DI QUALCOSA BISOGNA PUR ESSERE FIERI

Pare che alcuni signori sostenitori della Lazio abbiano avuto la brillante idea di mettere in qualche sito – o rendere comunque pubblica – una foto di Anna Frank con indosso la maglia della Roma. Ora, è evidente che notizie del genere non andrebbero neanche date, ma ormai il guaio è combinato, dei cittadini italiani che non meritano di essere quello che sono (nascere in un Paese che detiene l’85% delle opere d’arte al mondo non richiede particolare bravura, è solo fortuna) hanno avuto quello che volevano, vale a dire beota visibilità e si può ragionevolmente ipotizzare che, da domani in poi, la loro soddisfazione sarà direttamente proporzionale alla quantità e qualità di improperi che verosimilmente riceveranno. Molti nemici, molto onore, diceva quell’altro mascalzone. Sarebbe il caso di pensare a qualcosa di diverso.

Una quarantina di anni or sono, nel corso di un notiziario dell’allora quasi neonato TG3, quando esisteva ancora una certa libertà di espressione nell’ambiente giornalistico, fu riportato quanto segue. Al culmine di un diverbio avvenuto all’interno di una caserma, un sottufficiale aveva apostrofato il proprio superiore diretto con l’epiteto ‘Pinochet’. Il fatto aveva indignato colui che ancora oggi usurpa il titolo di più grande giornalista italiano di tutti i tempi – Indro Montanelli – al punto tale da portarlo a esternare la propria grandezza sostenendo che, a mo’ di risposta adeguata, l’ufficiale avrebbe dovuto ribattere, offendendo a sua volta il sottoposto chiamandolo ‘Allende’. Tanto per dare la misura dello spessore dell’uomo. A stretto giro – ecco il bello di una notizia data da un giornalista indipendente (oggi sarebbe pura fantascienza) – il sottufficiale commentò, cito a memoria, “che l’essere paragonato al compagno presidente Salvador Allende è un onore che forse non merito.”

Ecco, se io fossi un sostenitore della Roma, con il dovuto rispetto per Anna Frank e per quello che ha rappresentato e tutt’ora rappresenta la sua testimonianza, sarei orgoglioso che un personaggio storico di tale spessore, ovviamente solo in maniera ideale, vestisse i colori della mia squadra del cuore. E’ vero, come dice Woody Allen, non ricordo in quale suo film – forse “Io e Annie” – che alle volte un paio di mattonate sui denti risultano maggiormente efficaci dell’ironia, ma ritengo che quello possa valere in via preventiva.  A fatto accaduto, a porcheria pubblicizzata, la violenza – anche quella verbale – andrebbe evitata il più possibile, al fine di affamare la bestia che di violenza e odio razzista si nutre; la stessa bestia che, come ricordava Brecht, nasce da grembi ancora fertili.

Cesare Stradaioli

PROCURATORE, FACCIAMO A CAPIRCI

Il sistema processuale penale italiano prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Detto in parole semplici, al termine di un’indagine, il sostituto procuratore che le coordina, se non ritiene di chiederne l’archiviazione al gudice competente, deve procedere penalmente, rinviando direttamente a giudizio o chiedendo allo stesso giudice di cui sopra che fissi un’udienza preliminare. Da quel momento, il cittadino sottoposto a indagini diventa imputato.

Prodromo di questa situazione, cioè dell’apertura di un procedimento e relative indagini è una notizia di reato; in qualsiasi modo l’autorità giudiziaria – le Procure – vengano a conoscenza di un’ipotesi di reato (querele, rapporti di carabinieri o polizia, referti medici eccetera), costituisce dovere d’ufficio procedere per l’appunto all’iscrizione a notizie di reato, con tanto di cognome e nome ovvero nei confronti di ignoti.

E’ uno dei modi, fra i più significativi, in cui si sostanzia la fondamentale indipendenza della Magistratura quale potere statale e, più nello specifico, l’indipendenza delle Procure rispetto al potere esecutivo, cioè al Ministro della Giustizia, cioè al governo in carica.

E’ notizia di ieri, il Procuratore Capo di Roma, dottor Pignatone, magistrato di grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata soprattutto in Sicilia, ha emanato una circolare rivolta ai suoi sostituti, nella quale si sottolinea la necessità di una attenzione maggiore nella iscrizione a notizie di reato – volgarmente, quando un cittadino diventa sottoposto a indagini. A parte le ovvie ragioni di serietà e di necessità di analisi delle notizie che giungono (le denunce anonime, a titolo di esempio), sostiene il Procuratore che detta urgenza è dettata dalla necessità costituita dal fatto che, ormai al giorno d’oggi, una iscrizione a notizie di reato, è diventato quasi un’anticipo di condanna, uno stimma per liberarsi dal quale occorre attendere un lungo tempo, una spada di damocle che condiziona tanto il privato cittadino quanto, soprattutto, un rappresentante istituzionale che ne sia soggetto e che rischi di vedere compromessa, se non la sua carriera politica, l’attività e questa o quella iniziativa che aveva in animo di intrapendere, magari in ossequio alle promesse elettorali fatte.

Letta così, pare un’iniziativa ragionevole. Parrebbe; in effetti, dall’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, 1989, si sente ripetere continuamente, in modo particolare negli ultimi vent’anni, come l’avviso di garanzia non significhi essere imputati, che essere imputati non significa essere condannati, che vige onusta di gloria sempiterna la splendida presunzione di innocenza, fino a condanna definitiva. La quale, considerati i tempi della giustizia, rischia di essere una presunzione consegnata alla perenne attesa.

Purtroppo, le cose non stanno – più – così, posto che lo siano mai state. Questa continua ripetizione è andata di pari passo con uno sviluppo mostruoso della i vasività della cronaca giudiziaria e dell’uso che ne viene sempre maggiormente fatto. Peraltro, osservazione del tutto personale, quando sento qualcuno ripetere con insistenza un determinato concetto, mi viene sempre il dubbio che la ripetizione nasconda un’opinione in parte o del tutto difforme, che deve essere rintuzzata proprio dalla ripetizione stessa, che nessuno si faccia strane idee, però, insomma… Un po’ come lo shakesperiano Antonio che, durante l’orazione funebre in onore di Cesare, più volte ripete come Bruto sia uomo d’onore ed è nota, in proposito, l’opinione che hanno degli uccisori delle Idi di Marzo l’illustre oratore e in genere i libri di storia.

