DOMANDE (VOLUTAMENTE) SENZA RISPOSTA

Una dimandina a ciascheduno“, così alcuni conoscenti mi descrivono l’esordio a ogni lezione di un pacato ma severo insegnante di matematica di altri tempi – anche nell’eloquio.
Cosa muove l’umana pietà a coprire il viso di una persona, morta o uccisa, che giace in mezzo alla strada o in altro luogo aperto al pubblico? Perché non vengono pubblicate foto di questa o quella autopsia, pure se un nostro connazionale quarantenne di oggi nella sua vita, fin dalla più giovane età, ha verosimilmente visto – o ne ha appreso esistenza e modalità – decine di migliaia di uccisioni? Perché sulla carta stampata e via radio e televisione si ritiene opportuno non pubblicare, se non in quanto strettamente inerenti a un’espressione artistica, bestemmie, insulti, riferimenti calunniosi? Un adulto ha gli stessi diritti di un minorenne a essere esentato dal vedere spettacoli di morte o dell’umana idiozia, senza per questo sentirsi trattato da bambino?
Cosa spingeva gli assassini neonazisti dell’Isis (o Daesh che forse è più corretto) a mettere in rete le truculente esecuzioni mediante decapitazione o il più sbrigativo taglio della gola? E perché i media non le hanno mai pubblicate, previo avviso per coloro i quali volessero evitare di vederle? Chi intendeva raggiungere Totò Riina quando, registrato durante un’ora d’aria all’interno del carcere (che fosse a sua insaputa non è da crederci neanche per un momento), disse che quel tale Pubblico Ministero era destinato a “fare la fine del tonno“? Per quale ragione uno o più deficienti (intendo dire: mancanti di alcune qualità superiori che caratterizzano la natura umana), in luogo di limitarsi all’insulto da stadio verso una tale squadra di calcio, ne fanno indossare la divisa ad Anna Frank? E quale scopo si prefiggono, altri deficienti della stessa coloritura tribale (non spendo per cotanti imbecilli le nobili parole ‘politica’ e ‘ideologica’), nel comporre cartelloni o manifesti che raffigurano l’ex sindaco di Udine con indosso la divisa di un campo di sterminio, aggiungendoci la scritta ANPI, in luogo della Stella di David?

Perché, una volta uscita dal segreto di indagine e di intercettazione, quella frase pronunciata del boss mafioso è stata ripetuta da svariati cronisti e conduttori televisivi, con l’occhio lucido dall’emozione stile mamma mia, sentite cos’ha detto Riina (e la dizione ben chiara e ben scandita, caso mai a qualcuno fosse sfuggito il senso del messaggio)? Proprio non si poteva fare a meno di dare voce alla mafia? Era così necessario riportare la notizia in maniera letterale, come se l’illustre detenuto fosse stato uno che aveva parole da buttare?
Perché media e carta stampata pubblicano il bel volto sorridente di Anna Frank, usato come insulto e l’immagine di Furio Honsell e dell’ANPI sottoposti a dileggio? Se i suddetti deficienti fossero tanti, perché rafforzare ulteriormente la loro presenza sul territorio? E se – come pare più probabile – sono pochissimi, perché aiutarli a diffondere i loro borborigmi mentali?

