IL SENSO DELLA STORIA PER L’UMANA PIETA’

E’ Natale e siamo tutti più buoni. Per il vero, considero me stesso e moltissimi di coloro che la pensano come me, come persone di grande bontà. Non riesco, infatti, a trovare parole maggiormente dotate di umana bontà come libertà, uguaglianza e fraternità: perseguire la loro piena esplicazione – tutte insieme, però: la libertà da sola è una bestia feroce senza gabbie – penso sia quanto di più buono, caritatevole, umano e solidale si possa immaginare. Mi risulta essere un dato di fatto che a molti di noi sia stata – e per qualcuno lo sia ancora – contestata una certa durezza d’animo e di comportamenti, poco consoni con il concetto di pietas; ora, senza scomodare Brecht e le sue accorate esortazioni alla comprensione per il fatto di non aver potuto essere gentili (tutt’altre difficoltà, avevano affrontato i suoi coetanei), non è che ci sia stato dato tanto spazio per essere di modi meno ruvidi. Però, insomma, la ricorrenza festiva travolge tutto e tutti, compreso un gentiluomo come Sergio Mattarella, il quale ha ritenuto opportuno, in base alla carica che ricopre, di firmare il trasferimento in Italia delle salme di Vittorio Emanuele di Savoia, della consorte e – a dire il vero non ho capito bene quanti siano – di altri consanguinei.
Concordo del tutto con coloro i quali obiettano, a fronte dei clamori sollevati dall’evento, che sia in ragione del tempo trascorso, sia considerando la situazione politica, sociale ed economica del nostro Paese, trattarsi di chiacchiere di pochissimo pregio e che le menti impegnate nella discussione farebbero bene a occuparsi di altro che i problemi non mancano. Tra parentesi, purtroppo siamo stati abituati a pensare non sempre il meglio delle cose, si potrebbe anche avere qualcosa da dire sul momento in cui questo avviene, cioè in piena campagna elettorale. Vi sono fatti che alzano il livello di scontro fra i vari partiti e movimenti in lizza per le elezioni e ve ne sono che hanno lo specifico compito di distrarre l’opinione pubblica. La traslazione delle salme dei signori appartenenti al fu casato reale della Savoia, pare rivestire a pieno questo ruolo. Tuttavia, saremo anche buoni ma non ancora del tutto stupidi e quindi non si può fare a meno di dire un paio di cose intorno a quanto è accaduto in punto di riesumazioni e traslazioni.

Il Re è morto, abbasso il Re: cioè a dire, che ce ne dovrebbe importare di dove venga sepolto quello che rimane di Vittorio Emanuele e della sua famiglia, ramo femminile o maschile che sia. In sé, assolutamente nulla; se c’è un’amministrazione comunale che ritenga – come pare sia avvenuto – di poter ospitare i resti dei Savoia presso il locale cimitero, faccia pure. Come dicono a Napoli, due palate di terra in faccia non si negano a nessuno. Che sia finita lì, però: i simboli sono simboli e molto dipende dall’uso che se ne fa; che qualcuno di costoro debba anche solo retropensare di pensare di chiedere/pretendere la sepoltura all’interno del Pantheon è cosa da neanche prendere in considerazione e piantiamola lì che è meglio. Entro quelle mura si trovano personaggi che hanno dato lustro all’Italia e NESSUNO dei Savoia pare possa fregiarsi di questo merito. Il punto è che la memoria è un alberello che necessita di continue cure, non potendo sopravvivere con mezzi propri ed essendo continuamente esposto ai rigori del revisionismo, a paragone del quale il Generale Inverno è una passeggiata di salute. 
A tale proposito, che la memoria venga preservata e coltivata presso i discendenti di Vittorio Emanuele e i quattro patetici rimasugli di storia che ancora li sostengono è questione che se fosse ancora viva e lottasse insieme a noi la celeberrima rubrica di ‘Cuore’, denominata “E chi se ne frega“, guadagnerebbe per distacco la prima posizione in classifica. Ciò che davvero conta è la memoria del popolo italiano.
Qualche passo indietro.
Il macello della Prima Guerra Mondiale, l’assassinio di Matteotti, l’ascesa del fascismo, i massacri in Africa, le leggi razziali del 1938, la Seconda Guerra Mondiale, i massacri in Jugoslavia, la fuga dopo l’8 settembre 1943.
Sono tutti episodi storici nei quali Vittorio Emanuele III ebbe un ruolo di responsabilità primaria e nessuno di questi è in discussione, a meno che con il termine discussione e la sua pratica corrente non si intenda anche definire tale l’argomentare che il sole nasca a ovest.
Una classifica di gravità non è possibile e non è neppure politicamente corretta; tuttavia, la fuga precipitosa con armi e bagagli dopo l’armistizio è, a mio personale (umile ma in buona compagnia di eminenti storici e studiosi militari) giudizio la vicenda più infame e vergognosa di tutte e da sola meriterebbe per l’allora regnante (il sostantivo andava bene: l’aggettivo qualificativo, decisamente meno) l’oblio definitivo, altro che ritorno in Italia del feretro. A titolo di esempio, uno per tutti: il nonno di un caro amico e compagno, sottufficiale dei Carabinieri, richiesto di prestare giuramento alla Repubblica di Salò, ricusò di compiere il gesto, avendo come tutti i suoi commilitoni giurato fedeltà alla Corona. L’essersi rifiutato di aderire alla repubblica nazifascista – preservando fedeltà non già e non tanto a quel signore che regnò in Italia per quarantasei anni, quanto al più nobile concetto di monarchia, oltre che alla propria parola di uomo e militare – gli costò quasi un anno di internamento in un campo di prigionia dal quale, pare, tornò parzialmente minato nel fisico e nello spirito, mentre la garrula famiglia reale (la quale, oltre a tutto, parlava la lingua italiana male e con un certo fastidio – non che il parlare fluentemente il francese gli abbia guadagnato la benché minima stima oltre le Alpi: da quelle parti hanno la tendenza a essere poco comprensivi con i traditori), se ne stava al caldo e al sicuro in attesa di tempi migliori, venendo meno – LUI sì, Vittorio Emanuele III – all’impegno preso verso i suoi sudditi, essendosi allontanato per salvare la propria casata, incurante del destino del suo popolo, oltre che degli uomini che in armi lo rappresentavano. A proposito dei quali andrebbe costantemente ricordato quanti soldati italiani ci rimisero la vita o la libertà e come l’Italia a causa della sua fuga fu invasa e sottoposta a occupazione, massacri, collaborazionismo.
Mi pare che possa bastare.
La seconda considerazione è diretta discendenza della prima.
Non solo non esiste al mondo che i signori Savoia riposino al Pantheon, ma trovo francamente osceno e insopportabile che pressoché in tutti i Comuni italiani la toponomastica riporti ancora il nome di Vittorio Emanuele III, come del resto quelli di personaggi quali Luigi Cadorna, che tutto dattero al loro Paese tranne che lustro, onore e fatti di cui menare vanto ed esempio. Personalmente non sono favorevole all’abbattimento o cancellazione di iscrizioni, fatti storici, personaggi e relative effigi: la Storia è fatta anche da uomini e donne non propriamente di specchiata virtù e compassione, ma da loro e non da altri è fatta. E poi noi siamo alcuni fra coloro i quali rimproverano a figuranti quali Alessandro Baricco o Matteo Renzi l’improvvido atteggiamento, sprezzante nei confronti del passato, di chi crede che la Storia e il mondo non esistessero, se non in forma embrionale, prima del loro arrivo.
Un po’ di decenza a livello di minimo sindacale porta a qualche rimozione – quando finiscono una guerra o un ciclo storico si regolano determinati conti e non sempre sono begli spettacoli da vedere – e solo gli ottusi e i nemici della cultura penserebbero di cancellare certi nomi dai libri di Storia e dall’insegnamento scolastico che andrebbe, se mai, arricchito e non impoverito, di nomi e date, sempre in nome dell’ossequio e del culto della memoria. Penso, però, che togliere il nome di Vittorio Emanuele III – come anche quello del massacratore di poveri coscritti della Prima Guerra Mondiale – dall’intitolazione di corsi, piazze, viali o semplici vie, si possa tranquillamente collocare all’interno di quel minimo sindacale e che si possa ancora fare. 
Adesso, subito, che s’è perso anche troppo tempo: anzi, andrebbe fatto ieri.