Temo, però, che il Procuratore di Roma – e con lui coloro che hanno subito salutato la circolare come atto dovuto e condivisibile – abbia preso un grosso abbaglio. Pare, infatti, innegabile che la mutazione dell’avviso di garanzia da atto giudiziario possibilmente segreto (anche allo stesso iscritto), ammantato da tutte le garanzie possibili e immaginabili eccetera, a condanna preventiva agli occhi dell’opinione pubblica, sia da ascriversi non già alla struttura e al senso stesso del codice di procedura penale, quanto piuttosto a uno svilimento e incattivimento della cronaca giudiziaria e, più in generale, dell’uso sturmentale che viene fatto dell’informazione. Il tutto alimentato – aggiungo, necessariamente – dalle famose e cosiddette ‘fughe di notizie’, che in quanto tali prevedono e presuppongono come attori necessari e sufficienti un soggetto che, contravvenendo a propri specifici doveri e impegni di pubblico ufficiale, divulghi l’iscrizione a notizie di reato di Tizio e un altro che questa divulgazione la utilizzi, in luogo di ricusarne il ricevimento.

Insomma, se oggi e non da oggi in Italia essere indagati presupponga una condanna anticipata, condizioni la vita politica, sia addirittura inserito in un codice di partito o di movimento politico come elemento ostativo a una candidatura o alla sue permanenza in carica di questo o quel rappresentante istituzionale, tutto ciò lo si deve all’incattivimento della politica, al degrado istituzionale e della professionalità della stampa, nel solco di un’abdicazione a doveri, principi e moralità di condotta che certo non possono essere attribuiti al sistema penale.

Se mai, da questo traggono brandelli di carne con i quali alimentare una generalizzata e sistematica sfiducia nelle istituzioni di qualsiasi genere (le quali non è che si ammazzino di fatica per contrastare questa sfiducia), che si tratti del Presidente della Repubblica, passando per un politico o un amministratore, proseguendo con l’amministratore di condominio per finire con l’arbitro che decide le sorti della mia squadra del cuore.

In tutto questo, Procuratore Pignatone, cosa c’entra il sistema procedurale? Il richiamo ai suoi sostituti che – ne sono certo – sarà fatto proprio da molti suoi colleghi, con tripudio della stampa, che così potrà maggiormente attingere a informazioni non più coperte dal segreto di indagine, non rischia oltre a tutto che, sottotraccia, zitti zitti, con il salvacondotto del classico ‘spunto di indagine’, vere e proprie attività investigative vengano svolte preventivamente, magari nel nobile intento di verificare la fondatezza di una notizia di reato, prima di iscriverla?

Proviamo a capirci, signor Procuratore: lo faccia lei, anzi, che la sua circolare sta occupando nelle pagine dei giornali e nei titoli in video più spazio e discussione di quanto non potrebbe una fuga di notizie su una iscrizione a notizie di reato.

Cesare Stradaioli

LA RIFORMA VERGA

C’è un tratto comune, presente in tutte le ultime vicende di cronaca in cui accade che qualcuno – padrone di casa o similare – spari (spesso uccidendo) a qualcun altro – per solito, ladro, rapinatore e quant’altro: si tratta del fatto che, progressivamente e, pare per ora, irreversibilmente, tutto il confronto di opinioni che ne segue – e il termine ‘confronto’ sia indicativo: trascurabili, dal punto di vista costruttivo, sociale e perfino dell’intelligenza, vanno considerati i letamai in cui sguazzano i cosiddetti ‘oliatori’, dilettanti o professionisti – si è spostato dalla persona alle cose, dalla vita agli oggetti, agli interessi materiali.

Per quanto si parli e si discuta intorno alla figura di chi spara, sempre più preponderante diventa il ‘cosa’ tuteli la pistola che uccide, in luogo del ‘chi'; d’altro canto, se della persona uccisa o gravemente debilitata già si parlava poco prima, ora quasi per niente; se non per soffermarsi sul fatto che si trattasse in un criminale, che stava per commettere (se non l’aveva già commesso) un reato. Sul fatto che sia stata tolta una vita, come si dice in gergo, con le chiacchiere siamo a zero: non interessa più nessuno, se non qualche sparuto umanista e il quotidiano dei vescovi; i quali se non altro per un tanto di decoro che serve sempre, una posizione a favore della vita dei già nati (e non solo di quelli che ancora non lo sono) la devono pur prendere. Con impatto sull’opinione pubblica quasi nullo, aggiungo. E noto come anche delle spaventose conseguenze dal punto di vista psichico o dei pesantissimi rimorsi che toccano non pochi degli uccisori (tra i quali molti dicono apertamente che tornando indietro non rifarebbero quello che hanno fatto), non importi nulla a nessuno.

Ora, viene richiamato con una certa frequenza – e, spesso, ad minchiam, come capita con leggi, norme giuridiche e cose del genere – il principio della legittima difesa; segnatamente l’articolo 52 del codice penale, il quale al primo comma recita così: “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.” I neretti sono, ovviamente, di chi scrive e sono diretti a focalizzare brevemente l’attenzione.

La violenza usata deve essere indotta dalla necessità, cioè dal fatto che non possa che essere usata in quel momento e che non vi sia altro mezzo per evitare l’offesa, che indubbiamente in caso di furto, rapina, tentata violenza di qualsiasi genere, è concettualmente ingiusta. Tizio spara perché non se ne può fare a meno.

La violenza è consentita quando il pericolo sia attuale: cioè, in quel preciso momento, il bene tutelato sta per essere violato, sottratto, distrutto eccetera. Non dieci minuti fa, non fra dieci minuti.

La violenza può essere usata quanto la difesa sia proporzionata al diritto tutelato. Ovvio che un coltello, in determinate situazioni equivalga a una pistola, sicché chi spara può invocare la proporzionalità anche in quel caso: non altrettanto può dirsi se la vittima della difesa legittima sia disarmata, ovvero se lo sparatore fosse spalleggiato da altre persone, nerborute e aggressive e il criminale fosse da solo. O se l’ucciso venga fucilato alla schiena in quanto, mettendo da parte per un attimo il lato umano, o il diritto è già stato leso oppure non più.

I commi successivi si limitano – si fa per dire – a specificare casi e luoghi ulteriori in cui si possa invocare la proporzionalità. Si tenga presente che, mentre questi due commi sono stati introdotti nel 2006, il primo comma – che difficilmente può essere ritenuto ‘buonista’ o compassionevole verso chi viola la legge introducendosi in casa d’altri per rubare – appartiene integralmente al codice Rocco, scritto e promulgato in piena era fascista: in piena ideologia, fascista. Il codice che orgogliosamente riportò in Italia, PRIMA fra le nazioni al mondo ad abolirla con il codice Zanardelli, la pena di morte.

Dato che sempre più spesso si legge di un ladro colpito alla schiena, c’è qualcosa che non torna: o meglio, ci sarebbe. Perché, purtroppo, invece pare che torni proprio, se seguiamo con attenzione la spaventosa china disumana che ha preso la nostra società, che sostanzialmente si concreta in due fasi: il totale disprezzo per la vita umana, a favore delle cose materiali (nessuno, tranne forse il grande Gino Strada, avrebbe da dire su uno che uccide un attimo prima di essere ucciso: ma, credo, neanche il fondatore di Emergency e certamente non la Chiesa, che prevedeva la pena di morte in Vaticano fino al 1992 – MILLENOVECENTONOVANTADUE) e la sistematica campagna di terrore che porta un numero sempre maggiore di persone ad armarsi, ritenendosi pienamente legittimata non solo a farlo, ma ad usarla, quell’arma. Con le conseguenze che sappiamo, perché come diceva quel romanziere, se in una storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà.