Cesare Stradaioli

IL DECORO IN ALTRO EMISFERO

Si dirà che il paragone è poco proponibile, che le differenze di livello culturale e quelle storiche non consentono di argomentare come se si trattasse di situazioni, circostanze, persone e ruoli facilmente accostabili.
Sta bene. Rimane il fatto, nella sua spoglia oggettività – e a prescindere da chi se la sia cantata e chi abbia fatto l’uccellino con chi di dovere – mentre uno si trova all’estero, viene a sapere che nel Paese dove al momento si trova, il vice primo ministro rassegni le dimissioni dall’incarico a seguito della vicenda che lo ha visto coinvolto con una funzionaria del proprio apparato. In due parole, la signora è, come si suol dire, in dolce attesa e i due sono sposati altrove. Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull (coalizione di centrodestra, sia detto per inciso) ha seduta stante preso la parola e senza porre tempo in mezzo, pur attendendo il gesto da parte del suo vice – non stava bene chiederglielo: qui non si usa, è il soggetto interessato che deve togliere il disturbo e l’imbarazzo al proprio esecutivo di appartenenza – ha emanato una direttiva, secondo la quale è assolutamente vietato, all’interno di ogni singolo ministero, avere relazioni sessuali con membri del proprio staff. Il sesso omosessuale, fra le altre, ha la caratteristica di non avere gravidanze indesiderate, non di meno la direttiva include pure quello.
Un aspetto alquanto singolare, almeno per noi, è che questa direttiva è stata, per così dire, ‘emanata’ durante una conferenza stampa; nei modi e nelle forme previste dal questo sistema politico, assumerà carattere ufficiale, ma la sua effettività ha preso corpo e sostanza contestualmente. Detto ciò, Turnbull è volato negli USA a incontrare uno che di esercizio del potere verso le donne probabilmente ne sa e ne pratica parecchio più di lui: la cosa può suonare buffa, ma è del tutto occasionale e, in ogni caso, la direttiva rimane.
Rimangono anche altre due considerazioni: la prima riguarda il malcapitato – che, se seguiva i propri compiti istituzionali allo stesso modo in cui governava la propria sessualità, forse è stato un bene per l’Australia che si dedichi ad altro; uscita la notizia, il vice primo ministro Barnaby Joyce non ha detto bah, non ha accampato scuse, fraintendimenti, giaculatorie, esortazioni a non alterare il quadro istituzionale (concetto che, da queste parti, al massimo può significare uno schermo luminoso o meno in cui sono riportati i nomi dei ministri): si è scusato con i suoi elettori e con il popolo australiano – avete letto correttamente – e ha lasciato l’incarico. Va detto che l’uomo si presenta non esattamente bene: diciamo che, stando ai nostri canoni di eleganza sartoriale e di comportamento, potrebbe simboleggiare la classica persona che non gradiremmo avere seduta a fianco, a tavola (di certo usa il coltello col pesce) o in treno (l’approccio esteriore è proprio di quelli che sbraitano i fattacci propri al cellulare).
Tuttavia, ha compiuto un gesto di grande significato per quanto sia considerato assolutamente la normalità in certi Paesi e questo dovrebbe dirla molto lunga su come gli italiani giudicano coloro i quali chiedono il loro voto e come loro stessi, i candidati, scelgano di presentarsi.
La seconda considerazione ha a che vedere col fatto che NESSUNO in tutto il Paese ha espresso un solo commento; essere favorevoli è ovvio e scontato, dunque che senso ha per ABC o per altre emittenti radiotelevisive andare a sfrucugliare questo o quel politico; il quale questo o quel politico, se non è d’accordo, se lo tiene per sé, esprimendolo tutt’al più all’interno delle mura domestiche, che se lo facesse in pubblico o in sede istituzionale, perfino i membri del suo stesso partito, pure se all’opposizione, gli farebbero cenno di stare zitto e in malo modo, anche.
Ora, l’Australia non è il paese dei balocchi; è una società solidamente basata sul liberismo, dove – in omaggio al vecchio adagio inglese – davvero ogni uomo è un’isola e siamo a tanto così da quell’altro detto (thatcheriano) secondo il quale non esiste la società, bensì un insieme di singole individualità. Il lavoro è mobilissimo, Uber spadroneggia, la convenienza economica viene prima di qualsiasi altra cosa. Ci sono le regole, genericamente i cittadini le rispettano, le cose più bene che male funzionano, la gente è cordiale e birre e vini manca poco che vengano buttati dalle fontane; dopo di ché, succedono fatti come la vicenda della Ansett, che nel 2001, dopo avere vinto per tre anni di fila il titolo di migliore compagnia aerea al mondo – per quello che vuole dire: non poca cosa, comunque – fu letteralmente annientata dalla Qantas che, con un gesto di gangsterismo economico e finanziario degno di uno qualsiasi dei più deprecabili personaggi di Charles Dickens (e tanti saluti al libero mercato), fece proprio l’intero pacchetto continentale, mandando nel contempo alla Air New Zealand che della Ansett era azionista, un messaggio in pretto stile mafioso che suonava grosso modo come un bonario consiglio di starsene buoni, che agli ‘amici’ (il manager della Qantas e i suoi mandanti politici) la confusione ci dà fastidio.
Resta il fatto, al netto di ogni opinione personale sugli indirizzi sociopolitici di questo o quel Paese, che certe cose, quali una relazione sentimentale o pianamente fisica, che nulla hanno di penalmente rilevante fra adulti consenzienti, in determinate circostanze costituiscono un problema a livello di decoro istituzionale. Nell’ambito di consorzi civili quali quello australiano, nemmeno si arriva a questionare intorno al fatto che un primo ministro, un presidente del consiglio, una figura pubblica, non può (non è che non deve: non può) tenere a casa propria una di quelle che la fantasiosa per quanto puttana stampa italiana – che è ricchissima di fantasia – ha definito ‘cene eleganti’ (come se noi cittadini ordinari, per portarci a letto una donna o un uomo ci vestissimo come dei baluba e per cena un cinese a portar via), perché da quella sera in poi diventa soggetto facilmente ricattabile – che è il motivo vero e primo per cui la vita sessuale di Berlusconi, checché continuino a cianciarne gli imbecilli e i disonesti, NON era affare suo, fintanto che ricopriva il ruolo di presidente del consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. In Australia non si arriva a tanto: nemmeno ci si avvicina, per il semplice fatto che, al di là della pruderie solleticata dai tabloid locali, il cittadino si aspetta le conseguenze dai gesti compiuti: ti avevamo eletto per fare politica e tu fai le cosacce con una tua collaboratrice (e le hai anche fatte malamente: a 50 anni suonati, metti incinta una donna senza volerlo: dà da pensare)? Ti accomodi e ritorni alla tua vita personale, all’interno della quale sarai liberissimo di fare quello che più ti pare, ti piace e ti fa comodo.
Termini quali ‘disciplina’ e ‘onore’, suonano certamente un po’ vintage e sono evidentemente figli del loro tempo, quello in cui fu scritta la nostra Costituzione: non di meno, pure se hanno assonanze d’altre epoche (pure quelle, di sicuro non sempre encomiabili), quei termini abbiamo e sono specificamente indirizzati a quei cittadini ai quali sono affidate – essendosi a tale fine loro proposti, candidandosi – funzioni pubbliche. Oggi si vota per il rinnovo del Parlamento; ha ragione Massimo Cacciari, i politici italiani (specie quelli di sinistra) sarebbe ora che dicessero la verità, parlassero delle cose come stanno e non come sognano che siano e nel dire la verità si intende anche comportarsi secondo verità ovvero secondo onestà – leggi disciplina e onore.
Male non farebbe e ci sarebbe pure il caso che il ceto politico italiano – più verosimilmente il prossimo, ché l’attuale pare avere esaurito ogni bonus – ne guadagnasse in rispettabilità, credibilità e autorevolezza. Sognare non costa niente.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI MARZO – Consigliato dagli Amici di Filippo