Cesare Stradaioli

  

COWBOYS E GENERALI

In un certo senso, dobbiamo qualcosa all’ambasciatrice statunitense all’ONU. Durante la seduta di ieri, la signora Nikki Haley – che ha un po’ nome e cognome da pornostar, ma non è colpa sua – a proposito della mozione portata avanti da un certo numero di Paesi e che sarà prossimamente messa ai voti, tendente a indurre gli USA a recedere dalla decisione di trasferire la loro sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, c’è andata giù pesante, dichiarando: “Ci segneremo i nomi.” Nome e cognome che ricordano qualcosa, ma anche il comportamento fa venire in mente pellicole cinematografiche, segnatamente quelle western: del resto, se Ronald Reagan è diventato presidente, possiamo immaginarci quando si sarebbe divertito John Wayne, nella stessa posizione.
La gratitudine nei confronti della signora Haley, si diceva. Le dobbiamo il fatto di avere tolto l’ultima fettuccia, l’ultimo pezzo di perizoma, l’ultima fogliolina di fico dal nudo, francamente inguardabile, dell’ONU. Lo si intuiva da un po’ e cominciavano a intravvederlo anche i più accaniti e irriducibili sostenitori del concetto e del ruolo delle Nazioni Unite. Il fatto che un ambasciatore – non una sottosegretaria qualsiasi, e per di più il rappresentante diplomatico di una delle potenze che siedono permanentemente nel Consiglio di Sicurezza – si senta legittimato a esprimersi con un linguaggio simile, la dice lunga su cosa sia diventato quello che, al momento della fondazione, doveva essere il fulcro del dialogo e della convivenza fra gli Stati. Fino a ieri, l’ONU veniva sbeffeggiata e sbertucciata dall’esterno, segnatamente da Israele: ora, lo sberleffo nasce da dentro e non nei corridoi, dove umanamente e per certi versi legittimamente è consentito dire quasi tutto quello che passa per la mente (la politica è fatta anche di queste cose), bensì in seduta plenaria e a verbale.
D’altronde, è piuttosto agevole esercitare un po’ di memoria militante e mi riferisco a tutti coloro che si occupano di politica e di diritto, specie quello internazionale; basterà ricordare loro – o invitarli a leggerlo: si tratta di un’esperienza che accresce – Hans Kelsen e quanto l’emerito studioso fosse solito ripetere, grosso modo un secolo fa, a proposito dell’effettività del potere esercitato da un’entità, che fosse statale o sovranazionale: una statuizione è dotata di effettività solo se, unitamente al potere di emanarla (può bastare, alla bisogna, anche un Parlamento composto da quattro idioti – annotazione personale), si accompagni un sistematico potere di repressione di ogni violazione della stessa.
Ora, è evidente da svariati decenni ormai, come le tanto conclamate e certe volte tonitruanti risoluzioni dell’ONU si risolvano quasi sempre in mere dichiarazioni di principio, dotate solo di forza mediatica, e totalmente sfornite di sanzione in caso di mancata ottemperanza a quanto in esse contenuto. E’ noto come Israele per quanto concerne la questione palestinese o il controllo degli armamenti nucleari – questo unitamente a tutti gli altri Paesi dotati di tali arsenali – delle risoluzioni o anche delle blande raccomandazioni provenienti dal palazzo di vetro abbia fatto sistematicamente l’uso tipico di tempi in cui il concetto di carta igienica era ancora sconosciuto. L’ONU è diventato quello che sembra: un inutile carrozzone, composto da soci che non si rispettano, condomini che non pagano le rispettive quote (proprio gli Stati Uniti sono fra i maggiori morosi), dove stanchi e frusti rituali si ripetono nella noia e nella indifferenza più totali. Perfino i Caschi Blu, che a noi bambini dei primi anni ’60 parevano così importanti ed eroici, vengono tranquillamente massacrati, quando non tolgono gentilmente il disturbo (anche prima ancora di esserne richiesti) da luoghi nei quali erano stati mandati a protezione di civili che vengono, successivamente, massacrati e sepolti in fosse comuni e questo nella – meritatissima – indifferenza più totale. Tutto, in definitiva e per metterla nel modo più semplice possibile, per un’unica, solita ragione: l’ONU è sfornita di adeguata forza capace di fare rispettare quanto viene deciso a maggioranza dagli Stati che la compongono. Qualche sanzione, qualche veto fra uno sbadiglio e l’altro. Punto e fine del palo.
Se non altro, la signora Nikki Haley, uscita dal ranch con cinturone e cartucciera a tracolla, brandendo il winchester, ha scritto una pagina importante della storia dell’ONU e della Storia in genere, pagina che potrebbe essere riempita da una sola frase: ce ne frega un cazzo – o, in alternativa: vi facciamo un culo tanto.
QUESTA è effettività, accidenti.

P.S. 
Potessi incontrarla, mi permetterei di suggerire alla signora Haley di annotarsi, insieme a quelli di coloro che voteranno una mozione sgradita agli USA, un altro nome.
Quello di uno che la guerra l’ha combattuta per davvero, a differenza della suddetta Calamity Jane da tre palle a un soldo e del buffo signore che l’ha messa su quello scranno, i quali a tutto concedere avranno giocato alla playstation; uno che ha visto e respirato sangue, morti, odio, trincee, bombardamenti, lutti dalla sua parte e da quelle avverse; uno che faceva ombra, come si dice, non come i pagliacci che cianciano di conflitti e accordi di pace standosene seduti in poltrona, a diecimila chilometri di distanza e al quarantesimo piano da terra; uno che, avendolo combattuto, conosceva e rispettava il nemico e come tutti i militari più intelligenti aveva capito che c’è un momento in cui il nemico diventa avversario e infine interlocutore; uno che, per le sue idee, è stato emarginato dalla vita politica del Paese che aveva contribuito a difendere, rimettendoci anche un occhio.
Si chiamava Moshe Dayan – scriva, signora Haley – per la precisione, il Generale Moshe Dayan, l’eroe della Guerra dei Sei Giorni e sosteneva che i palestinesi avessero diritto ad avere uno Stato proprio e indipendente, e non traslocando in Giordania o in Iraq o sul pianeta Papalla, ma proprio lì dove stava lui, a Gerusalemme, nella stessa terra degli israeliani.