[E’ una figura retorica, che sia la pistola a sparare, dato che ovviamente non può sparare senza un dito umano che la azioni; che i solerti sostenitori delle lobby statunitensi delle armi insistano con l’incredibile mantra per il quale non è colpa né della fabbrica né dell’uomo, dato che è l’arma che spara, non è altro che l’ennesima dimostrazione di come gli americani siano inguaribilmente refrattari all’astrazione e a un qualsiasi ragionamento che vada appena più in là del gatto è sul tavolo – oltre a essere ‘la pistola ha sparato‘, una delle più notorie frasi fatte della mafia, fine della digressione.]

Un numero crescente di persone armate porta con sé, inevitabilmente, un altrettanto alto numero di persone incerte, inesperte, psicologicamente non affidabili – se basta un Salvini che sputacchia in televisione, quando tutti sanno che i crimini contro la persona e la proprietà in Italia sono in netto calo: ergo, un maggiore pericolo che ci scappi il morto, ben al di fuori e al di là anche del fascistissimo codice Rocco. E il motivo, in fin dei conti, a parte le idiozie dette e ripetute in perenne campagna elettorale (dette e ripetute da quasi tutti, sia chiaro), è che la vita umana vale sempre meno e sempre di più il denaro, la proprietà, gli oggetti.

Per cui, a questo punto, anche per una questione di etichetta e per sapere con cosa dobbiamo confrontarci, noi che rimaniamo dell’idea che la vita umana valga più di quanto non sia considerata adesso, tanto varrebbe – tenendo a mente Giovanni Verga – riscrivere anche il primo comma dell’articolo 52 del codice penale, più o meno così: “Non è punibile chi eserciti violenza indotto dalla necessità di difendere la roba.”

Ci si lamenta spesso della farraginosità e scarsa chiarezza delle leggi in Italia: questa sarebbe breve, sintetica, chiara e, una volta tanto, inequivoca.

Cesare Stradaioli

 

NON MI INTERESSA

Non mi interessa.

Non sono interessato a sentir parlare o leggere di opportunità, necessità, contingenza, emergenza, realpolitik, non c’è alternativa, governabilità, percentuali, proiezioni, accordi, do ut des.

Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha detto o non ha detto, espressamente e solennemente davanti a un certo numero di testimoni, che il governo da lui presieduto mai avrebbe fatto ricorso al voto di fiducia per ottenere dal Parlamento l’approvazione della nuova legge elettorale?

Dica sì o no. Lo dica presto, subito, adesso. Perché non può essere SEMPRE consentito di dire una cosa e, nel giro di un momento, l’esatto contrario ovvero una smentita. In politica può accadere di dire parole di troppo, spendersi in promesse che poi non vengono mantenute; succede anche nelle democrazie maggiormente rappresentative e governabili che questo o quel politico si impegni – se stesso e/o il partito o il governo che rappresneta – nel fare o nel non fare qualcosa, per poi rimangiarsi quanto detto e promesso. Può succedere, fa parte delle cose umane e poche cose sono talmente umane (nel bene e nel male) come la politica: ma non è consentito abusarne. E in un Paese come l’Italia, a maggior ragione, quando ci si presenta come discontinuità o, quanto meno, in non lineare continuità con un esecutivo guidato a colpi di proclami, bisogna pesare le parole con molta attenzione.

E, in ogni caso, è ora di finirla con le ammuine, gli ammiccamenti, i vabbè, i c’è ben altro, i non sono questi i problemi. L’ha detto o non l’ha detto?

Perché, se l’ha detto, allora dovrebbe dimettersi, dato che, evidentemente in contrasto non solo e non tanto con la sua volontà e forse la sua opinione, quanto piuttosto con un impegno preso, piuttosto chiaro e inequivocabile, in prima persona, il governo  IL SUO GOVERNO – è andato in tutt’altra direzione. E’ da chiedersi come possa un Presidente del Consiglio, a fronte di una cosa detta in un certo senso, rimanere al suo posto se poi l’esecutivo al quale lui è posto a capo, agisca in modo esattamente e insanabilmente conflittuale.

Se non l’ha detto, allora non perda ulteriore tempo e la smetta anche lui di prendere per i fondelli gli italiani e LO DICA! Dica, chiunque mi mette in bocca cose che non ho detto, quale quella secondo la quale avrei detto che il governo non avrebbe messo la fiducia per una legge elettorale, delle tre l’una: o mente spudoratamente, o è dotato di una fantasia ineguagliabile o, nella migliore delle ipotesi, è sordo come una campana e non sa neanche leggere tanto bene le labbra.

Come che sia, in ogni caso, smentisca. Subito, che s’è già atteso troppo.

Il resto, il perché e il per come l’avrebbe detto, per quale motivo abbia agito diversamente, sottigliezze machiavelliche, impalpabili disegni politici, allineamento di armate in vista delle prossime elezioni: tutto questo sono solo chiacchiere e distintivo.

Cesare Stradaioli

 

p.s. opinione squisitamente personale: anche nel secondo caso, dovrebbe dare le dimissioni; un capo del governo che abbia l’improntitudine – o la debolezza, se del caso, nel farsi eteroguidare – di mettere la fiducia su una legge così fondamentale, semplicemente non è adeguato al compito che qualcuno gli ha scaricato addosso. Punto e basta e finiamola qui.

CS

IL LIBRO DEL MESE DI OTTOBRE – Consigliato dagli Amici di Filippo

Da un lato, la fiducia nei fondamentalismi del mercato appare sempre più erosa, mentre appare sempre più chiara la vocazione distruttiva del sistema finanziario. Dall’altro, siamo in presenza di un’Europa che diventa campo di battaglia fra un establishment in bancarotta e nuovi nazionalsimi reazionari. Del resto, quando un sistema è in crisi, lo scriveva Antonio Gramsci novant’anni fa, e viene tenuto in vita a ogni costo, fatalmente esplodono frammenti socialmente morbosi e risolazionisti.

Nel frattempo, la Sinistra latita, perennemente a metà del guado, lasciando così che in  Paesi come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca, sia la Destra estrema a farsi portavoce degli ultimi, dimenticati da un ceto politico che dovrebbe per l’appunto richiamarsi alla Sinistra ed che invece per codardia, appiattimento, interesse personale, preferisce dialogare con l’alta finanza e rappresentanti istituzionali che non necessitano di consenso elettorale. D’altronde, nel corso degli ultimi decenni il concetto stesso di voto, secondo gli Autori, aveva perso di effettivo significato e sono state le Destre a rinvigorirlo, dando vita, in modi e forme del tutto analoghi a quelli tradizionalmente di Sinistra, a mobilitazioni e propaganda che hanno finito col dare un’identità comune (sulla natura della quale possiamo discutere quanto vogliamo, ma è dato di fatto la sua esistenza) a larghe fasce di popolazione escluse dalla partecipazione politica e perfino da un futuro di lavoro e prospettive di benessere.