Piergiorgio Odifreddi è dotato di una mente brillante, pronta e acuta; uomo di grande versatilità, la sua capacità divulgativa sembra non avere confini: partendo dalla matematica, quella che, indubbiamente è la sua materia – a costo di usare un termine poco consono, ma per capirci – egli spazia dalla politica alla religione, dal greco ai sistemi elettorali e via discorrendo, dimostrando una notevole capacità non solo di apprendere, ma anche e soprattutto di coordinare fra loro dette conoscenze. A tutta prima, proprio volendo cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe dire – lo affermo da ascoltatore, di radio e di convegni – che il suo eloquio non è sempre all’altezza, mentre la pagina scritta rende a pieno le sue idee, le critiche, gli approfondimenti, il tutto accompagnato da una sapiente e meritevolissima dose di (auto)ironia; per non parlare dei suoi fulminanti aforismi, quale quello secondo il quale, giustificando le sue abitudini giornaliere, egli si sveglia alle dieci del mattino, poiché prima di quell’ora il mondo non esiste.
Odifreddi, però, sostanzialmente è un integralista. Rimanendo nello stretto campo dialettico (darebbe l’idea, lui, di non essere in grado né di voler usare la forza fisica neppure se costrettovi), certo fra lui e gli urlatori sputacchianti, volgari d’annunzio ai quattro formaggi, corre un abisso di conoscenza, capacità di relazionarsi, rispetto e, infine ma prima di tutto, di buona educazione, concetto che a costoro – fare nomi non serve: li conosciamo benissimo, ammorbano i mezzi di comunicazione da un quarto di secolo e più – è totalmente estraneo. Eppure, le sue parole colpiscono, non sono quiete e pacate. Il titolo del suo ultimo lavoro è una specie di parola d’ordine o, se si vuole, di un postulato, indubbiamente intriganti e ricchi di fascino e, tuttavia, questo fascino in qualche modo finisce a botte e il postulato diventa una serie di invettive.
Passo per passo, parola per parola, definizione per definizione, l’Autore mette a nudo difetti, mancanze, vere e proprie turlupinature che si nascondono – e, talvolta, neanche lo fanno: mostrandosi in tutta la loro falsità – dietro le parole e i sistemi che, in un modo o nell’altro ma sempre direttamente, si rifanno al concetto di democrazia, cioè di potere devoluto al popolo o da esso esercitato. Qualcosa, però, suona fesso, non soddisfacente: tutto quanto concerne la democrazia, secondo Odifreddi, è insostenibile proprio in quanto NON democratico; soprattutto – e qui spunta l’animo integralista dell’Autore, che come tutti gli integralisti ha bisogno di rifarsi continuamente a ciò che combatte, con tutta la sincerità e l’onestà possibili – è strettamente connesso alla religione. Di fatto, la democrazia è considerata alla stregua di una religione e, come tutte le religioni che si rispettino, vive di dogmi, affermazioni sottratte alla verifica empirica e, last  but non least, nella pratica si sostanzia in una forma ufficiale, canonica (il popolo è il soggetto che governa) e una apocrifa (il popolo è il soggetto che viene governato).
Che fare? direbbe quel tale che una rivoluzione l’ha pur fatta, tanto per accostarlo agli eminenti nomi che l’Autore passa in rassegna, dall’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, ai gelatai del paradosso di Hotelling e Black, da John Adams e il suo concetto di dittatura della maggioranza, ai membri della Camera dei Lords inglese, da Keynes a Giolitti: niente, pare essere la risposta di Odifreddi. Non c’è niente da fare, la democrazia non esiste, a meno di non voler intendere questo potere esercitato dal popolo come il paradosso borgesiano di una sterminata Camera dei Rappresentanti, costituita da tutti i cittadini residenti che esercitano il diritto al voto: ogni sua rappresentazione, ogni suo ganglio, ogni suo anfratto è minato alla radice.
E’ come se all’Autore mancasse il quadro d’insieme: l’analisi di ogni singola parte, una per una, è ragionevole e perfino condivisibile: e con questo? L’essenza della politica non è forse l’arte del possibile? Non pare vederla in questo modo, Odifreddi e nell’argomentare intorno a ciò, commette un errore semplicemente inconcepibile, considerato il suo orientamento politico. Nella frenesia di sanzionare qualsiasi metodo di scelta tramite il voto, gli scappa di scrivere che il modo migliore per la garanzia di un potere giudiziario credibile, è quello di eleggere i magistrati. Ora, a parte la singolarissima (e un tantino preoccupante) sintonia sul punto col pensiero berlusconiano – ‘i giudici sono dipendenti pubblici che hanno solo vinto un concorso e per tutta la vita fanno parte di un potere’ – proprio gli sfugge (capita anche alle migliori menti, di inciampare su una zampa di formica, come disse Pavarotti a commento di una propria stecca, a suo dire trascurabile) che l’elezione dei giudici fatalmente sottopone il potere giudiziario a quello esecutivo: la dipendenza della Magistratura dalla politica – il ministro della giustizia, tanto per non fare nomi – la riduzione da tre a due dei poteri, è uno dei cardini su cui da sempre poggia il pensiero politico reazionario e non si venga a dire che nel sistema giudiziario di Common Law la politica non entra.
E’ stato scritto a commento di questo lavoro che indurrebbe al qualunquismo: non siamo d’accordo; il qualunquismo esiste di per sé e vive di vita propria. Soprattutto, il qualunquismo è sempre politicamente orientato verso una scelta, comunque la si giudichi: al contrario, l’Autore pare suggerire di non scegliere (il che è, comunque, una scelta), di non indirizzarsi verso niente e nessuno, poiché l’imbroglio è sempre lì, sotto e dietro la parola ‘democrazia’, tanto che, per paradossale che possa sembrare, il modo più diretto e genuino di governare un popolo pare essere la dittatura di pochi ottimati. Come dargli torto, sotto certi aspetti: fin quando gli Stati Uniti non hanno deciso che la partita non gli garbava più, Saddam Hussein ha retto egregiamente il proprio potere e non si può dire che mancasse di effettività. Di nuovo, però, ci si attendeva qualcosa di diverso da una mente vivace quale quella dell’Autore.
E noi che credevamo che un matematico avesse sempre una soluzione: che la scienza, in cui Odifreddi crede (ahi, gli integralisti) in maniera totalizzante, vivesse del tentare sempre, esperimentare sempre, senza mai accontentarsi dell’insuccesso il quale, anzi, serve da sprone per proseguire, per fare muovere le carovane: evidentemente, Odifreddi ritiene idiota (non democratico?) il sistematico procedere delle carovane verso l’utopia. Che, in quanto tale, non si misura, non si pesa, non si confronta e, in definitiva, come il mondo fino alle 9 e 59 di ogni giorno, non esiste. Tanto vale, allora, svegliarsi quando il mondo comincia: ma, professor Odifreddi, a giungere una simile conclusione, eran buoni tutti.

Cesare Stradaioli

Piergiorgio Odifreddi – LA DEMOCRAZIA NON ESISTE – Rizzoli – pagg.207, €18

TOLGA IL DISTURBO

Alla vigilia delle elezioni per il rinnovo di Camera e Senato – dopo una campagna elettorale che, mi trovo in disaccordo con parecchi, non ho notato che sia stata particolarmente volgare, priva di contenuti o enfia di promesse elettorali palesemente campate in aria: se ne sono viste e sentite di peggio, in un passato neanche tanto recente – sarà bene che gli elettori di sinistra che non si asterranno o non voteranno bianca o nulla, si facciano qualche domanda, possibilmente dandosi anche qualche risposta. E questo non può non avere come punto focale la figura di Matteo Renzi, che in tutta evidenza è la chiave di queste elezioni, particolarmente con riferimento al risultato che otterrà il Partito Democratico: il quale, pare dai sondaggi, dovrebbe prendere una paga storica, come si suol dire, vale a dire qualcosa intorno al 20-22%, risultato semplicemente disastroso, anche senza tenere conto del drogatissimo 40% delle elezioni europee del 2014, dopato da una forte percentuale di elettori di centrodestra, per nulla convertiti a una politica di sinistra, bensì rimasti saldamente sulle proprie posizioni, avendo votato PD solo per calcolo utilitaristico.
Chi, fra gli elettori del PD, passati e presenti, ritenga che il suo segretario e la sua politica possano ancora definirsi di sinistra, quanto meno in un certo modo, non potrà non aspettarsi e anzi pretendere le dimissioni di Renzi, al termine di un mandato politico che definire fallimentare sarebbe usare un eufemismo. Sempre che lui, non dovesse avere la maturità umana prima che politica per farlo spontaneamente – cosa di cui sinceramente dubito molto – sia quanto meno abbastanza uomo da avere qualcuno di cui si fidi che glielo suggerisca, ponendo finalmente una parola di chiusura totale su una stagione e un’avventura politica mortificanti e avvilenti.
Diversamente, se non ci sarà nessuno in grado di forzarlo a quel passo indietro, allora sarà tutto chiaro e finalmente per molti varrà il detto milanese di quel tale che, alla buon’ora, dopo tre piatti aveva capito che era risotto. Se, malgrado la più che prevedibile sconfitta, non se ne dovesse andare, ciò sarà per il semplice fatto che avrà raggiunto lo scopo per il quale è stato messo lì, vale a dire eliminare dal Partito Democratico ogni traccia di sinistra, costituire un solido partito di centro che si potrebbe tranquillamente chiamare Democrazia Cristiana, se non fosse che ci aveva già pensato qualcun altro sul finire dello scorso millennio, che con il suo 20-22% sarà giocatore del quale nessuna coalizione che non sia di sinistra potrà fare a meno.
Come diceva quello, ci sono dei momenti in la frase ‘Noi l’avevamo detto’, non rende abbastanza giustizia.