Cesare Stradaioli

TODOS CABALLEROS-NINGUNO CABALLERO

Mi trovo fra coloro che, difendendo letteralmente a spada tratta la Costituzione, a dispetto delle contumelie di coloro che la vorrebbero ridurre a norma ordinaria – intanto la facciamo, che ce lo chiede l’Europa, ce lo chiede Nonna Papera o chiunque altro, poi vediamo cosa, dove e come si può cambiare qui e là; gli è andata male nel dicembre del 2016: c’è da stare tranquilli che ci riproveranno – ritiene che una qualche modifica, esclusivamente nei riguardi di norme che abbiano esaurito la loro funzione, sia necessaria. E con ciò intendo questo: ritengo che un emendamento all’articolo 67 della Costituzione – “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.” – non sia procrastinabile oltre.
Si tratta, sia detto una volta per tutte, di una norma di altissimo valore, più che altro simbolico (ma una Costituzione è per forza di cose fatta anche di simboli), dettata da uno spirito costituente innervato dalle migliori menti di cui l’Italia disponesse all’epoca. Prova ne sia il fatto che non pochi Paesi, specie emersi dagli anni ’60 in poi, abbiano preso a modello la Costituzione della Repubblica Italiana per redigere le proprie. Una norma composta da due diverse affermazioni, di portata storica formidabile; la prima eleva a rappresentante della Nazione ogni singolo deputato e senatore: la seconda lo libera dal vincolo di mandato, conferendogli una libertà di coscienza e di espressione del proprio pensiero, allora del tutto innovativa.
Il fatto è che pensare di conferire a ogni singolo parlamentare una tale libertà di opinione e azione, è senza dubbio figlio di quei tempi. E’ probabile che chi l’abbia concepita e messa nero su bianco – molti di coloro che l’approvarono, forse, un po’ meno – fosse convinto che chiunque sarebbe stato candidato a ricoprire una così alta carica, l’emblema stesso della partecipazione a uno dei tre Poteri su cui si basa lo Stato moderno, avrebbe avuto (e se non l’aveva, avrebbe imparato a dotarsene) un tale spirito di servizio, oltre che un’onestà di base non scalfibile da qualsivoglia promessa o minaccia, da non approfittarne mai. O raramente.
Todos caballeros, come si dice; un consesso di gentiluomini, di estrazioni sociali e orientamenti politici fra i più diversi e non di rado conflittuali, chiamato a letteralmente ricostruire le basi politiche, sociali e civili di uno Stato – che aveva appena mutato forma, passando da monarchia a repubblica; e poi restiamo impressionati da fatti che accadono in questi anni: assolute quisquilie e pinzillacchere, se comparate all’esito del referendum successivo alla guerra – non poteva che dettare norme per una indefinita serie di altri consessi di altrettanti caballeros. Difficile pensare che qualcuno, fra i relatori di questo articolo, immaginasse che, decenni dopo, il passaggio da un partito all’altro, addirittura da uno schieramento politico all’altro, avrebbe costituito avvenimento normale per quanto deprecabile. Nelle menti di costoro, probabilmente, si immaginava che l’onorevole Tizio o il senatore Caio, scopertisi in insanabile disaccordo con il proprio partito su una determinata serie di gravi questioni, avrebbero preferito dimettersi da parlamentare, essendo venuto meno il rapporto fiduciario, necessariamente a doppio senso, che lega eletto ed elettore tramite il partito che l’aveva candidato, per lasciare posto ad altri, che meglio di lui avrebbero coltivato le istanze politiche di chi aveva votato quel partito e quei rappresentanti.
Erano altri tempi. Con tutti i limiti che la Storia non manca di ricordarci: tutto molto bello, come si dice, in quella Carta Costituzionale, se non ché, per dirne solo una, le donne avevano appena conseguito il diritto di voto, ma avrebbero dovuto aspettare un ventennio – 1965 – prima di accedere al terzo dei poteri statuali, quello giudiziario, finalmente ammesse a fare parte della Magistratura; cosa che i nobili padri costituenti, bontà loro, evidentemente non reputavano ancora meritevole di inserzione nella Costituzione, che pure all’articolo 3 rigettava, fra le altre, qualsiasi distinzione di sesso.
Le cose sono cambiate ed è tempo che venga messa mano all’articolo 67 per fare in modo che lo sconcio, la vergogna del cosiddetto ‘cambio di casacca’, ancora avveleni e distorca la vita e le attività del Parlamento. E’ tempo che si prenda definitivamente atto, anche al massimo livello normativo, di una cosa che sanno anche i bambini: non ci sono più i gentiluomini di una volta, ovvero si sono grandemente ridotti di numero e le Camere, che dovevano vedere seduti in quei banchi il meglio dell’onestà e dello spirito di servizio, sono diventate davvero dei bivacchi di manipoli, perfino peggio di quelli che minacciava di portarci Mussolini, e puttane di ogni sesso in vendita sul libero mercato elettorale – che dio, o chi per lui, ci maledica per avere consentito questo.
E’ tempo che la norma sia modificata: ci sono, o ci dovrebbero essere, tecnici e studiosi costituzionali in grado di comprendere esattamente il problema e renderlo chiaro e forte, concretandolo in un emendamento che – vedano loro come: non spetta a me, non spetta a noi – ponga fine al mercimonio dei posti in Parlamento. Chi è eletto nell’ambito di un partito o di un gruppo, un movimento, lo si chiami come si vuole, deve obbedire a un vincolo di mandato. Che ha, prima di ogni altra cosa, verso gli elettori. Rimanga senz’altro l’altissimo ruolo di rappresentante della Nazione: ognuno se la veda, poi, con la propria coscienza, se ne possiede una e se è solito prestarle ascolto; ma il vincolo, UN vincolo deve assolutamente esserci. Diversamente, i concetti stessi di campagna elettorale, di esposizione di programmi, di illustrazione di argomenti tesi a convincere ogni singolo elettore della bontà di quella specifica scelta elettorale, perderebbero ogni senso reale e concreto – se ne hanno conservato alcuno, dopo tutti questi anni e questi scambi di favori.

Cesare Stradaioli

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S’ODE A SINISTRA UN FRAGOR DI PIUME

