raccontare e cosa ascoltare, analfabeta di andata e ritorno, sorda e cieca a messaggi che non siano volgari e brutali coscrizioni al consumo, immersa in una solitudine talmente profonda da non essere in grado di esprimersi se non ad alta voce oppure con le immagini rubate.
Non dovremmo odiare questo ragazzo, anche se la tentazione è forte, senza stare a disturbare Bertolt Brecht e il suo riferimento allo sdegno che fa contorcere i tratti del viso e anche i pensieri. Non siamo più in stato di guerra, quanto meno non in Europa e quindi ci dobbiamo contentare di indignarci per un idiota che si fotografa con una persona ferita, in luogo di massacri di civili e campi di sterminio.
Dovremmo, invece, essere grati a quel ragazzo. La piccola e insignificante vicenda umana di cui è stato, controvoglia, protagonista, potrebbe aiutarci a capire molte cose.
Capire dove e perché siamo arrivati a questo e come abbiamo potuto e da dove possiamo e dobbiamo cominciare.
Cominciare dalle piccole cose, per esempio e tanto per cambiare – ché quelle difficili non si può, perché sono … difficili: vorrei che i giornalisti, TUTTI i giornalisti, tutti i comunicatori cominciassero a praticare una quotidiana igiene del linguaggio e smetterla di usare parolacce quali ‘selfie‘. Sarà poca cosa, ma se anche servisse a pubblicizzare un po’ di meno questa pratica che definire ridicola è usare un eufemismo (mentre, per contro, il nomignolo anglofono merita decisamente che si usi il termine ‘cretino’), magari ci sarà qualcuno in meno che la userà e allora forse uno fra i prossimi dieci invece di fotografarsi con la sofferenza umana sullo sfondo, potrebbe anche non fare niente che sarebbe meglio, se proprio non può usare quell’accidenti di cellulare per chiamare il 118.
Potrebbero anche smetterla di usare altre parole quali ‘quadra‘, ripetuta a capocchia, che non vuol dir assolutamente nulla, ma che viene usata solo perché la rese famosa, utilizzandola per primo, quell’ignorante di Umberto Bossi (definisco tale uno che sentendosi chiedere se il proprio figlio potesse essere definito suo ‘delfino’, rispose – manifestando un evidente disprezzo per il proprio erede – che al massimo poteva essere definito ‘trota’, e così manifestando la propria ignoranza in tema di mammiferi e di pesci, cioè materia di studio da programma delle elementari).
O smetterla di definire ‘folle gesto‘, fatti di sangue che gridano vergogna, quale quello del sindacalista emigrato nel nostro Paese, assassinato per conto della criminalità organizzata e non da un pazzo demente.
Essere grati a quel ragazzo significa, a distanza di un paio di giorni, non guardare il dito e, dunque, non guardare lui, bensì guardare ed esaminare con attenzione cosa ci sta involontariamente indicando. Non lo dobbiamo odiare, perché invece di perdere tempo e intelligenza a detestare gli effetti, dovremmo dare un’occhiata alle cause e allora sì che ci starebbe bene un autoscatto: ciascuno di noi, con alle spalle quel ragazzo che fotografa.
Cesare Stradaioli