Cesare Stradaioli

IL SENSO DELL’ANTIFASCISMO A MACERATA

E’ comprensibile, la posizione presa dal sindaco PD di Macerata: il pover’uomo temeva che una o più manifestazioni dopo la tentata strage compiuta dal fascioleghista suo concittadino, potessero creare disordini, turbative del quieto vivere e danneggiare i gerani ai davanzali. Poi, come spesso accade in Italia, non è successo quasi niente, ma questo non toglie che la sua preoccupazione fosse condivisibile. Dal punto di vista umano.
Da quello politico, per niente. Il sindaco di Macerata ha commesso due gravi errori, probabilmente ascrivibili al fatto che lui, come tanti altri, onda lunga e mefitica dello sciagurato referendum sul maggioritario del 1992, a dispetto del fatto di essere certamente una persona degna e a modo, politicamente sia un analfabeta, del tutto carente di strumenti e capacità di mediazione, pilastri essenziali del pensare, prima che agire, politico. Ma siamo alle solite: potere alle brave persone, che i politici sono tutti inaffidabili, quando non sono corrotti; la liquidazione delle strutture di formazione in seno ai cosiddetti partiti tradizionali, ha fatto il resto e così a reggere le sorti e l’amministrazione di innumerevoli comuni, abbiamo cittadini di specchiata onestà – almeno, fino a prova contraria – e di totale carenza politica. Tanto varrebbe, con tutto il dovuto rispetto e per la competenza che serve, eleggere a dirigere un Comune un bravo amministratore di condominio.
Il primo errore è dovuto quasi esclusivamente alla mancanza di coraggio, altra componente fondamentale di un politico che si rispetti, che abbia un minimo sindacale di cultura e che sia dotato del carattere necessario per guidare una municipalità. L’esercizio del potere ha molto a che vedere col carattere, ne è strettamente connesso e il carattere è come il coraggio manzoniano: uno non se lo può dare, se gli manca. Egli avrebbe dovuto essere il primo a scendere in piazza: non tanto e non solo per la connotazione del gesto criminale al quale era necessario opporsi, ma prima di tutto proprio per quello. E, in ogni caso, a meno che il pluriferitore non fosse risultato essere affetto da gravi patologie mentali, quale che fosse stata la ragione del suo gesto, a prescindere da tutto il primo cittadino aveva il dovere – vorrei dire: il diritto – di guidare una manifestazione. Non di protesta: non si protesta contro la criminalità e non si protesta contro i fascisti; ci si oppone, in tutti i modi, con qualsiasi mezzo. Qualsiasi.
Il secondo errore è stato commesso quando, terminate le manifestazioni e puntualmente raggiunto dalla stampa, il sindaco di Macerata ha avuto da ridire sul fatto che la sua città fosse stata usata a meri fini strumentali di propaganda politica, a maggior ragione in prossimità delle elezioni politiche. Questo è un errore, se possibile, ancora più grave, in quanto denuncia uno spaventoso deficit di cultura istituzionale. I fatti accaduti a Macerata non coinvolgono che marginalmente la città: solo per il fatto che ivi si sono svolti, non significa affatto che si tratti di affare proprio dei maceratesi e basta, ciò che giustificherebbe lo sdegno per l’utilizzo che sarebbe stato fatto del nome e del luogo. Purtroppo, senza necessità di tante interpretazioni, è proprio così che l’ha messa il primo cittadino: erano affari nostri e voi ve ne siete impadroniti, infischiandovene bellamente di noi e del nome della nostra città.
Ignoro quanto manchi al termine del mandato, per il sindaco di Macerata: mi auguro – non ci credo neanche per un momento, ma non si può mai dire – che sia sufficiente affinché il brav’uomo, che pure, accidenti a lui, è stato eletto nelle liste del Partito Democratico (e anche di questo, come di tanti altri svarioni, qualcuno prima o poi sarà chiamato a rispondere e io personalmente me la prendo con TUTTI coloro che hanno votato PD) provveda a studiare un po’ la storia del nostro Paese, cominciando dai fatti attinenti alla Resistenza e alla Liberazione dal nazifascismo. Scoprirebbe qualcosa che non dovrebbe neppure essere necessario ricordare e cioè che l’antifascismo è fondamenta della nostra Repubblica, che il fascismo mai davvero sopito è una questione prima di tutto culturale e che è proprio sul piano culturale che va combattuto. La scuola, prima di tutto: ma anche il gesto di ogni singolo rappresentante istituzionale, ivi compresi i sindaci. L’antifascismo non è affare riservato a Macerata e ai maceratesi, così come non è di esclusiva competenza di nessuno in particolare, essendolo di tutti in linea generale. Imparerà che mobilitarsi contro il razzismo e il fascismo è SEMPRE strumentale, perché non si va in piazza a cazzeggiare, bensì a rappresentare una continuazione della Resistenza e della lotta contro le canaglie, e si tratta di una finalità precisa e, come detto, prettamente strumentale a ciò che vuole ottenere.
E già che c’è, dia anche un’occhiata al primo manuale di diritto penale che gli capitasse sotto mano: scoprirebbe (o se lo faccia spiegare da qualcuno) come il diritto penale, e quindi i reati di cui tratta, sono diritto pubblico, non privato e che le sentenze della Magistratura, come sarà quella che condannerà il criminale razzista che ha sparato a Macerata, sono emesse in nome del popolo italiano e non dei bravi cittadini di questa o quella contrada.

Cesare Stradaioli

MA DI CHE PARLANO?