L’irruzione a Como di quattro imbecillotti rasati, che probabilmente non hanno la più pallida idea di cosa fosse il fascismo come fenomeno storico e sociale, non è che l’ennesima manifestazione del logico e storicamente necessario sviluppo di trent’anni passati a guardare altrove. Decenni durante i quali fenomeni sempre più evidenti di rigurgiti fascisti sono stati sistematicamente trascurati, sottovalutati, ridicolizzati.
Ora, l’Italia è il Paese del benaltrismo: i problemi sono sempre altrove. Qualunque cosa si denunci, si sottolinei, qualsiasi idea si esprima per un cambiamento, per una sia pur breve pausa di pensiero in libera uscita, la risposta è sempre la stessa: i problemi sono ben altri. E la cosa, sistematicamente, finisce lì. Il che è un ottimo modo per non risolvere niente, perché evidentemente questo modo di fare politica non può più essere definito stupido, bensì estremamente accorto: passare per stupidi, pur mantenendo accortamente il potere, paga. E che una società così malata, socialmente, economicamente, in ogni singolo individuo e nella collettività, debba fare fronte a una infinità di cause che provocano effetti devastanti, è fuori di dubbio: tuttavia, occuparsi in maniera un po’ meno tiepida di fatti quali quello di Como, sarebbe già un bell’inizio. Per rompere questo muro di omertà intellettuale che ingessa qualsiasi ipotesi di cambiamento. In una formidabile vignetta di Altan datata anni ’70, si vedeva un tale che diceva: Si potrebbe aizzare la mafia contro l’inflazione e viceversa. Fa sorridere per non mettersi a piangere, perché con una semplice battuta, un pensatore – disegnatore, riferito ad Altan, è riduttivo – che usa la matita, descrive in maniera secca da lasciare senza fiato un orientamento generale, certamente imposto dall’alto, ma pedissequamente seguito dalla massa dei cittadini, per il quale il distacco, l’indifferenza che sfocia nella battuta – involontaria, per il soggetto della vignetta, è ovvio – il pensare che ci sono sempre cose peggiori e, in definitiva, il non fare assolutamente niente, sia l’opzione migliore.
Sottovalutare, per non affrontare; sminuire per non dover faticare a trovare una soluzione; guardare altrove, “c’è ben altro!”. Non ci sono i carri armati per le strade; né, alle viste, par di sapere di piani per occupare la cosiddetta ‘stanza dei bottoni’, che a sorpresa Pietro Nenni disse di avere trovato vuota, quando andò al governo (forse solo in quel momento l’anziano socialista si rese conto che i bottoni stavano da un’altra parte). E tuttavia, bisognerà che prima o poi si metta mano a qualcosa di più efficace di un paio di titoli sui giornali. Presi singolarmente, fatti del genere contano poco, in un Paese con oltre 60 milioni di abitanti, sfiancato dalla disoccupazione, dall’arretratezza culturale, dal paesaggio che frana, dalla maleducazione imperante (la percentuale di maleducati è tale che, per contrappasso, finiranno – diventando minoranza – per essere non educati coloro che dicono ‘per piacere’, ‘grazie’, ‘buongiorno’ e ‘buonasera’); quattro ragazzetti, un cretino che mette in spiaggia cartelli con frasi inneggianti a Mussolini, lo stesso insistere a chiamare Benito Mussolini con l’appellativo ONORIFICO di ‘Duce'; già un gruppo di delinquenti che minaccia un sacerdote perché porta in piscina alcuni migranti E NESSUNO che dica bah, dando anzi risalto mediatico ai suddetti delinquenti con la scusa che il sacerdote li ha abbracciati – diamine, sta seguendo gli insegnamenti cristiani: doveva abbracciare il vescovo? – è più grave, ma insomma siamo lì. Qualcosa di peggio accade in città come Trieste, dove qualche anno fa è stata intitolata una scala a Mario Granbassi, interventista fascista nella Guerra Civile spagnola, uccisore di comunisti e repubblicani spagnoli, mentre ora in consiglio comunale dove è felicemente tornato il centrodestra, si sta pensando di dare a una via il nome di Giorgio Almirante e mi fermo qui.
Insistere a dire che i rasati in giaccone, neppure capaci di declamare quattro frasi deliranti senza bisogno di leggerle come se fossero in prima elementare, sono ignoranti, non hanno idea, non sanno di cosa parlano (appellando gli arabi come gente senza identità dimenticano quello che il fascismo pensava di loro, ritenendoli – con chiaro intento positivo – popoli guerrieri) è storicamente sbagliato: neppure i primi picchiatori in camicia nera degli anni ’20 avevano idea di cosa stessero politicamente contribuendo a fare. Erano energumeni di scarsa cultura, cittadini arrabbiati per la fame, la disoccupazione, la povertà, utilissima carne di porco da usare per scardinare la struttura già vacillante di uno Stato guidato da un ceto politico codino e abietto, sostenuti da una stampa ferocemente xenofoba e vittimista (a qualcuno questa descrizione ricorda qualcosa?). Gente che usava la violenza perché in quell’esercizio trovava sia sfogo alle proprie frustrazioni sia un salario della vergogna che non era certo colpa a loro ascrivibile.
E non basta condannare. Bisogna agire. Con tutto il rispetto per quei cittadini di Como che a fronte di un gesto di tale arroganza si sono comportati con la massima compostezza (uno di loro è un sacerdote ed è comprensibile che, a dispetto della sua mole, non si sia alzato a prendere a sberle il più vicino di quei giovani – peraltro, i ricordi di catechismo, pratica indispensabile per giocare nella squadra della parrocchia, mi dicono che pure Gesù si incazzò qualche volta nella sua breve vita e mi pare che l’ultima fu contro il tale che stava nel regno dei cieli, colpevole di averlo abbandonato), non saranno loro a fermare l’ondata crescente di neofascismo, né qui né in Europa, dove governanti che meriterebbero di essere processati avanti il tribunale de l’Aja, dettano leggi e comportamenti semplicemente impensabili una ventina di anni or sono. Nel completo, o quasi, silenzio della cosiddetta ‘intellighenzia’ di sinistra: posto che ancora esista. Non saranno loro come non ne sono stati capaci i timidi e guardinghi pensatori dell’Italia post Prima Guerra Mondiale che non si accorsero che dietro le camicie nere ci fossero gli agrari emiliani – loro sì, che avevano le idee chiarissime su cosa si prefiggessero, mandando manipoli di esagitati a manganellare e a dare fuoco alle librerie e alle sedi di partito.
Silenzio a destra“, titolava ieri Repubblica, stigmatizzando il fatto che le componenti politiche più vicine – o meno lontane, diciamo così – a simili fenomeni fossero state piuttosto tiepide, in merito a una incursione che, va detto, non è sfociata in alcun gesto di violenza (è capitato e capiterà di peggio). E’ tanto incomprensibile quanto frustrante notare come ogni qual volta succede qualcosa di umanamente non accettabile, da sinistra – o sedicente tale – si guardi sempre dall’altra parte, invece di domandarsi dove si è sbagliato, se si è arrivati a tanto. Come se, dopo un linciaggio in Alabama, i politici americani antirazzisti avessero chiesto ai grandi latifondisti del sud cosa ne pensassero di quel linciaggio e si stupissero di non ottenere condanne e riprovazione. Con tutte le enormi e debite distanze, mi tocca confrontarmi con la Juventus: squadra, dirigenza e modo di pensare che detesto, ed è indubbiamente importante dare un occhio alla sua campagna acquisti e a come il suo tecnico metta in campo l’organico di cui dispone; ma santa pazienza, sarà più logico che io mi occupi di come si muove sul mercato la MIA squadra del cuore e che mi interessi incomparabilmente di più cosa faccia l’allenatore, cosa decida. Se nel prossimo scontro diretto dovesse prevalere la Juventus, sarà senza dubbio per la sua superiorità, ma anche per la minore capacità dell’area tecnica e dirigenziale della mia squadra. Ed è a quello che dovrei guardare, per cambiare, per migliorare: non ficcare il naso in casa altrui e domandare cosa ne pensino, loro, del fatto di averci battuto.
Silenzio a destra? Io a sinistra, a parte le solite flebili geremiadi prontamente zittite dal consueto ‘ma cosa volete che sia!‘, sento solo la voce mia e di qualcun altro e non mi pare un buon segno: magari mi sbaglio, ma in attesa di essere smentito, mi preoccupo. Di sicuro, anche considerato il livello da sottozero – culturale, politico, umano – del ceto politico che in Italia si colloca a destra, io sinceramente me ne infischio di cosa pensino loro, i Salvini, i Maroni, i Meloni, i Berlusconi, le loro truppe cammellate e il circo delle meraviglie della stampa a loro prona, a proposito dell’irruzione a Como: e se anche ne pensassero qualcosa, se anche dicessero qualcosa che potesse sembrare una presa di distanza, non la considererei mai tale: non mi fido.
Giunti una certa età si conoscono anche i polli degli altri, oltre che i propri.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

 

IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE – Consigliato dagli Amici di Filippo