Ma il paradosso non finisce qui. Mentre, come scriveva Brecht, ‘il nemico si è appropriato delle nostre parole d’ordine’ (in Italia ne sappiamo qualcosa: a guerra appena finita, i fascisti si appropriarono del termine ‘Fronte della Gioventù’, diretta emenazione del pensiero politico di Eugenio Curiel, solo per fare un esempio), scopriamo, dopo anni di slogan e di parole d’ordine tanto mefitiche e insensate quanto quasi mai confutate e contestate nel loro significato (‘ce lo chiede l’Europa’, sempre per fare un esempio), che il liberismo si rappresenta come una costellazione di concetti, più che una dottrina rigorosa, basata su principi logico-matematici.

Ma come può continuare a governare il mondo occidentale, un sistema sostanzialmente basato su frasi fatte? La riduzione del ruolo dello Stato nel governo dell’economia, anche questo basato esplicitamente su petizioni di principio, ha portato a un indebolimento della democrazia in uno dei suoi tratti più pregnanti, vale a dire la funzione, concreta ed effettiva, di indirizzo e regolamentazione dei rapporti sociali. Non è forse stato Scheuble, uno degli uomini politici più controversi degli ultimi venti anni – si dice che perfino l’entourage di Angela Merkel ne tema pareri e reazioni – a dire, con la determinazione che possono avere solo gli uomini di potere decisi a usarlo senza guardare in faccia a nessuno, che le elezioni non possono (il verbo ‘potere’, in tedesco ha diverse accezioni e, in questo senso, il potente ministro delle finanze di Berlino – ma, si dice, anche di Bruxelles – intende: non si devono permettere di) cambiare le linee di politica economica? A fronte di ciò, parafrasando Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di democrazia?

Il problema, sostengono gli Autori, è che non esiste alcun conflitto fra la attuale politica economica della UR e i suoi sedicenti detrattori riformisti. In altre parole, non si vede all’orizzonte alcun progetto, elaboratodalle socialdemocrazie europee, quanto meno di generale cambiamento di politica economica che possa superare il fondamentalismo dei mercati. Purtroppo, in questo favorendo l’insorgenze dei cosiddetti populismi, pare che il ceto politico europeo sia affetto da una grave forma di coazione a ripetere; anni or sono, alla notizia che l’ennesimo cittadino australiano era stato arrestato in Thailandia con l’accusa di detenzione di ingenti quantità di eroina, il ministro degli esteri di allora, Peter Costello, disse: “Ma la gente imparerà mai?” In realtà, questo libro potrebbe intitolarsi “La storia non insegna niente”

Che fare, dunque? Stabilizzare, prima, secondo gli Autori, e poi procedere al cambiamento, che secondo loro potrebbe essere definito un New Deal per l’Europa. Un piano di investimenti per la riconversione ecologica, stabilire un codice di garanzia per i diritti fondamentali dei cittadini, un dividendo di base (inteso come reddito di cittadinanza), e cose del genere. Sono decisioni che aprono certamente la strada a conflitti politici: il fatto è, concludono Marsili e Varoufakis, che senza conflitto non c’è democrazia, in quanto mai niente è stato istituito per gentile concessione del sovrano.

Lorenzo Marsili, Yanis Varoufakis – IL TERZO SPAZIO, oltre establishment e populismo – Editori Laterza – pagg. 132, €14

PENSIERI SPARSI IN VISTA DELLE ELEZIONI

Potrei dire a buona ragione che sentendo pronunciare la parola ‘meritocrazia’ metterei mano alla Colt, se ne possedessi una. E’ un termine che sottende un modo di pensare e di orientare la società e i rapporti fra le persone che mi garba poco, più che altro per l’uso strumentale che di frequente ne viene fatto. In due sensi: uno, prodromico, di critica a un metodo – asseritamente mutuato dal ’68 – che azzerava l’impegno e i miglioramenti, in nome di un non meglio (e mai più qualificato e specificato) egualitarismo; il secondo, logica conseguenza, che si traduce, più o meno nel: beh, avete fatto la bella vita finora, da adesso in poi scordatevelo l’egualitarismo, ed emergano i migliori in nome di un darwinismo sociale che non ha eguali dai tempi in cui Charles Dickens descriveva le terribili relazioni sociali del suo tempo. Che la scuola debba favorire le ‘eccellenze’, è concetto che dovrebbe far venire i brividi, oltre che calpestare la Costituzione.

Detto ciò, è indubbio che quando ci si prende carico di qualcosa o di qualcuno, a maggior ragione se niente e nessuno obbliga a farlo e, anzi, viene motivata la scelta con ragioni personali, affettive, di pensiero e di orientamento politico che non può prescindere dalla partecipazione attiva, ebbene in questo caso è diritto e dovere di chiunque ne sia interessato, direttamente o indirettamente, chiederne conto.

Ora, la narrazione – storytelling, termine che piace tanto ad Alessandro Baricco e ai suoi seguaci: narrazione o narrato devono suonare plebei alle loro raffinatissime orecchie – in voga e in uso al PD renziano (disarcionato dalla guida dell’esecutivo, Matteo Renzi è e rimane la guida del partito, non va dimenticato) è che tutto va bene. Per mezzo di una interpretazione alla vaccinara del pensiero hegeliano, tutto quello che è razionale è PD, tutto quello che è PD è razionale – lo rimproverava Antonino Scalone al PCI, qualcosa come quaranta anni fa, le cose possono solo andare peggio, dicono – le cose procedono per il meglio, chi esce ha torto, chi non capisce ha torto, chi non ci sta ha torto. Facile richiamare Bertolt Brecht e la sua celebre frase intorno all’opportunità di cambiare l’elettorato, non essendo possibile cambiare gli eletti, ma sta di fatto che, facendo davvero i conti della serva, ecco cosa emerge da quando il PD ha conseguito la carica di Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, ricoperta ininterrottamente da Deborah Serracchiani: perso il Comune di Trieste; perso quello di Pordenone; perso quello di Gorizia; verrà perso quello di Udine, dato che il sindaco Honsell non potrà correre per una terza candidatura e non si vedono alternative. Tralasciando, non me ne vorranno, le innumerevoli realtà delle provincie, nelle quali il centro destra o le liste civiche in quel senso orientate la stanno facendo letteralmente da padrone, bisogna dire che 4 capoluoghi su 4 rappresenta un dato che dovrebbe portare a qualche riflessione. Gli elettori dei quattro capoluoghi che erano retti dal centrosinistra, hanno votato a destra. 