Ma di che parlano, Ezio Mauro e Michele Serra? In quale pianeta perso nello spazio profondo o in quale eremo dimenticato da dio hanno vissuto fino a sabato scorso? Ma che dicono? Sdegno, per la vicenda di Macerata? Ma con quale coscienza, con quale coraggio, con quale – e bisogna dirlo! – faccia di culo? Cos’è questo rumore di vesti stracciate?
Non sanno che da decenni le curve dei più importanti stadi calcistici sono vere e proprie scuole quadri per picchiatori e neofascisti? Hanno avuto qualche approssimativa notizia in merito all’humus socio-politico in cui è cresciuta ed è prosperata ‘Mafia Capitale’? Risultava loro, per caso, che fosse innervato di lontananze politiche? Che non avesse precise coordinate di estrema destra? Pensano forse che Carminati e gli altri mascalzoni si ispirassero al fascismo così, tanto per farsi quattro risate? Ma come si permettono, tutte queste anime belle della nostra socialdemocrazia alla vaccinara, di esprimere preoccupazione e lanciare simili allarmi tuttifrutti, che fra due settimane finiranno, come di consueto e come meritano, nel vuoto?
Ma da quanti anni in questo sventurato Paese sbraita a bocca larga a tutta audience, insieme a un branco di esagitati, la nipote del criminale razziale e di guerra di Piazza Venezia, che la quasi totalità della stampa italiana, oltre 70 anni dopo, continua ad appellare col titolo onorifico di ‘Duce’? E’ necessario ricordare ancora a costoro come in Germania sarebbe semplicemente impensabile che sedesse al Bundestag la nipote di Hitler a perorare la causa del nonnino? Che neppure Marine le Pen, oltre a tutto sotto la presidenza Sarkozy – non esattamente uno spirito democratico – ha mai solo osato nominare il generle Petain e l’infame Repubblica di Vichy – a cui, senza discussioni, vanno ascritte responsabilità politiche, storiche e umane grosso modo valutabili in un centesimo percentuale, rispetto a quelle del fascismo?
Da quanti anni, da quanti decenni sentiamo e leggiamo di frasi, discorsi, manifestazioni, pubbliche espressioni di pubbliche autorità, semplici parole di apologia del ventennio? Del nazismo? Dell’Olocausto? Dei forni? E tutto, sistematicamente, sotto silenzio, sottovalutato, irridendo coloro che fanno osservazioni in proposito?
Quanto ancora ci vorrà perché perfino le teste più fini della stampa italiana si decidano finalmente a scendere dal pero e farsi una ragione del fatto che l’italiano medio non è fascista ma, soprattutto, neppure antifascista? Lo sanno, se lo ricordano, che a scuola (manco da decenni, ma amici con figli giovani mi dicono che le cose non sono poi così cambiate) lo studio della Storia, a parte qualche lodevole iniziativa del singolo insegnante, si fermava alla Prima Guerra Mondiale, che ancora oggi, dopo cento anni, viene glorificata invece di essere denominata per quello che è stata, vale a dire un massacro di proletari in nome del disfacimento di un impero? Nessuno, nato e cresciuto nel Veneto come il sottoscritto, ha mai detto loro che il 25 aprile è stata, da sempre, una data ostinatamente dedicata a festeggiare San Marco protettore di Venezia e non quell’altra cosa? Nessuno è mai andato a raccontare loro che nella città dove ho passato finora la maggior parte della mia vita, Padova, la città di Concetto Marchesi, Eugenio Curiel, Enrico Opocher e Sabino Acquaviva (per tacere d’altri), anche e soprattutto con giunte e sindaco di centrosinistra, a partire dall’inizio degli anni 2000, durante le celebrazioni della Resistenza la banda comunale non suonava ‘Bella Ciao’, bensì ‘Il Piave mormorava’, e tutto per non irritare quella che un tempo era chiamata ‘maggioranza silenziosa’? Perché l’antifascismo irrita? Si sono resi conto, che la vigliaccheria morale del PCI pienamente responsabile dell’aver taciuto sulle foibe, ha fatto sì che da trent’anni sia rimasto nel dimenticatoio nazionale l’unico campo di sterminio (solo in parte era di deportazione) italiano, la Risiera di San Sabba? E si sono chiesti il perché gli italiani siano stati così diseducati e, comunque, così facilmente si siano adattati alla riscrittura revisionista del fascismo?
Risulta loro che criminalità comune e organizzata, intere fasce di cittadinanza che invoca la pena di morte o condanne esemplari, che quelli che rivoltano la loro rabbia contro i migranti, tutti coloro che – ormai neanche sottotraccia, bensì a voce bella spiegata – invocano l’arrivo, o il ritorno o comunque la guida di un uomo forte, il classico uomo solo al comando, siano in qualche maniera ispirati ai principi di partecipazione, uguaglianza, fraternità e libertà o, più nello specifico, a qualche forma di pensiero innervata dal marxismo o al cristianesimo solidale? O non pare loro, per caso, che tutti costoro si rifacciano, beceri e ignoranti quanto si vuole, al fascismo?
Cosa aspetta la stampa a prendere le distanze? A farsi letteralmente parte civile: non in un’aula di giustizia, bensì nel loro campo, nel loro specifico, che deve essere quello di andare oltre la semplice notizia (i fatti non sono mai separati dalle opinioni, come ipocritamente titolava qualche decennio fa ‘Panorama’)? Cosa aspetta a fare domande? A pretendere risposte, altrimenti caro ministro, caro deputato, caro senatore, caro consigliere regionale, provinciale o comunale o quell’accidenti che sei, caro amministratore di aziende sanitarie, caro provveditore agli studi, caro Questore, caro Prefetto, tanti saluti e buone feste e la prossima volta che vorrai comparire su questa testata dovrai, prima di tutto, essere munito di risposte a quelle domande che ti abbiamo fatto e che stanno ancora lì ad aspettare?
Non sono minimamente interessato all’individuo che ha rischiato di compiere una strage a Macerata; così come non lo sono del singolo bestione rasato che se ne va in giro con bandiere e slogan in merito ai quali non sa una benamata cippa, non avendo mai aperto un libro in vita sua. Questi sono effetti, non le cause e degli effetti devono prendersi cura le istituzioni che stanno a valle, tanto quanto la ditta di spurgo pozzi neri si deve occupare dei reflui fognari, non essendo compito suo quello di governarne le origini. Perché questo era quaranta anni fa e questo è ancora il fenomeno del neofascismo e del neonazismo: questione di nettezza urbana. E allora c’è che si occupa dello smaltimento delle differenziate ma PRIMA ci deve essere chi si occupa di educare, istruire, indirizzare il gesto di liberarsi del rifiuto. Del disgraziato di Macerata si occuperà la giustizia; nemmeno le deliranti dichiarazioni di Salvini mi indignano: se un cretino va in televisione a dire che il sole nasce a ovest o che le donne sono tutte puttane o che i negri sono scimmie, non è lui il problema, ma il fatto che abbia diritto di parola e che nessuno lo zittisca a sberle e questo vale anche per il fatto che quasi nessuno abbia risposto al leader della Lega come meritava, soprattutto da sinistra.
I rappresentanti politici, più o meno da quando la sciagurata idea veltroniana del ‘partito liquido’ (Bauman si rivolterebbe nella tomba: brutta cosa leggere poco e male il pensiero altrui, per poi servirsene alla bisogna e ad minchiam) ha soppiantato le scuole di partito – intorno alle quali, ha ragione Massimo Cacciari, c’era e c’è ancora tanta mitologia, ma dalle quali comunque uscivano più teste raziocinanti di quante se ne vedano adesso in giro – non rappresentano più il meglio della cittadinanza, e però, per quanto esecrabili siano quasi tutti, non di meno non sono piombati fra noi da qualche pianeta proibito, allo stesso modo in cui il feritore di Macerata non è un alieno, essendo tutti parte integrante e innervata di questa società marcia, incattivita e puttana; mi rimane il sedimento culturale di rivolgermi alla stampa, piuttosto che a questa politica, anche e soprattutto quando mi disgusta vedere come sono conciati giornali e telegiornali, ma d’altra parte ritengo che se non loro, chi?
Chi può, se non una stampa abbastanza libera, correggere, stoppare, contraddire, porsi di traverso? Scrivere in lingua italiana, evitare di scendere nei particolari di un ammazzamento con sevizie (perché il pubblico, NOI, NON abbiamo il diritto di conoscere i dettagli da tavolo autoptico di un omicidio), chiamare cose e persone per quello che sono, fare la fatica di premettere all’aggettivo ‘nigeriano’ – per dire – la nobile e obbligatoria parola ‘cittadino’, che non  costa niente, solo un po’ di attenzione, piantarla una buona volta di ripetere a pappagallo che gli italiani pagano le tasse più alte del mondo (le pagano quelli che le pagano e non per colpa di chi governa: se tutti le pagassero, l’aliquota sarebbe più bassa!), rifiutarsi di scendere oltre un certo livello di compromesso; chi se non i giornalisti, i direttori di testata? Chi, se non la stampa e gli intellettuali, devono rimarcare, anche solo a livello di considerazione di pura sociologia, come quanto più la sinistra si allontana dalle classi cui deve la propria connotazione, dai più deboli, dai diseguali, dai messi nell’angolo, dagli ignoranti e analfabeti di ritorno, tanto più quel maledetto serpente di cui parlava Ingmar Bergman continuerà a covare le sue malefiche uova? Chi se non la stampa e gli intellettuali potrebbero e soprattutto dovrebbero ricordare le terribili per quanto ovvie parole di Primo Levi, secondo il quale se una cosa è già accaduta, può accadere nuovamente?
La smettessero, per contro, di stupirsi nel vedere e rivedere e vedere ancora e riascoltare atti, gesti, persone, frasi oscene come se fossero novità oppure circostanze del tutto estranee al mondo in cui viviamo. Non servono nuove leggi: bastano e avanzano quelle che ci sono e sarebbe sufficiente applicarle. E la piantassero di cianciare di ‘voto utile'; non possiamo, non dobbiamo perseguire false comunioni di pensiero, come le definiva Calamandrei, spaventati dall’ondata neofascista in Europa: non dobbiamo farci intimidire – più che altro non possiamo e non ne abbiamo il diritto. Non dobbiamo essere subalterni, nel nostro esercizio di critica e di voto, a quattro mestieranti che governano Paesi in cui davvero il patriottismo è tornato a essere quello che diceva Oscar Wilde, vale a dire l’ultima risorsa delle canaglie. Quello che possiamo e dobbiamo fare è ripartire dalla scuola e dalla educazione civica e in maniera intransigente, su tutto: o così, o continueremo a sentire le prediche ai convertiti delle varie madri superiore e ci rivedremo – vi rivedrete – al giorno in cui, succederà prima o poi, anche nella terra dei cachi un ragazzino di 16 anni entrerà a scuola con un’arma automatica.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