“Sono americano, nato a Chicago”; è l’incipit de “Le avventure di Augie March”, che Saul Bellow scrisse nel 1952 ed è un concetto, più volte ripetuto sottotraccia in questa raccolta di scritti su temi quali la letteratura, la morte – presunta – del romanzo, la modernità e il disagio di vivere, che spesso assume nel suo pensiero tinte tendenti al ridicolo (“uno può rendersi ridicolo ovunque si trovi“), nella più squisita impronta ebraica.
La ripetizione di quell’assunto appare sia come un prendere le distanze dalle proprie radici religiose e culturali, sia come una specie di rifiuto delle catalogazioni, fra le quali l’essere ebreo, intellettuale, scrittore, pensatore e premio Nobel per la letteratura è probabilmente, fra le tante, quella che gli pesa maggiormente. Non solo americano, ma anche scrittore: ma se appare così necessario sottolineare la origine ebraica dell’essere scrittore, incalza l’A., ‘allora si dovrebbe ritenere ugualmente necessario precisare che esistono astonauti samoani, violinisti eschimesi o zulù esperti i Gainsborough.’
In questa collezione di scritti che parte dai primi anni ’50 per finire nel 2000 – e, però, temporalmente non susseguenti – viene alla luce il pensiero e la forza della scrittura di un personaggio che non è solo autore di romanzi che hanno fatto la storia della letteratura americana e mondiale, ma anche un modo originale e acuto di porre la riflessione non al servizio della semplice narrazione ma anche del tentativo di comprendere l’adesso e la modernità, il passato e quello che il futuro aspetta dietro l’angolo.
Strenuo difensore dell’indiviudalità, non come rifugio nel calduccio della lontananza dalla vita, quanto piuttosto nucleo di una propria possibile autonomia che conferisca spessore all’individuo, Bellow rifiuta categoricamente il vezzo della catalogazione, il mettere etichette su qualsiasi cosa l’uomo produca a livello di pensiero e forma artistica. C’è un Grande Rumore intorno a noi, profetizzava l’A. una sessantina di anni fa e chissà se si rendesse conto di quanto lontano stava guardando. L’ossessione del fare e dell’esserci rischia di risolversi in un continuo girare a vuoto, impiegando energie senza fine per non fare assolutamente nulla che sia un passo più in là di dove ci si trova. Citando Goethe, ricorda a se stesso prima che al lettore come accrescere continuamente le proprie conoscenze senza imparare a farne uso, finisca con l’avvelenare l’esistenza: ovvero, dovremmo concludere con lui, come in fondo tutti noi conosciamo persone alle quali la cultura non ha fatto poi gran che bene, sotto il profilo umano ed empatico.
Lettori di tutto il mondo, siate prudenti, ammonisce nello scritto dal titolo omonimo. La citazione è significativa, per uno piuttosto lontano dal pensiero marxista e che, tuttavia, riprende una celebre parola d’ordine di uno come lui, immediatamente pensato come ebreo, prima che come qualsiasi altra cosa e con questo, fatalmente, torna il mettere le mani avanti sull’essere esattamente quel qualsiasi altro, prima che ebreo, a costo di autodefinirsi semplicemente – ed è quello che, in fondo, è – americano. Sia prudente, il lettore, perché da che è nato, del romanzo viene periodicamente annunciata la morte imminente, se non già avvenuta. Sia prudente quando tenta di rivolgersi a uno scrittore distaccato dalla propria opera, perché è piuttosto probabile che costui gli risponda qualcosa come: “Perché dovrei tralasciare le mie distrazioni per ascoltare te?” e questo perché lo scrittore vede e percepisce con la vista periferica e in ciò tende a ignorare quello che gli si presenta di fronte, qualificandolo anzi come un qualcosa che, semplicemente, lo distrae.
I saggi presenti nella raccolta spaziano da appunti critici su Heninghway, Allison, l’allora esordiente Philip Roth – non le manda a dire neppure a lui, che pure diventò suo amico – e ancora Eliot, Whitman, Sartre, Toqueville e tanti altri, il tutto sempre attraversato da una scrittura come sussurrata, appena porta per essere presa in mano ed esaminata con calma e cura; in tutto ciò, permane (checché ne dica l’A., anche con un pizzico di civetteria) l’insopprimibile tratto ebraico che si sostanzia nella tendenza al racconto, all’affabulazione come mezzi di espressione talmente connaturati da essere non evitabili. Fino a giungere a momenti davvero esilaranti, nei quali vediamo lo studente che domanda al professore per quale motivo Achille trascini il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia: quesito che mette in grande difficoltà il docente, che provoca l’interlocutore chiedendogli a sua volta se, per caso, lui stesso abbia la risposta e costui osserva che l’Iliade è piena di cerchi, ruote, scudi, nonché altre figure rotonde, e lei professore sa bene cosa dicesse Platone del cerchio. Il docente finisce col cavarsela alla grande, e cioè con la pura e semplice narrazione – staremmo per dire: improvvisazione jazzistica – replicando che, in definitiva, Achille era semplicemente incazzato come una bestia e questo trascinamento circolare era solo l’esplicazione in forma di forza bruta di questa incazzatura.
Le storie che riempiono la vita, le invenzioni, le affabulazioni sono la linfa del pensiero di Saul Bellow, naturalmente bene espresso nei suoi romanzi, anche se in questi saggi pare ammonirci, proprio in quanto lettori che hanno da essere prudenti, che non sempre queste narrazioni devono necessariamente avere attinenza con la realtà; non si tratta, come potrebbe sembrare, di una presa di distanza dal realismo, ma solo un invito alla libertà, vera libertà di espressione. Leggendo queste considerazioni, viene spontaneo pensare, per chi l’ha visto, al formidabile prologo recitato in stretto yiddish del film “A serious man” dei fratelli Coen, la storia al limite dell’horror di un rabbino che dovrebbe essere morto, e forse lo è, e che tuttavia bussa alla porta di casa del bravuomo il quale, malgrado la moglie – molto più accorta di lui – lo inviti a darsi una svegliata, ancora non capisce se l’anziano e barbuto religioso sia un essere vivente o una specie di Golem.
La letteratura come ricerca della e sulla condizione umana, forse: a noi pare, alla fine di questa bella raccolta di saggi, che non sia altro che la ricerca dello stupore, che poi è la molla che spinge alla conoscenza. E alla scrittura. E, in definitiva, al romanzo.

Cesare Stradaioli

Saul Bellow – TROPPE COSE A CUI PENSARE, saggi 1951-2000 – Big Sur Editore – pagg. 354, €20

LA SECONDA A SINISTRA

E’ nota la storiella di quel signore che, in prossimità di un incrocio, accosta l’auto vedendo un tizio sul marciapiede, abbassa il finestrino e gli chiede: Scusi, è questa la seconda a sinistra?
Anche sotto il profilo storico e sociologico che stiamo vivendo, ha suscitato vivaci reazioni quanto è trapelato dall’incidente probatorio (che dovrebbe essere coperto da segreto di indagine, dato che sempre in corso di indagine siamo) relativo al procedimento a carico di due carabinieri accusati di violenza sessuale nei confronti di due cittadine statunitensi. Particolare sdegno, e pressoché unanime, è seguito alla notizia che il difensore degli imputati (sarebbero ancora indagati) avrebbe proposto a una delle querelanti oltre cento domande – centodue, dicono i bene informati – delle quali il giudice ne avrebbe ammessa la metà. La risposta a caldo del difensore è stata lapidaria: il mio assistito rischia dieci anni di galera, cento domande non mi sembrano troppe.
Fin qui, tutto bene. Avrei preferito che il difensore si fosse comportato come mi comporterei io e cioè alla stampa solo nome e numero di matricola, ma tant’è, ognuno si regola con la propria coscienza e con il proprio codice deontologico. Tuttavia, poiché da più voci si sono levate serie accuse nei confronti degli avvocati dei due militi, vorrei brevemente dire quanto segue.
Vorrei, anzitutto, chiedere a chiunque manifestasse anche solo perplessità sull’operato dei difensori dei due carabinieri – e, in genere, di ogni persona accusata di reati di una certa gravità e odiosità – se il patrimonio conoscitivo di chiunque esprima quelle perplessità (perché, piccolo o grande che sia, è pur sempre un patrimonio conoscitivo che ci consente di avere un’opinione) derivi da altre fonti che non siano i mass media. I quali, come è noto agli stessi giornalisti, non di rado sono imprecisi e qualche volta anche mendaci o in errore. Mi si creda sulla parola e sulla mia modesta conoscenza della procedura penale, nonché di cittadino che legge giornali da quando aveva cinque anni: se negli articoli che trattano di malasanità o di vaccini o di tutela dell’ambiente o di quello che volete, comparisse solo la metà delle fanfaluche che si leggono e si ascoltano in punto di processi penali, sarebbe già disinformazione grave. Ad ogni modo, la domanda di cui sopra, quasi sempre, è retorica: tutti noi che sentiamo parlare di processi come quello di Firenze, sappiamo solo quello che leggiamo e che ascoltiamo dai media; a parte qualcuno che possa avere confidenze di prima mano da avvocati, magistrati, personale di cancelleria, parti private eccetera.
L’interrogatorio di un processo complicatissimo può essere breve; e quello di un processo apparentemente semplice può svilupparsi in una o più udienze. Come si fa a giudicare l’attività di un professionista, senza conoscere i presupposti fattuali e logici di una indagine? Ora, io NON conosco gli atti di quel processo. Nessuno di coloro che ne parla lo conosce, neppure i giornalisti più accreditati – e uso un eufemismo – nei palazzi di giustizia: e quando dico ‘conoscere’, intendo avere un sapere di uno spessore tale da poter comprendere anche le domande e le strategie processuali più bizzarre. Comprendere, attenzione: non giustificare o consentire, cosa che fa parte del ruolo del giudice. Pertanto, poiché pressoché l’intera popolazione italiana, neonati compresi, NON conosce gli atti di quel processo, fermo restando il diritto di chiunque di esprimersi (basta che qualcuno non se ne approfitti: e capita di continuo), pensare di avere il diritto e la legittimazione di esprimere un’opinione su cosa fanno e come si comportano gli avvocati di questo o quell’imputato, basandosi UNICAMENTE su pezzi di frasi estrapolate dal contesto di un interrogatorio, che si colloca nell’ambito di un’udienza, compresa in un procedimento con svariate parti e voci, verosimilmente costituito da centinaia se non migliaia di pagine, all’interno delle quali possono trovarsi circostanze le più svariate, utili, inutili, conferenti, inconferenti – ora come ora: magari a fine indagine diventano utilissime o per niente – il tutto regolato da una procedura che presenta mille sfaccettature non sempre tutte comprensibili a chi non è del mestiere anche se può leggere gli atti, assomiglia tanto alla situazione del tizio sul marciapiede della storiella di cui sopra, che si sente chiedere quel tipo di informazione e ritenga di poter dare una risposta ragionevole, basata su una conoscenza che lo sia altrettanto.