Che Deborah Serracchiani non possa – non dovrebbe neanche pensare di averla – avere la faccia di ricandidarsi, è solo la prima considerazione, diciamo una specie di minimo sindacale. C’è gente, nel pubblico e nel privato, che è stata cacciata per molto meno di risultati così sconfortanti. Torni, quindi, Serracchiani da dove è venuta, e dove permanentemente sta: è sempre a Roma a fare il vicesegretario del PD, invece di stare in Friuli Venezia Giulia a fare il Presidente di Regione, carica per la quale si è liberamente candidata, è stata votata, e per la quale percepisce uno stipendio mica da ridere (che, soprattutto e per l’appunto, le viene erogato per fare il Presidente a Trieste, non per fare il vice di Renzi a Roma).

Ma Serracchiani è come l’acqua dell’uccellino: passerà, come la plin plin e nessuno in Friuli si ricorderà di lei – e c’è da augurarglielo: i friulani (più dei triestini, che sono maggiormente fatalisti) tendono ad avere la memoria lunga. Il problema è, tanto per cambiare, del PD e della sua scellerata linea politica.

L’occasione era storica. Una regione tradizionalmente a destra come il FVG a causa di un passato di guerra e la divisione del mondo in blocchi – anche se quello sovietico non cominciava a Nova Gorica, ma dovevate provare a dirlo ai friulani – portavano come logiche conseguenze gli irrigidimenti e le esasperazioni politiche ai rispettivi confini. La divisione di Gorizia in due parti era solo una riproposizione in più piccolo di quella di Berlino, ma non meno significativa, per gli abitanti delle zone circostanti, anche senza muri. Nelle civilissima Trieste, formidabile crogiolo culturale, la piazza dedicata al 25 aprile si trova in aperta periferia, mentre in città vi sono strade e scale intitolate a fascisti interventisti in Spagna e giornalisti dichiaratamente di estrema destra: per non parlare della stucchevole diatriba intorno al significato storico e umano della Risiera di San Sabba (decine di milioni di studenti sanno, almeno per sentito dire, cosa rappresentino Auschwitz, Buchenwald, Treblinka: sarei curioso di contare quante centinaia sappiano che la Risiera è stato l’unico campo di sterminio non situato in Germania e in Polonia) e le foibe. Ebbene, il centrosinistra aveva conquistato tutti i capoluoghi, soprattutto Trieste e la Regione. C’era di che festeggiare e, soprattutto, di cominciare a lavorare sul serio, perché è notoriamente difficile combattere, è difficilissimo vincere, ma quando si è vinto è proprio in quel momento che cominciano i veri problemi. La storia trabocca di esempi di come e perché la sinistra arriva al potere e invariabilmente o quasi, fallisce. C’era da lavorare per il porto di Trieste, zona strategica al massimo livello; occuparsi dei trasporti su gomma e su rotaia; del turismo (il FVG ha mare, collina e montagne, ha una tradizione gastronomica da urlo) e degli scambi con la ex Jugoslavia. Niente di tutto questo e, se è per questo, niente di altro. Ottenuto in qualche modo questo successo elettorale, è stato rapidamente dilapidato. Non tanto a causa delle problematiche intestine all’interno del PD, fisiologiche considerata la sua composizione interna (si era detto anche questo, qualche decennio fa: state attenti agli agglomerati partitici, fare un minestrone e più difficile di quanto si creda), quanto per la rumorosissima assenza del partito dalla Regione.

Serracchiani va avanti e indietro, per sua stessa ammissione: attenzione, non da Trieste per fare qualche puntata a Roma, bensì il contrario e questo pare che le costi la fatica del lavorare in treno. Se ne fosse rimasta in FVG a fare il Presidente, avrebbe senz’altro faticato di meno e lavorato di più e meglio. Esistono anche le videoconferenze, se proprio bisogna metterci la faccia per salvare l’unità del PD. Ettore Rosato, candidato perdente a sindaco di Trieste, prima della vittoria di Rosolini, ha pure preferito l’agiatezza de li colli e il bel clima mite che si vive a Roma, piuttosto che la sferzante bora che arriva dalla Slovenia. Anche lui indaffarato a gestire il PD e a lanciare strali contro chi osa criticare Renzi. A Roma.

Risultato, a proposito di meritocrazia: assenza totale. Mancanza di presenza, di intervento, di azione, di fatti concreti (come, ad esempio, far sentire la propria voce sull’indecente trattamento riservato al FVG da Trenitalia, uno sconcio, e bene lo sa chi prende il treno con una certa frequenza). Infine: gli elettori friulano-giuliani che erano stati indotti a votare PD, anche a causa di precedenti comportamenti di vari assessori regionali e di tutta la giunta comunale triestina, al limite e oltre la schifezza e l’improntitudine, hanno cambiato idea e hanno rivoltato a destra. Tanto per dire una cosa detta e ridetta: scegliete l’originale; anche in politica, diffidate delle imitazioni. Specie se non si fanno né vedere né sentire.

Cesare Stradaioli

INDECOROSI

E’ difficile non essere d’accordo con Beppe Grillo, una volta tanto, per quanti sforzi interpretativi si facciano, quando parla di scaracchio in faccia ai cittadini onesti. La nomina di Pierferdinando Casini a Presidente della Commissione Parlamentare che si occuperà dei comportamenti di alcuni istituti bancari, tristemente assurti alle cronache giudiziarie, raggiunge livelli di indecenza e di mancanza di decoro da lasciare sbigottiti – e non è che se ne sono viste poche, nel nostro Paese.

Come possa essere venuto in mente a coloro che hanno avuto questa brillante alzata di ingegno, solamente di pensare a un uomo che ha la storia che ha, e fin qui va bene, ma che anche e soprattutto è stato genero di Gaetano Caltagirone, vale a dire uno degli imprenditori destinatario di aperture di credito quanto meno fortemente sospette e opache (perché è di questo, anche di questo, che si occuperà la Commissione Parlamentare), è cosa che sfugge a inquadrature logiche.

A voler fare una battuta da scompartimento ferroviario, verrebbe da dire che qualcuno sta lavorando per il Re di Prussia – o, se si vuole, per il Boss di Genova: cioè, qualche personalità che evidentemente un certo peso politico lo deve pure avere, se ha voce in capitolo nelle nomine delle Commissioni, sta cercando in tutti i modi di portare voti al M5S e, in genere, a una qualsiasi formazione politica X, che come portabandiera e parola d’ordine ha il contrasto con l’attuale classe politica, senza operare alcuna differenziazione.

Non si riesce, altrimenti, a capire come sia possibile che a nessuno sia passato per la testa che va bene tutto, va bene che siamo nel Terzo Millennio, va bene che c’è la libertà di opinione (anche se qualcuno se ne approfitta), va bene che termini quali ‘conflitto di interesse’ suonano vintage come ‘serva’, ‘taffetà’ o ‘torpedone’, ma che forse FORSE Casini non era esattamente la persona più indicata per quella specifica nomina.