IL DIRITTO DI VOTO MISURATO IN UTILITA’

Esercito il mio diritto di voto dal 1975. Si trattava di elezioni a carattere amministrativo – quelle parlamentari si tennero l’anno dopo – ma già allora la portata prettamente politica della consultazione era evidente: si tastava, perfino, nell’aria affannata di quei tempi. Per inciso, quello fu un risultato percentuale che, se la memoria non mi inganna, mai la sinistra eguagliò e dal quale, anzi, sorprendentemente retrocesse proprio a partire dal 1976, l’anno che avrebbe dovuto costituire il momento dello storico sorpasso PCI-DC. Non fu così per la semplice ragione che l’Italia, a dirla un po’ a pane e salame, non è un Paese di sinistra e neppure antifascista (pur non essendo fascista). Non fino ai prossimi cinquant’anni, direi e piantiamola lì, che lo sappiamo tutti benissimo.
Come che sia, la vulgata del cosiddetto ‘voto utile’, era già nota anche a me come a tutti i miei coetanei che si interessavano di politica (bastava leggere qualche quotidiano o ascoltare i telegiornali RAI) e retrodatava nel mio ricordo per lo meno di una decina di anni, quindi verosimilmente anche più indietro nel tempo. Fu il 1976 l’anno in cui Indro Montanelli pronunciò la famosa frase riferita al turarsi il naso e votare per la Democrazia Cristiana e quello fu il momento in cui il ‘voto utile’ divenne parola d’ordine, sistematico refrain della stampa, comodo ritornello dei rappresentanti politici buoni per ogni stagione; in realtà, come detto, circolava nella cittadinanza già da molto prima e l’uscita del super italiota (a dispetto del suo ergersi a fustigatore dei difetti nostrani) Montanelli non fu altro che l’ufficializzazione ed elevazione a sistema, riconosciuto senza più pudori o ammuine di sorta, di una delle più profonde piaghe culturali italiane – e risalentissima: ne scriveva 150 anni prima, attribuendole carattere radicato nei secoli, Giacomo Leopardi: quella che porta ad argomentare, agire e infine votare sempre e tendenzialmente ‘contro’ qualcuno o qualcosa, mai ‘a favore’ di, fosse anche un ideale consapevole e seriamente motivato.
Il nordest in cui sono cresciuto era – in buona parte lo è tutt’ora, malgrado i capannoni e i centri commerciali – intriso di clericalismo e all’epoca fortemente anticomunista; il Vaticano in casa era situazione condivisa da ogni regione, ma la stretta vicinanza col Friuli Venezia Giulia e la Jugoslavia, sia pure non più cortina di ferro da anni, era peculiare di quelle zone: caserme, polveriere, i ricordi delle occupazioni incrociate, della Risiera di San Sabba e delle foibe, i profughi dalmati e giuliani, era un humus sociale e politico particolare, che rendeva agevole, per chiunque la temesse, giocarsi la carta dell’opposizione alla asserita ondata comunista che seguiva il ’68. Di qui, fra le altre, l’esortazione a non disperdere i voti, curiosamente simile (ma neanche tanto curiosamente) alla sua stretta cugina religiosa, l’esortazione a non disperdere il seme, fecondando una donna a ogni congiunzione carnale. Erano quelli che il compianto settimanale ‘Cuore’ avrebbe denominato, collocandoli nella celebre, relativa graduatoria, ‘Valori Forti': fedeltà alla parrocchia e alla consorte. Di conseguenza, al partito politico che più compiutamente li incarnava.
Il timore della dispersione dei voti, poi diventata per l’appunto ‘voto utile’, si sostanziava principalmente nel considerare sì, legittimo votare per l’MSI – sempre dove stavo io, le radici ci perseguitano per tutta la vita, la vacanza da scuola del 25 aprile rimaneva celebrazione ostinatamente rivolta a San Marco e non alla Liberazione dal nazifascismo – ma politicamente inutile e dannoso in quanto sottraeva forza e percentuale di voti alla Democrazia Cristiana, unico vero baluardo contro la Sinistra. Più defilati, erano considerati altrettanto inutili (e, quindi, destinati alla dispersione) i voti al PSDI, al PLI e al PRI: i cui rappresentanti politici, a ben guardare, si schieravano sul fronte filoamericano e anticomunista più spesso di qualche loro collega democristiano, ma la visceralità dell’anticomunismo portava alla luce quasi esclusivamente ragionamenti di teste a temperatura elevata, poco inclini al ragionamento ponderato e razionale e, dunque, tale circostanza sfuggiva all’analisi e all’evidena pratica.
Insomma, il concetto del ‘voto utile’ fa ancora parte, cinquanta e più anni dopo, del messaggio di quasi tutte le forze politiche e ancora rappresenta l’invito alla vigliaccheria, al conformismo – altro dolente stimma italiano intorno al quale Pasolini, sulle tracce di Leopardi, spese grande parte della sua opera intellettuale: decisamente inascoltato, purtroppo – al proprio tornaconto personale: in poche parole, al sempiterno agire per danneggiare l’antagonista, anteponendolo al portare avanti, a quasiasi costo, le PROPRIE idee, istanze, speranze, la propria personale immaginazione, nel volere e provare a trovare un futuro diverso.
Provo a dire la mia, di immaginazione. Vorrei un partito di sinistra che partecipasse al voto e che ogni qual volta gli toccasse stare all’opposizione, invece di riservare le munizioni per la successiva campagna elettorale, uno dei momenti più vergognosi, ridicoli e sputtanati dell’attività politica, presentasse, SUBITO, il giorno dopo la sconfitta elettorale, un proprio alternativo programma di governo per la legislatura successiva, possibilmente facendo dei nomi, sia come candidati ai singoli dicasteri, sia come personalità della cultura, di arte e scienza che ne innervassero l’ideale politico; e ogni giorno, ogni qual volta il governo legittimamente seguente alle elezioni, dovesse presentare un decreto legge, ogni qual volta il partito o la coalizione vincente facesse lo stesso in Parlamento con un progetto di legge, volta per volta ne facesse le pulci e ne elaborasse uno opposto, articolato e motivato – oppure votasse le proposte avversarie, se le ritenesse degne di ciò.
La mia immaginazione mi spinge a vedere un partito di sinistra che facesse politica di opposizione tutti i giorni della settimana e due volte alla domenica, che si presentasse alle elezioni sempre pensando al futuro, di qui a vent’anni e non al prossimo lunedì mattina: futuro di governo se vanno bene, di opposizione seria e solida, se vanno male e considerando che cinque anni passano in fretta e che però se si lascia la fretta da parte si riesce a fare molte più cose e, in ogni caso, quei cinque anni passano, la vita non finisce la sera dei risultati negativi e l’indomani il sole nascerà ugualmente, anche se le percentuali elettorali avviliscono.
Immagino una forza politica che si discosti dalla vulgata del ‘voto utile’ perché il solo voto utile è quello secondo coscienza: la propria, non quella altrui.