Cesare Stradaioli

I RAGAZZI DEL ’99

Nel fiume di maleodorante retorica che ha sempre intriso le pagine di storia relative alla Prima Guerra Mondiale – il cui centenario dell’inizio e della prosecuzione non poteva passare inosservato e non scritto da parte delle migliori penne del più nefasto e becero patriottismo da tre palle a un soldo (e dispiace vedere coinvolta in questa canizza quella di Paolo Rumiz, a celebrare il ‘sacrificio’ di migliaia e migliaia di giovani; sarebbe stato interessante conoscere il parere di costoro, in punto di volontà sacrificale versus mandare a quel paese politici incapaci, scrittori e poeti vanagloriosi inneggianti alla ‘sola igiene al mondo’, generali felloni e assassini) – ha avuto nel termine I ragazzi del ’99 uno degli stilemi più ricorrenti.
Ragazzi è un temine amichevole, familiare, vagamente paternalistico: tanto più se riferito a veri e propri ragazzi mandati (o indotti a farlo) a morire come cani sul fronte di un conflitto che a buon diritto – una volta tanto – gli anarchici definivano, ricollegato alla ricorrenza del 4 Novembre, Lutto Proletario. Era ed è tutt’ora un modo come un altro per rendere la guerra, specie quella, meno orribile, meno ingiusta, meno disumana, per certi versi necessaria e comunque, sempre nel caso di specie, vincente. Che, poi, questa ‘vittoria’ abbia provocato, oltre a una vera e propria carneficina mondiale, sconquassi politici, sociali ed economici di una portata tale da dare vita, in brevissimo tempo, prima al nazismo e poi al fascismo, è tematica che nel nostro Paese come altrove viene evitata come molti evitano, ignorandolo e salutandolo proprio se non se ne può fare a meno, un parente molesto o portatore di inabilità psicofisica.
Ci sono altri Ragazzi del ’99, la cui presenza urge e preme con insistenza. Sono coloro i quali, fra pochi mesi, per la prima volta avranno il diritto di voto per rinnovare il Parlamento. Sono coloro i quali nelle proprie fila conteranno – si tratta di previsione amara per quanto è facile – alte percentuali di astenuti o di schede bianche. Che non indicando un candidato, un partito, un movimento, una coalizione, pur sempre parteciperanno alla vita politica: il loro non voto, comunque  orienterà la politica e l’economia del nostro Paese per il prossimo immediato futuro.
Sarebbe interessante riflettere sul come coinvolgerli nella vita politica, nella partecipazione alla dinamica della nostra società. Sarebbe di fondamentale importanza, specie per la Sinista – nemmeno a dirlo: c’è qualcosa di urgente e necessario che non riguardi la Sinistra? – portarli al voto, renderli più responsabili di quanto non siano e non si sentano. Anche perché il loro non voto, la loro astensione, la loro scheda bianca, arrivo a dire anche il loro voto alla Destra più becera ed estrame, sono manifestazioni negative la cui responsabilità è interamente ascrivibile al mondo in cui vivono: cioè a noi che, in un modo o nell’altro, a diverso titolo e differente (o mancata) partecipazione, abbiamo contribuito a costruire. Un mondo, una società che se non piacciono a molti di noi, figurimoci se possano piacere a loro. L’esercizio del diritto di voto è parte integrante di questa società, sicché, insisto, sarebbe interessante che fra costoro, già maggiorenni in questo 2017, prevalessero, possibilmente di gran lunga, i votanti, i sensibili, i partecipanti.
Chiamarli ‘sdraiati’, come fa la Sinistra da salotto di zia Giulia (del quale Michele Serra è uno dei custodi e gestori), dileggiandoli come se avessero scelto consapevolmente loro di esserlo, invece di esservi indotti da un modo di vivere e di trattarli iperprotettivo, indecente e disumano, serve a tutto tranne che a coinvolgerli. Fanno eccezione gli attori che ne interpretano i vari ruoli nel film omonimo che sta per uscire sugli schermi (cose da pazzi: e c’è ancora qualcuno se la prende se Quentin Tarantino rimprovera al cinema italiano di essere sciatto e di ristrette visioni ombelicali) e che piacerà tanto alla Sinistra alla Nutella di Veltroni e manigoldìa cantante.
Lascerei, pertanto, in pace i Ragazzi del ’99 che come regalo di maturità (non ancora di maggiore età, all’epoca) ebbero una bella guerra a colpi di retorica letamaia, fatta di baionette, gas nervini e fucilazioni per diserzione, per poi trovarsi le camice nere o brune, una volta rifattasi una vita (quelli che ne ebbero la possibilità): riposino in pace. Ci sono quelli del 1999 di cui prendersi cura, dando loro maggiore attenzione e spazio. Potrebbe pure scapparci qualche buon insegnamento, da loro, per cambiare le cose.