La spiegazione alternativa, che verosimilmente è la più credibile, è che una tale nomina si spieghi esclusivamente con il disprezzo per l’opinione pubblica, non voglio neppure parlare di distacco dalla stessa – che, mi pare, sia una giustificazione; si spiega con un modo di intendere la politica e l’esercizio del potere che ha le proprie radici nel ‘me ne frego‘, di fascista memoria. Me ne frego di quello che pensa l’opinione pubblica, me ne frego di cosa possono dire coloro che ritengono tale nomina del tutto inappropriata, me ne frego delle inchieste giudiziarie e delle ripercussioni che questo incarico possa avere, me ne frego dell’interesse sociale, me ne frego della stessa idea – pessima – che possono avere di me/di noi. Un po’, se è consentito rifarsi alla memoria personale, quello che disse, una quarantina di anni fa, in piena contestazione politica, l’allora magnifico rettore dell’università di Padova; uomo spiccio, rude, scarsamente incline al dialogo e al prendere in considerazione le opinioni difformi dalle proprie, rieletto per il rotto della cuffia, dimostrò una solida e chiarissima noncuranza per le perplessità che aveva suscitato non tanto il suo nome, quanto la ricandidatura e la rielezione, uscendosene con la seguente risposta alla domanda di un giornalista: “Me ne ciàvo; mì, i voti i go‘”. Per chi avesse scarsa dimestichezza con la vulgata veneta, più o meno, per l’appunto, un me ne frego leggermente più, diciamo, schietto, tanto i voti li ho presi. Suscitò una blanda ilarità. E’ quello che succede in Italia: ilarità. Altrove, una frase del genere avrebbe indotto il Senato Accademico a redarguire severamente il non tanto magnifico.

Qui non si tratta di discutere la persona: Casini, come detto, ha la storia politica che ha, è stato anche Presidente della Camera, vale a dire la terza carica istituzionale e non risulta – o io non lo ricordo – che abbia mai riportato condanne. Tutto bene, tutti d’accordo. Ma: perché, per dire, un marito non può essere giudice in un processo in cui la consorte è pubblico ministero? Non certo perché dubitiamo della loro onestà e imparzialità: diversamente, dovrebbero essere sottoposti a procedimento disciplinare ed eventualmente cacciati dalla Magistratura, anche se fossero perfetti estranei fra loro. Va evitata una qualsivoglia situazione che possa generare dubbi su regolarità, indipendenza, terzietà, imparzialità. Se voglio evitare che una determinata situazione possa far sorgere dubbi di quel tipo, sarà sufficiente impedire perfino i presupposti per la sua verificazione: non è difficile, né da capire, né da fare.

Esistono delle regole, anche non scritte, che impongono alla coscienza di ognuno determinate valutazioni, di opportunità, di buon senso: a maggior ragione in questo periodo storico – lunghissimo, pare alle volte interminabile – di corruzioni, baronie, favoritismi, nepotismi, opacità negli interessi, corruzione, aperte conflittualità fra affari privati che pesantemente interferiscono in quelli pubblici. Insomma: proprio non c’era nessun altro in grado di ricoprire quella carica? Non è da crederci, è impossibile crederlo. Non è consentito chiedere di crederci. E questo sia detto, sarebbe detto anche se fossimo in un Paese dove non si avesse la benché minima traccia di favoritismi o anche di semplice dubbio su questa o quella personalità istituzionale.

Non è segnale di buon uso di raziocinio e di analisi politica (che deve, sempre, necessariamente precedere l’esercizio della scelta; Adorno soleva ripetere come libertà non fosse scegliere fra A e B ma, se proprio non è possibile sottrarsi a detta scelta, quanto meno sapere cosa sia A e cosa sia B, esattamente prima di scegliere) muoversi verso questa o quella opzione politica solo perché quella o quelle che vi si oppongono fanno porcherie. Perché la nomina di Casini è, a tutti gli effetti, una porcheria. L’orientamento politico dovrebbe utilizzare strumenti a sé stanti e indipendenti di giudizio, sempre ovviamente tenendo in debito conto se quelle porcherie esistono e chi le abbia compiute. Ma se ci si stracciano le vesti contro il cosiddetto populismo, sarebbe fare buon governo della propria intelligenza capire chi sia il vero responsabile del declino della politica, da noi e in genere nel mondo occidentale.

Io non me la prendo con imbesuiti cittadini romani che cacciano presunti extracomunitari da una casa assegnata loro dal comune: sono il risultato di decenni di malapolitica e di abbandono da parte della Sinistra; non me la prendo con gli attivisti di Casa Pound: la società civile e la Sinistra lasciano il campo e loro si prendono il terreno abbandonato – politicamente ne hanno tutti i diritti e tutte le ragioni; non ce l’ho con il cittadino del Mid West che elegge Trump: prima delle promesse elettorali del magnate bellicapelli, è stata la decennale scellerata politica del Partito Democratico e la sconsiderata campagna elettorale di Hillary Clinton, ad avere orientato il suo voto, come quello di milioni di altri americani che, tecnicamente e politicamente, starebbero dall’altra parte della galassia, rispetto all’attuale presidenta statunitense.

Inviterei a fare lo stesso, quando registreremo l’incremento delle scelte elettorali, o di semplice protesta (vedi i No-Vax, che peraltro politicamente sembrano tragicamente trasversali): inviterei a prendersela con coloro i quali, con le loro scelte, i loro comportamenti pubblici e privati, la loro strabiliante mancanza di senso civico e politico, con le loro propagande politiche hanno svilito la POLITICA e con essa la coscienza del cittadino medio.

Cesare Stradaioli

PARENTI AGITATI

In Italia si può tranquillamente scherzare – e fare anche di peggio – con i santi e, di conseguenza, anche col Papa, ma i fanti vanno lasciati in pace e con il termine si intende l’Arma dei Carabinieri. Perché solo ad avvicinarsi ai Carabinieri si rischia grosso.

Non è più il tempo delle barzellette sull’appuntato e il maresciallo e delle gare a chi fosse più scemo o ignorante: girano storie un tantino più serie. Molti anni fa, uno dei coinvolti nella retata del 7 Aprile, Mario Dalmaviva, mise a mo’ di prologo di un suo libro quella che a buona ragione potrebbe essere definita una considerazione di alta lungimiranza politica, talmente aneddotica da finire con l’essere discretamente realistica, rivoltagli (così pare) dal solito maresciallo che si trovava a fronteggiare un servizio d’ordine durante una manifestazione degli anni ’70 e che – cito a memoria – suonava più meno così: “Sì, sì, voi manifestate, manifestate pure; tanto, se vincono i vostri, a noi ci tolgono la fiamma e ci mettono la falce e martello e continuiamo a mazzolarvi lo stesso.”