Cesare Stradaioli

CONCORRENZA SLEALE, A TACER D’ALTRO

Una parata di attrici vestite di nero che si fanno portavoce della ribellione alle molestie sessuali nel mondo del cinema, culminato con il primo piano, sprezzante, di una nota presentatrice televisiva afroamericana, che ammonisce puntando il dito, dicendo che il tempo è scaduto.
Raramente mi è capitato di assistere a uno spettacolo così offensivo per l’intelligenza e la morale, intriso di ipocrisia e puritanesimo d’accatto.
Per solito, quando qualcuno comincia un discorso con l’incipit quali ‘io non sono razzista…‘, oppure ‘io sono contro la pena di morte…‘, capita piuttosto di frequente che il ‘però’ che arriva a ruota porti a conclusioni del tutto diverse, quando non addirittura opposte, rivelando così l’intima – e magari non del tutto consapevole – convinzione di chi sta esprimendo determinati concetti, ragion per cui è necessario pesare le parole con molta attenzione. Scriverò, pertanto, che io non ho mai né usato violenza sessuale, né molestato alcuna donna in vita mia e naturalmente trovo esecrabile il farlo, senza metterci alcun ‘però’, ad annacquare il tutto.
Però.
La legittima e nobile aspirazione di diventare attrici o attori è e rimane quello che è: per l’appunto, una aspirazione. Aspirare a un posto di lavoro, anche precario, anche a termine, anche sottopagato, per tirare avanti – specie se c’è una famiglia che ci fa conto – NON è una nobile aspirazione: è un sacrosanto diritto. Luis Bunuel soleva ripetere come ci fosse un limite anche alla prostituzione: a quella intelectuale, resa celebre da Josè Mourinho, certamente sì; non la vedo nello stesso modo dei due Maestri, quando si parla di robetta materiale, quale portare a casa quattro soldi, cercare di arrivare a fine mese, magari provare a garantire ai propri figli un futuro migliore di quello dei loro genitori. Considero, pertanto, degne del massimo rispetto umano quelle persone – donne, per la stragrande maggioranza dei casi – che fanno mercimonio del proprio corpo, allo scopo di garantirsi una vita degna di essere vissuta; peraltro, fra una donna che se ne sta per strada ad avvelenarsi lo spirito e il corpo e una che lavora in una tintoria o in un reparto verniciatura non vedo alcuna differenza: sempre vita di merda è, ma quando c’è la dignità, qualsiasi vita merita rispetto, specie se è di merda. Almeno quella che va in strada e quella che si alza alle 6 per andare a respirare veleni, ci mettono la faccia.
Ciò che, a mio giudizio, non merita rispetto, è la prostituzione per avere una parte in un film o il proprio disco prodotto o una comparsata nell’ultimo programma idiotizzante della televisione. Perché QUELLE specifice esplicazioni umane NON sono necessarie: si è costretti a lavorare per vivere, mentre NON lo si è altrettanto per diventare attrici o cantanti o quello che volete e per vivere si può, in assoluta dignità, accettare le peggiori umiliazioni, avendo il sacrosantissimo diritto di lamentarsene e di denunciare chi obbliga a dette umiliazioni, anche molto tempo dopo che il rapporto è terminato. Diritto che NON hanno coloro che accettano ricatti per lavori che non siano di primaria necessità, che non servano per campare. Non c’è, non ci può essere, non ci deve essere comprensione per la prostituzione a scopi artistici o di spettacolo. Non sei obbligato a fare l’attore, come non sei obbligato a fare l’imprenditore: non c’è obbligo che giustifichi la disonestà. Perché è di disonestà che si tratta.
Il produttore cinematografico maiale ti chiede di metterti in ginocchio – ‘e non per pregare’, disse una volta Marylin Monroe? Fallo pure, è una tua decisione e se sei maggiorenne e vaccinata è un problema da risolvere – se il problema esiste – con la tua coscienza; basta che poi tu non ti metta a fare la vergine vestale, denunciando l’abuso subito. Perché non solo tu hai venduto la tua dignità per un lavoro che non è obbligatorio esercitare (rifiuta e trovati un lavoro da cameriera/e, sarà una scelta, quella sì! nobile), ma probabilmente sei passata/o davanti a qualcuna/o più brava/o di te, semplicemente perché magari vanti maggiore avvenenza e disponibilità ma non maggior bravuta e nel fare questo, signora mia, signore mio, nel libero mercato dell’arte – dove, vivaddìo, dovrebbe davvero regnare una concreta meritocrazia: l’arte non è democratica – hai posto in essere quella cosa che si chiama concorrenza sleale.
Tu mettiti in ginocchio, o in qualsiasi altra posizione materiale e morale, per ottenere qualcosa a discapito di altri che non lo farebbero, e con questo ottieni quello che gli alti meriterebbero più di te, e sarai nella medesima posizione di chi paga una tangente per avere l’assegnazione dell’appalto, a discapito di professionisti più bravi e onesti.
Per cui avrei di gran lunga preferito che quelle signore vestite di nero – che certamente non hanno MAI dovuto subire, né MAI hanno accondisceso ad alcun ricatto sessuale da parte di registi o produttori… – insieme alla più che giusta denuncia di comportamenti offensivi e di rilievo penale (magari, anche per i più famosi e infangati, sarebbe il caso di aspettare un giudizio di tribunale, possibilmente definitivo: il garantismo non è un taxi che qualche volta si prende e qualche volta si può anche andare a piedi, a seconda del tempo che fa o della fretta che abbiamo), avessero anche esortato le giovani e i giovani aspiranti alla carriera cinematografica, di dire di no e di denunciare coloro i quali approfittano del proprio potere per esercitare violenza sessuale, materiale e morale, evitando di paragonare l’umiliazione subita dalla futura nuova Katherine Hepburn a quella di chi è costretta a battere il marciapiede, di gente che aspetta l’arrivo del caporale al mattino o teme la segnalazione del caposquadra sui tempi per andare in cesso e che per fare questo prendono treni schifosi a orari altrettanto schifosi. L’avrei trovato meno ipocrita e più onesto, oltre che utile.
Prima di dire a qualcuno che non è più il tempo di pretendere una tangente – sotto qualsiasi forma – sarebbe il caso di dire a qualcun altro di rifiutarsi di darla. Magari denunciando chi la chiede. Ed evitare disgustose parate autoreferenziali e autopromozionali, destinate a finire su giornali che il giorno dopo l’uscita servono a incartare il pesce o come fondale per la gabbia del canarino.