Cesare Stradaioli

CAPITAN RENZI, OPERAZIONE ANNIENTAMENTO SINISTRA: MISSIONE COMPIUTA

Il rinoceronte bianco o l’aquila calva – per fare due esempi fra le specie in via di estinzione – nascono tali e, finché sono in vita, tali rimangono. Non diventano qualcosa d’altro, solo perché l’uomo li stermina, a fucilate o tramite l’inquinamento ambientale o finché la selezione naturale decide che il loro tempo sulla Terra è finito. L’elettore, invece, può mutare geneticamente dal punto di vista politico: ma prima di tutto, nasce cittadino e tale rimane, tanto quanto gli animali dell’esempio, finché decide di votare o non gli è impedito.
L’esito delle elezioni regionali in Sicilia, un disastro per la Sinistra in genere e per il Pd in particolare, non fa che esprimere una continuità: la Sinistra intesa come raggruppamento politico è tecnicamente morta, nel nostro Paese; lo è tanto quanto, tecnicamente, è morto il rinoceronte bianco o come lo sarebbe il koala, se non fosse per l’intervento dell’uomo (nel primo caso tramite una sorta di fecondazione assistita, nel secondo col forzato mantenimento in vita che poco si differenzia dall’accanimento terapeutico). Rimangono in vita alcune strutture, molte delle quale sedicenti di sinistra, nonché un certo numero di associazioni, movimenti, riunioni di singole personalità, tendenti a esprimere non solo le singole idee raggruppate ma anche un indirizzo politico o, quanto meno, un abbozzo.
Ma i cittadini italiani aventi diritto al voto, non sono né morti né in via di estinzione: sono sempre cittadini, solo che molti di costoro sono diventati elettori di sinistra geneticamente modificati. La combinazione di scienziati pazzi e apprendisti stregoni che nel corso dei decenni hanno svirilizzato e svuotato di senso il concetto di Sinistra nei partiti o coalizioni o raggruppamenti o chiamateli come più vi pare vi piace e vi fa comodo, compone un elenco di nomi e cognomi lunghissimo. Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani e compagnia cantante. Il lavoro, cominciato decenni fa, è stato portato a termine da Matteo Renzi, secondo quanto commissionato a lui e alla sua banda di ragazzini e ragazzine. 
Adesso, stare qui a rimettere in riga tutti i provvedimenti adottati dai governi di centrosinistra che hanno occupato Palazzo Chigi dal 2013 a oggi, per un’intera legislatura, sarebbe solo una oziosa ripetizione: sono pieni i fossi, di come e quando il Pd, partito composito di ex democristiani ed ex socialisti ed ex comunisti ed ex chissàcosa – dunque, per sua intrinseca natura, conflittuale e fatalmente destinato a diventare quello che doveva diventare, vale a dire la Democrazia Cristiana del terzo Millennio, e scusate se dico che gente democristiana doc come Bassetti o Zaccagnini non era di sicuro più centrista di Renzi o Orfini o qualsiasi altro componente della dirigenza attuale del Pd, se mai erano un tantino più a sinistra, di sicuro più attenti alle esigenze del mondo del lavoro – abbia dichiarato guerra senza quartiere e ad alzo zero al sindacato, sposato ogni possibile teoria economica liberista, utilizzato la decretazione d’urgenza come neanche Berlusconi sommando tutti i suoi governi; insomma, abbia posto in essere una politica decisamente suicida, dal punto di vista della sinistra. Decisamente più funzionale, nell’ottica della creazione del cosiddetto Partito della Nazione, versione tutta italiota della ‘Grosse Koalition‘ (la quale, di per sé, costituisce un gravissimo vulnus alla rappresentatività democratica e alla più piena espressione del dissenso).
Dal mitico 40% alle elezioni europee, che non ci stancheremo di ripetere era composto da una forte percentuale di elettori di centrodestra, in poi, il Pd è incorso in una sconfitta elettorale via l’altra, incluso e per primo l’esito dello sciagurato referendum del dicembre 2016, punto terminale di una lucida e programmata follia che, a dispetto della crisi economica, della povertà, della disoccupazione, dello sfascio della scuola e del territorio, ha sequestrato il Parlamento per otto mesi nella spasmodica ricerca di una riforma palesemente configgente con la Costituzione. Aiutato in ciò da un Presidente della Repubblica eterodiretto ovvero complice, sceneggiatore e interprete di una delle più orrende e patetiche pagine della politica italiana con la sua allucinante rielezione al Quirinale e da un altro, tutt’ora in carica, esangue e sistematicamente portato a dare l’impressione di essere stato costretto ad accettare una carica che, in tutta evidenza, non gli garba (manca da decenni un vero Presidente di tutti gli italiani, in grado di far sentire la propria autorevolezza: o sarà un caso che cuore e ragione facciano rimpiangere rispettivamente Pertini e Scalfaro, due uomini dalla schiena dritta che avevano il coraggio, con qualche fisiologica intemperanza, di dare peso e rilievo alla propria carica?), Matteo Renzi ha portato a termine il compito ricevuto, ossia disfare un partito di centrosinistra, coinvolgendo rappresentanti della Sinistra in decisioni indecenti quali, a titolo di esempio (e qualcuno, un giorno o l’altro ne dovrà rispondere) l’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, che, personalmente, equiparo a un colpo di Stato che peggiorerà la vita di milioni di persone per almeno trent’anni, e portandoli così alla vergogna e alla diserzione dal voto.
Contrariamente a quanto scrive la stampa, non sono scomparsi gli elettori di sinistra: hanno semplicemente votato altrove, o non hanno votato. Non è nemmeno cresciuta la percentuale di italiani che votano a destra: a parte il fatto che l’Italia non è e non è mai stata un Paese di sinistra, non fosse altro perché pur non essendo (più) fascista non è (ancora) antifascista, sono le percentuali di voto a destra che aumentano, non i votanti: e le percentuali aumentano per il semplice motivo che i cittadini di Sinistra non votano più a Sinistra o non votano proprio. Non facciamoci sempre prendere per il naso dai mass media.
Non sono estinti, a differenza delle povere bestie di cui sopra: sono sempre fra noi, siamo noi stessi, il che dovrebbe portare alla considerazione, sfrenatamente ottimista – d’altra parte, se non si è ottimisti quando si perde, allora quando? A esserlo quando si vince son buoni tutti – secondo la quale se l’elettore potenzialmente ancora c’è, allora anche l’idea guida c’è ancora. Basta pensarla, scriverla e metterla in pratica. Ma che sia di Sinistra, però: con una cosa da fare assolutamente, vale a dire drenare tutti i voti di sinistra che oggi compongono l’elettorato del M5S e una da NON fare assolutamente, vale a dire rincorrere la Destra, per solito, vince sempre chi viene rincorso e mai colui che rincorre. Lo ripeteva anche Giovanni Trapattoni: le rimonte possono essere esaltanti, ma se stare in testa è faticoso, rincorrere è faticosissimo. E poi è notorio che la massaia accorta e sveglia compra sempre l’originale, piuttosto che l’imitazione. Perfino mia madre se la prendeva con Paolo Ferrari, che alla malcapitata di turno voleva appioppare due fustini tarocchi in cambio di quello originale: ma cosa crede, diceva questa signora nata nel 1922, che poco sapeva del femminismo, che le donne siano tutte cretine?

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI NOVEMBRE: Consigliato dagli Amici di Filippo

Il presupposto che porta a questo lavoro è tema talmente detto e ripetuto da finire, come spesso accade nell’epoca delle omologazioni globalizzate, non tanto nel dimenticatoio, quanto in quel particolare girone di un ipotetico inferno neodantesco in cui vengono conservate e intercluse determinate idee e intuizioni; l’esistenza di una uniformazione globale delle coscienze, con la prevalenza del pensiero unico, è dato acquisito: bene, lo si custodisca come certe opere, in modo così palese e, al tempo stesso, non sviluppabile di dibattito esterno, in modo tale da non essere, in definitiva, conosciute e da impedirgli di nuocere. Impedire di nuocere è concetto caro alle dittature. Era necessario, secondo Mussolini, che per vent’anni fosse impedito di nuocere ad Antonio Gramsci: e dato che l’omicidio, pratica pure diffusa in quegli anni, pareva al momento poco elegante e – ancora per poco – dissonante rispetto a un’idea che si voleva non ancora del tutto totalizzante del fascismo, la galera era la soluzione ideale. Non ti uccido, non ti elimino fisicamente: impedisco, togliendoti la libertà, che le tue idee circolino. Impedisco che nuocciano.

Quasi un secolo dopo, i modi necessariamente devono cambiare e dal momento che impedire la circolazione delle idee è diventata una specie di missione impossibile, tanto vale consentirne la ripetizione, di questi concetti, ad nauseam; compaiano pure, regolarmente, su un gran numero di testate, a firma di grandi nomi nazionalpopolari, perfino su quelle idealmente dirette a un determinato pubblico (verrebbe da menzionare i famosi ‘giornali femminili’ di cui cantava Luigi Tenco; e sarebbero, invero, da menzionare: non paiono cambiati più che niente, rispetto a quelli che leggeva mia madre, forse ci sono più donne nude): la ripetizione, se non esce dalla propria circolarità, se non si sviluppa in dibattito, diventa sterile.