Bisogna dirlo, non siamo poi così distanti dalle battute fra De Sica e Sophia Loren, ma il punto è che quando in qualsiasi cosa c’entrano i Carabinieri, il tutto diventa sfumato, poco chiaro, anfibio. Più spesso, diventa un pretesto per regolare certi conti o sviare l’attenzione. In questo senso pare collocarsi una seria e articolata inchiesta che passa in questi giorni su ‘Repubblica’, con firma prestigiosa. Sfiderei chiunque a farsi un’idea, non dico precisa (non è possibile), ma quanto meno a grandi linee chiara, della vicenda CONSIP e di se, come e perché alcuni appartenenti all’Arma avrebbero in qualche maniera indirizzato e/o sviato delle indagini verso l’allora Presidente del Consiglio, Renzi, coinvolgendo il di lui padre: figura notoriamente, non proprio cristallina: piuttosto discussa, anzi e non a causa dei Carabinieri.

Non vorrei entrare nel merito di un’inchiesta giornalistica su un’indagine giudiziaria: me la cavo agevolmente dicendo di non conoscere gli atti; il che dovrebbe consigliare di fare altrettanto, grosso modo a tutti coloro che se ne occupano, a parte qualcuno. Ma il punto è un altro.

Diciamo che è vero che tale ufficiale dei Carabinieri abbia, colposamente o dolosamente non è il caso adesso, scambiato i nomi: non era il noto faccendiere Romeo a parlare con il signor Tiziano Renzi, bensì un ex parlamentare, se non ricordo male già parte di una compagine governativa, Italo Bocchino. Il quale è, ma tu guarda le coincidenze, consulente del signor Romeo, figura preoccupante nel sottobosco politico e imprenditoriale romano.

Dato che il titolo odierno dell’inchiesta parla di un triplo gioco attorno a Renzi figlio e che, a quanto pare di capire, l’impostazione (non solo di ‘Repubblica, sia detto per inciso) della stragrande maggioranza della stampa nazionale è che qualcuno stesse cercando di infamare Renzi figlio tirando in mezzo Renzi padre, vorrei fare la seguente osservazione.

Può anche darsi. In un passato non troppo lontano e che molti tendono a dimenticare, pezzi dell’apparato statale, inclusi i Carabinieri, hanno agito sottotraccia, ai limiti della legalità e anche oltre e sappiamo bene perché, in quale direzione, tramite quali esecutori politici italiani e agli ordini di chi: non raccontiamoci le favole della buonanotte; ritengo, per dire, che ai tempi fossero rimasti solo Alberto Ronchey e pochi altri a credere sinceramente che la CIA nulla avesse a che fare col golpe di Pinochet in Cile. Per cui, in Italia, non si può in alcun modo escludere che qualcuno volesse attaccare politicamente Renzi, usando la figura del genitore.

Ora, mio padre era un uomo di destra. Rigido, scarsamente portato al dialogo, ma profondamente onesto. Incensurato e, a differenza di Renzi padre, mai sottoposto ad alcuna indagine – men che meno archiviato per bancarotta fraudolenta. Se io, che non ho mai ricoperto alcuna carica pubblica, ma che comunque per quello che può valere, molti anni fa, avanti il Presidente del Tribunale di Padova ho prestato impegno di lealtà, onore e professionalità nel mio lavoro di avvocato per il quale ci metto la faccia anche in pubblico, avessi saputo che mio padre pensionato usava andarsene tre volte a settimana a Roma per parlare con Tizio o Caio, coinvolti o meno in malaffari di qualsivoglia sorta, col massimo affetto di figlio riconciliato col padre dopo anni di conflitto, gli avrei chiesto cosa diavolo andasse a fare a Roma e come gli fosse venuto in mente di parlare con simili personaggi, a nome di chi e perché. Dopo di che, quale che fosse stata la risposta, gli avrei – sempre con affetto – ingiunto di smetterla di frequentare simili personaggi, che con certa gente non si sa mai. Avrei detto lo stesso anche se fosse andato a scommettere sui cavalli, si capisce.

Questo avrei fatto io e come me, nella medesima situazione, moltissime persone dotate di un certo senso civico.

Matteo Renzi, in tutto questo guazzabuglio, pare che non sia mai stato iscritto a notizie di reato e me ne compiaccio. Il che non gli toglie il diritto di pretendere chiarezza in questa indagine che tocca un suo affetto più caro. Abbiamo, però, anche noi cittadini il sacrosanto diritto di pretendere che una figura pubblica, prima di esigere chiarezza fuori casa, mostrasse un minimo sindacale di decenza e di senso delle istituzioni, facendola a casa propria, anche per evitare futuri, sgradevolissimi equivoci. Tenere la guardia alta, insegnano nelle scuole di pugilato: poi, magari, ti attaccano sotto altri fronti, ma meno lati deboli presenti, più credibile sei.

Tengano a bada i cani sciolti al loro interno, le forze dell’ordine, specie se delegate a indagini dalle Procure: tengano a bada i parenti irruenti e inappropriati, i politici che chiedono la fiducia dei cittadini, dovendo essere loro, dal punto di vista della logica, i primi a farlo. Che mettere le mani (e le attenzioni) avanti, può essere talvolta inutile ma, certamente, dannoso non lo è mai.

Cesare Stradaioli

QUALCUNO GIOCA SPORCO

Una regola, a quanto pare universale, del gioco d’azzardo è la seguente: se dopo qualche mano non hai ancora capito chi è il pollo, vuol dire che quello sei tu. Così, parlando di gioco d’azzardo e di chi frega chi, a proposito della notizia – che, ormai, da lungo tempo non è più tale, nell’accezione di ‘novità’ – secondo la quale diverse multinazionali hanno una tassazione vicina alla presa per i fondelli, in quando non sono tenute per legge a pagare le tasse dovute in questo o quel Paese in cui traggono i loro profitti, bensì dove hanno la sede legale, nel nostro tavolo da gioco l’Irlanda, siamo noi cittadini europei in grado di capire, non già chi sia il pollo (lo sappiamo benissimo: siamo noi), quanto piuttosto chi sta giocando sporco?

L’Irlanda fa parte della UE? Direi, a naso, di sì. Siamo tutti fratelli, all’interno della UE? Mah. Partecipiamo, comunque, tutti, a questa benedetta unione, con tanto di moneta comune e chiacchiere di conseguenza? Certamente sì. Allora, vengono alla mente un paio di domande.

La prima: perché l’Irlanda, sottraendo risorse ai Paesi, che se non possono chiamarsi fratelli, quanto meno andrebbero considerati soci, in palese violazione di una minima regola europea, offre asilo finanziario alle multinazionali, in questo non distinguendosi neanche un po’ rispetto ai cosiddetti paradisi fiscali?

La seconda (molto ma molto più banale, ce ne rendiamo conto: al confine con l’ingenuità): perché non c’è nessuno, fra i controllori della UE, così pronti e attenti a sanzionare i cosiddetti ‘aiuti di Stato’ – anche questa qui è bella: uno Stato sovrano viene sanzionato perché fornisce finanziamento a una qualsivoglia attività produttiva di reddito e lavoro  – che si alzi e imponga a Dublino di piantarla immediatamente con questa indecente politica, oltre a sottoporla a severissima sanzione?