Cesare Stradaioli

DUE SPOT

Il primo annuncio pubblicitario si sostanzia in una fotografia.
Una nota casa che distribuisce gioielleria, reclamizza gli oggetti di lusso che pone in vendita e paga una cifra, direi considerevole, per piazzare il messaggio pubblicitario sui principali quotidiani e settimanali. La foto.
Una donna abbraccia un uomo. Il suo uomo. Il quale, lo si capisce subito, le ha appena regalato un prezioso – un anello, un braccialetto oppure un paio di orecchini: non è importante. Lei sorride, con profonda convinzione. Ma non sta guardando lui, quello che le ha fatto lo splendido regalo natalizio: sta guardando NOI, che poniamo lo sguardo su quella pagina pubblicitaria.
Non è, il suo, un sorriso di gioia; lo sguardo non è uno sguardo di felicità. Il sorriso e lo sguardo sono di trionfo e di esibizione. Avete visto, sembra dire, cosa mi ha regalato? Perché lo dice? E perché lo dice a NOI? Che c’entriamo, noi? Non sarebbe più opportuno e garbato e amorevole, che l’immagine pubblicitaria la mostrasse sorridente e innamorata, rivolta a lui? Dal punto di vista della finalità, cioè incrementare le vendite, cosa ci sarebbe di più poetico ed efficace di una donna che guardi negli occhi l’uomo che le ha regalato un sicuro pegno di amore eterno?
Temo che garbo e amorevolezza, come del resto la poesia, non c’entrino nulla, anzi ne sono certo. Sono, mio malgrado, come tutti noi, volente o nolente fruitore di annunci pubblicitari. L’unico modo per rifuggirne, oggi come oggi, sarebbe semplicemente evitare di leggere qualsiasi tipo di carta stampata che non siano libr o di ascoltare qualunque canale radio e televisivo, perfino quelli culturali. Oltre che astenersi dall’andare al cinema e cercare di non provocare un incidente stradale ovvero di sembrare dei sonnambuli, per non farsi influenzare dai cartelloni pubblicitari che infestano le strade delle nostre città.
Insisto: garbo, amorevolezza e poesia non c’entrano. Non ci sono perché non ci devono essere, non servono. E’, per contro, alquanto opportuno, nella mente di chi ha concepito il messaggio, presentarlo in quel modo. Viviamo in un tempo in cui la condivisione di qualsiasi cosa, da quelle più meritevoli alla più bassa schifezza, suona come un imperativo categorico e, specularmente, l’intimità, la riservatezza, vengono visti e vissuti come il simbolo dell’isolamento. E’ un mondo al contrario, un cono rovesciato. Il messaggio pubblicitario di quella foto non può essere – appunto, non è opportuno che lo sia – di amore e gratitudine verso l’amato che ha fatto quello splendido regalo. Il messaggio è rivolto a NOI che stiamo guardando: le braccia cingono l’uomo, ma sono totalmente ininfluenti, contano, per l’appunto, sguardo e sorriso. E il messaggio è: Guardate che roba.

Il secondo messaggio, più semplice e in video, riguarda il cibo per gatti. Un bellissimo felino viene ripreso mentre, forte, aggressivo, in piena caccia – e, dunque, per forza maschio – se ne va alla ricerca di una preda. Che, scopriremo essere una nuova, inutile e idiota delizia per gatti, servita su piatti di porcellana dei quali il povero animale non sa che farsene.
Il messaggio è chiaro, la voce è femminile e si rivolge esplicitaente alle femmine, non ai maschi, della specie umana, e certamente non a quelle della specie felina: soddisfa il suo desiderio, conquistalo. Ovvero: sii ai suoi ordini, compiacilo, assecondalo, perché lui ne ha il diritto e tu sei lì esattamente per quello, perché quello è il tuo ruolo. I vostri ruoli.
Poi ci stupiamo se ci sono uomini che ammazzano la moglie o fidanzata perché vuole lasciarli. Poi ci stupiamo quando sentiamo ragazze adolescenti che autocomprimono la propria libertà in omaggio al fidanzatino di turno, sottomettendosi a un bulletto al quale la vita ha insegnato poche cose ma chiarissime: mi prendo quello che voglio, donne comprese e non esiste che mi si dica di no e già tollero abbastanza che mi tocchi anche chiedere.

Qui e ora, nel nostro mondo, la pubblicità è infame. E, dal mio personale e trascurabile punto di vista, mi riesce sempre difficile capire come possa una donna accettare quelle immagini e quei messaggi i quali, non solo costituiscono veri e propri dettami di comportamento ma, forse è anche peggio, sono pensati e realizzati nell’idea che non ci sia bisogno di convincere: che le destinatarie di quei messaggi siano GIA’ pronte e recettive, poiché l’indottrinamento ha da tempo compiuto il suo percorso e, pertanto, quei messaggi non sono (e non possono esserlo) sottoponibili a critica o elaborazione. Sono pronti per essere seguiti, da persone già pronte a farlo.

Qualcuno di più autorevole di chi scrive, più noto e meglio attrezzato da punto di vista della pratica comunicativa, dovrà pure un giorno alzarsi in piedi e dare il via a un’opera di demolizione culturale del messaggio pubblicitario per come è diventato da un ventennio e oltre, coinvolgendo rappresentanti della politica e della cultura a fare quello, invece di accanirsi su ridicole femminilizzazioni di facciata di parole come sindaca o ministra o sciocchezze del genere, che nel loro essere purissima fuffa non cambiano assolutamente di una virgola il mondo intorno e, nello specifico, la condizione femminile, essendo quello che sono e cioè un’armata brancaleone che neanche fa ridere, intenta a provare a opporre resistenza alla carica portata da una divisione corazzata chiamata pubblicità, che alle lance oppone devastanti bordate ad alzo zero.
Auguri e svegliatevi quanto prima, che c’è ben altro e di più serio da fare.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

1 Comment

UNO PER TUTTI

ARTICOLO 3, COMMA 2:

E’ COMPITO DELLA REPUBBLICA RIMUOVERE GLI OSTACOLI DI ORDINE ECONOMICO E SOCIALE CHE, LIMITANDO DI FATTO LA LIBERTA’ E L’UGUAGLIANZA DEI CITTADINI, IMPEDISCONO IL PIENO SVILUPPO DELLA PERSONA UMANA E L’EFFETTIVA PARTECIPAZIONE DI TUTTI I LAVORATORI ALL’ORGANIZZAZIONE POLITICA, ECONOMICA E SOCIALE DEL PAESE.

Buone Feste e guidate con prudenza.
Cesare Stradaioli (il neretto sottolineato è mio)