Il pensare in maniera diversa, di cui scrive Fusaro, parte da un sentire, che è, non a caso, il titolo del primo capitolo. Da un sentire diverso, discende per forza di cose il dissenso che è da sempre il motore del cambiamento, di qualsiasi tipo si tratti, poiché niente viene regalato dal potere dominante, se non, di tanto in tanto, sotto forma di polpetta avvelenata (e mi riferisco, a titolo di esempio e senza mezzi termini, a tutta la fuffa degli anni ’70 portata avanti in primis dal Partito Radicale, sui diritti civili: argomento nobilissimo e tuttavia vero e proprio cavallo di troia atto a imbolsire e sedentarizzare il pensiero antagonista – miliardi di ore di pensiero per il divorzio e nel frattempo la produzione, come ammoniva Giorgio Gaber, cambiava e ci cambiava; qualcosa di sinistramente simile accade in questi anni con gli stucchevoli interventi sulla asserita autodeterminazione della propria sessualità, che pare largamente più etero, che auto). Il dissenso è contrasto, è opposizione in quanto lavoro – del lavoro come opposizione non a caso cantava Ivano Fossati in uno dei suoi lavori più duri e disincantati.

Fusaro scrive di (neo)conformismo, la cui novità è rappresentata da un fenomeno solo in apparenza nuovo: il dissenso verso il dissenso, cioè una manifestazione di aperta ostilità verso chi dissente, che proviene proprio da coloro che di quel dissenso dovrebbero armarsi. Si tratta, in realtà, di un comportamento umano vecchio quanto il mondo. Dividere per mantenere il potere è essenziale e se non posso combattere chi mi contesta, in prima persona più che tanto, il serbatoio dei disperati è sempre pieno e approfittare dell’indigenza materiale o morale di chi – più che comprensibilmente – sarebbe pronto all’allineamento contro i propri liberatori in cambio di una vita leggermente migliore o anche solo non peggiore, è pratica consolidata nei millenni.

Disobbedire è difficile; ribellarsi è difficile, perché sarà anche vero che la natura tende all’entropia, al caos, ma il dissenso lungi dal muoversi a favore del caos (lo si può tranquillamente lasciare al pensiero anarchico: gli spetta di diritto), si oppone al caos, come si oppone alla globalizzazione a senso unico, proprio in quanto organici a uno sviluppo tendenzialmente darwiniano della natura, la quale come è noto non è né buona né cattiva e proprio per questo non sceglie, semplicemente procede. La difficoltà e la fatica sono eversivi tanto quanto sono evitabili appena possibile dall’uomo come da qualunque altro animale. Per questo è agevole seguire la corrente e risulta ostico andarci contro: convincere se stessi della sua giustezza è già un primo, arduo passo; ma è solo l’inizio, perché poi si impone il dialogo con gli altri e al dialogo si presta solo chi pensi, anche solo in via ipotetica, di poter cambiare idea.

Passando da Schiller e Heidegger a Socrate e alla caverna platonica, attraverso Sartre, Charlie Chaplin, Tabucchi (il suo Pereira viene descritto come un vero e proprio eroe moderno del dissenso, proprio in quanto agisce, sia pure sottotraccia, muovendo dall’indifferenza e scardinandosene) e innumerevoli altri l’Autore, va detto anche in forme e modi aggressivi e non di rado al limite dell’irritante, propone una serie di riflessioni sul muoversi intellettualmente, sull’idea di liberarsi dalla paura di manifestare il proprio pensare altrimenti; al non dare nulla né per scontato né come dovuto, in quanto scontata è solo l’acquiescenza al potere, conseguente alla delega che viene sistematicamente data, a scadenze, che consente al singolo e allo stesso tempo, di liberarsi dalla responsabilità del giudicare e del decidere, delegando il tutto ad altri e, nel delegare, si ricava finalmente lo spazio per colmare lo stomaco di materia concreta e nociva e la testa di un vuoto asettico e confortevole. Una non-esistenza.

Essere, esistere in quanto dissentire come singoli e come collettività. Come dice uno dei due protagonisti nel wendersiano “Nel corso del tempo”: bisogna anelare a un cambiamento, perché non è possibile vivere senza un cambiamento o, almeno, volerselo augurare. Non fosse altro, e per di più, aggiunge l’Autore rifacendosi a tematiche classiche, in questo momento storico forse desuete (ma il futuro non è scritto, affermava il noto pensatore contemporaneo John G. Mellor, altrimenti noto come Joe Strummer), perché lo si deve anche a coloro i quali per quelli che neanche possono immaginarselo, prima che sentirlo e pensarlo.

 

Diego Fusaro – PENSARE ALTRIMENTI – Einaudi – pagg. 156, €12

METTIAMO CHE

Supponiamo, per pura ipotesi, che Luigi Zanda, capogruppo PD al Senato ed Ettore Rosato, capogruppo PD alla Camera, siano persone oneste, che agiscono politicamente senza secondi fini e che dicano realmente quello che pensano e facciano quello che dicono, in maniera consapevole e diligente.

Bene, all’indomani dell’approvazione parlamentare della nuova legge elettorale, primo firmatario proprio Ettore Rosato – da qui il nome latineggiante invalso, che pregherei i direttori di testate giornalistiche di non scrivere né ripetere più, perché trattasi di idiozia bella e buona – che attende la promulgazione del Presidente della Repubblica, dopo essere stata approvata a colpi di fiducia a raffica chiesti e ottenuti dal governo (a proposito: perché il governo dovrebbe porre la fiducia su una legge proposta non dal proprio interno, bensì dal componente di un ramo legislativo?), emergono nella buriana che ne è seguita, le voci dei due capogruppo del PD; i quali, in buona sostanza, dicono più o meno la stessa cosa: “Vi scandalizzate perché la fiducia è stata ottenuta con i voti decisivi del gruppo politico che, sottotraccia, fa capo a Denis Verdini? Ma guardate che senza Verdini  non avremmo avuto la legge sulle unioni civili.”

Lo sappiamo bene, senatore Zanda e onorevole Rosato, che la legge sulle unioni civili – largamente carente e incompleta, fra l’altro: è come definire atleta una persona senza braccia e con una gamba sola – è passata con quei voti, indirizzati da quell’individuo. Abbiamo buona memoria e ottima vista, non dubitate. Così come non ci siamo dimenticati di quante altre volte il governo Renzi e poi quello Gentiloni sono sopravvissuti sempre con quei generosi aiuti.

Guardate VOI, piuttosto che anche Verdini ha la memoria lunga e da ex macellaio sa tenere i conti molto bene, molto meglio di voi. E passerà alla riscossione. Avete fatto la spesa al negozio? Il macellaio vi ha tagliato ottime fettine di filetto, succose costicine di maiale ed enormi bistecche alla fiorentina, così avete potuto, per l’ennesima volta, mettere insieme pranzo e cena, ché altrimenti vi toccava digiunare (ovvero togliere il disturbo da Palazzo Chigi)? Bene, qualcuno passerà, il macellaio in persona o un garzone al posto suo, a incassare i sospesi. Si fa così, giusto? Tante mamme come la mia facevano la spesa, il titolare annotava in un quadernetto e poi, a scadenze determinate, si regolavano i conti. Bei tempi: di onestà e correttezza fra negozianti e consumatori.

Ve lo siete chiesto, Zanda e Rosato – e se ve lo siete chiesto, vi siete risposti? e ne avete parlato anche col resto della famiglia? e cosa ne pensano loro? – per quale motivo Verdini è corso per l’ennesima volta in vostro aiuto? Perché è generoso? Perché gli state simpatici (non che lui sia un mostro di simpatia ma neanche voi concorrete per il primo posto della speciale classifica)? Per amor di patria? O perché, non volesse iddio, ha in mente di chiedere qualcosa in cambio? Molto, in cambio? Sapendo bene, come lo dovreste sapere voi, se siete intelligenti e onesti, che non glielo poter rifiutare? Anche lui, come voi, tiene famiglia e bisogna prendersi cura della famiglia.

Diamine, è una delle più celebri frasi di Adam Smith – Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesseil nume tutelare del libero mercato, che a voi piace così tanto! Non vorrete mica venire meno alla parola data, no? A parte le annotazioni sul famoso quadernetto, ci sono un sacco di testimoni, NOI compresi, di come Verdini e gli altri hanno, in più occasioni, operato per il LORO interesse. Sarà stato – per caso, eh? – anche il VOSTRO?

Cesare Stradaioli