Cesare Stradaioli

p.s. ne viene in mente una terza: come sia possibile che milioni, DECINE DI MILIONI, di cittadini europei – non irlandesi, per ovvi motivi: anche a nord di Napoli tengono famiglia – dotati di intelletto, capacità cognitiva e di analisi di cose dette e scritte svariate volte (cose, peraltro, piuttosto semplici: uno Stato dell’unione europea gioca sporco e frega soldi agli altri), oltre che mediamente attentissimi a quanti denari costino quattro migranti, possano prendere questo dato di fatto oggettivo, che le autorità politiche irlandesi neanche si preoccupano di negare ovvero nascondere con bugie più o meno pietose, alla stregua non già di una porcheria che non dovrebbe neanche esistere, ma di una maledizione divina, di una piaga biblica o, più prosaicamente, di un temporale che manda a monte una gita fuori porta e pazienza, cosa ci volete fare, sono disgrazie? 

DI (S) CONTINUITA’ E DI ALTRO ANCOR

La vulgata è più che nota: viene a noia, pure nelle sue diverse manifestazioni. Bisogna essere realisti. I numeri sono quello che sono e la matematica non è un’opinione. La politica è sì l’arte del possibile ma anche quella del compromesso. E via con altre canzoncine.

Vogliamo provare a fare un piccolo excursus della politica italiana, diciamo degli ultimi 30 anni?

Allora. La Sinistra comincia a lasciare andare le politiche di sinistra, le stesse parole d’ordine, non fa più politica di sinistra.

Perde consensi – e vorrei anche vedere: se uno è un moderato, vota i moderati veri, genuini, non i parvenu.

Allora, siccome siamo tutti d’accordo sulla realpolitik, bisogna stringere qualche alleanza locale con il centro e la destra.

Ma così facendo, si perdono consensi anche a livello locale – stesso discorso di prima sui genuini e le imitazioni.

Allora, sempre perché siamo realisti, bisogna scendere a compromessi sia a livello locale amministrativo, sia politico regionale e nazionale. Purtroppo, questo fa perdere ulteriori consensi e fa arrabbiare moltissimo una percentuale sempre più alta di elettori e qualche vecchio/nuovo rappresentante politico.

E così, si va al governo locale, regionale e nazionale, con il centro destra, quando all’interno stesso del PD la componente centrista (sono ex democristiani: le parole esistono, usiamole senza tanti ricami) è prevalente e detta la linea. Realpolitik, si diceva – per la verità, lo dicono nella mitteleuropa; da noi, larghe intese, c’est plus facile.

Continua l’emorragia di voti; allo scopo di farvi fronte, si cerca di pescare voti al centro e, possibilmente, anche a destra. La crisi degli immigrati è un’opportunità favolosa per fare spese a destra. Non funziona. Solito discorso.

Sarebbe il caso di impiegare energie e idee a recuperare gli elettori di sinistra che si sono scocciati e magari anche una fetta del partito di maggioranza relativa nel nostro Paese, gli astenuti. Niente da fare. Bisogna essere realisti e la matematica è quella che è, i numeri sono quelli che sono.

Lo capisce anche un bambino: è un avvitamento orribile per quanto pare inevitabile se non si cambia rotta. La parola discontinuità e il continuo ricorso che se ne fa, senza tuttavia mai metterla seriamente in pratica (c’è sempre un motivo, a volerlo trovare a tutti i costi) fa venire in mente quella signora che viene nominata da tutti ma nessuno se la prende. Un esempio fresco fresco, tanto per non rimanere nel nostro orticello a criticare la sinistra e la sua ottusità? Pronti; per due anni, lo staff elettorale di Hillary Clinton ha ripetuto fino alla nausea “continuità”. E’ finita che il signor Brown, elettore tipico del Midwest, ha pensato: “Continuità? Quindi io continuerò a non trovare lavoro e così mio figlio, le finanziarie continueranno a portarci via le case e per di più i politici di Washington continueranno ad aiutare le banche e a noi ci lasciano indietro? Sai che fo? Voto quell’altro che vuole cambiare queste cose.” Alzi la mano chi seriamente ritenga di avere il coraggio di dargli torto. Anche perché la gara di bruttezza fra le acconciature non è necessariamente appannaggio del magnate.

E’ il discorso di prima: se devo sentire un discorso di destra, voto uno che di destra se ne intende. Servirebbe, per l’appunto, discontinuità. Ma quando Pisapia parla di alleanza con il micropartitino di Alfano, oltre a fare la figura del primo socio che detiene il 49% delle azioni, che si confronta con l’avversario, che pure detiene il 49% ed entrambi corteggiano il terzo che possiede un misero 2%, ciò che lo rende il più forte fra i tre, a parte questo, dove sta la discontinuità? Non sembra, questa, una splendida continuità? Nella sconfitta, ovviamente.

Oggi su ‘Repubblica’ c’è un bellissimo ritratto di Angela Merkel, questa statista – lo è, parliamoci chiaro, sta una spanna sopra tutti i leader europei – nata nella DDR, che quando crollò il Muro era indecisa se iscriversi alla CSU o alla SPD (e qualcuno ancora discute su quanto e come i partiti sono andati assomigliandosi tutti, con il maggioritario!), che ha preso argomenti di sinistra quali uscita dal nucleare, matrimoni per tutti, abolizione della leva obbligatoria, approccio umano al problema degli immigrati (si è portata a casa gli immigrati di serie A, ma questo è un dettaglio che ne rammostra il fondo reazionario) e, molto semplicemente, ne ha fatto delle leggi.

E’ curioso notare come se la Sinistra fa la Destra finisce col perdere consensi, mentre se la Destra abbozza a fare la Sinistra, forse perde qualche elettore di destra ma ne guadagna a iosa a sinistra. Ritengo dipenda dal fatto che a Sinistra c’è una tale fame endemica di giustizia e uguaglianza, che basta poco per prendersi un voto e, in ogni caso, adontarsi per questo che sembra un destino cinico e baro ha la medesima valenza razionale dell’imbestialirsi perché avevamo da tempo programmato la gita al mare o l’ora di tennis al circolo e, dio bonino, piove.

Ma allora: perché la Germania della Merkel fa una legge affinché chiunque possa sposarsi con chiunque che sono cavolacci loro e l’Italia di Renzi e del PD no? Perché bisogna essere realisti. Perché bisogna cercare le larghe intese. Perché bisogna accontentare molti e non scontentare nessuno (mentre altrove chi vince governa e chi perde presenta idee, programmi, leggi, e lo fa mentre sta all’opposizione e non durante la campagna elettorale, quando bisogna essere realisti, perché i  numeri e la matematica eccetera). Perché da noi, come diceva quello, non mancano i rivoluzionari e qualcuno anche con buone idee, ma vogliono fare la rivoluzione d’accordo con i carabinieri.

Cesare Stradaioli