STATISTICHE

 

Ieri Repubblica dedicava due intere pagine (la 2 e la 3), più richiamo in prima, al Rapporto di Reporters SF sulla libertà di stampa, ovviamente picchiando duro sulla vicenda di Grillo. Lo stesso hanno fatto altri giornali.

Ora, che Grillo abbia un’idea della libertà di stampa vicina a quella di Erdogan è un fatto, ma vorrei spendere qualche parola sul Rapporto in sé. Già questo tipo di classifiche mi lascia molto dubbioso, ma adesso ho avuto modo di confermare le mie perplessità: fatalità, proprio ieri mattina ero a un corso professionale tenuto, tra gli altri, da Giuseppe Mennella, ex direttore de l’Unità. Il quale ha definito analfabeti e asini gli estensori del Rapporto sottolineando alcune cose:

–         – La risalita in classifica dell’Italia di quest’anno è dovuta alla assoluzione di Fittipaldi e Nuzzi per la vicenda Vatileaks: peccato che tutto ciò riguardi lo Stato della Città del Vaticano e non l’Italia.

–         – I giornalisti sotto scorta in Italia non sono 6, come dice RSF, ma almeno 15 (dati del Ministero della giustizia).

–         – lo scorso anno l’Italia era crollata in classifica perché «è stata approvata una legge che alza da 6 a 9 anni la pena per diffamazione nei confronti di politici e funzionari pubblici». Legge che non esiste.

–         – precedentemente era di nuovo salita in classifica perché «è stata approvata la legge che elimina il carcere per i giornalisti nel caso di condanna per diffamazione». Legge mai approvata e ancora giacente in Parlamento.

–          Più altre amenità.

La cosa più triste, per il mondo dell’informazione italiana, è che si dia rilievo a minchiate come questo Rapporto solo in base alla convenienza politica del momento.

Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento può visitare il sito www.ossigenoinformazione.it

ALBERTO ANDRIOLI

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2017: FUGA DALLA SOCIALITA’

Su “Il Corriere della Sera” di ieri, Antonio Polito si chiede se la pratica della vaccinazione sia di destra o di sinistra. La questione – che sembrerebbe superata, tanto per cambiare, dall’economia: pare che, alla luce dell’incremento nel nostro Paese di alcune malattiee a suo tempo circoscritte dall’apposita prevenzione, negli USA e in altri Stati sia cominciata a circolare una sorta di messa in guardia rivolta ai potenziali turisti, esortati a fare attenzione che in Italia sono tornate delle brutte malattie; quando si dice la ragione sì, va bene ma quando tocchi i soldi… – appare meno oziosa di quanto non possa sembrare il quesito in sé.

Ora, il vaccino è un’operazione puramente tecnica, compiuta su basi scientifiche, che limitano il loro ambito all’elaborazione di dati oggettivi, i quali difficilmente possono essere sottoposti a uno scrutinio di natura politica; quello che è certo e che dovrebbe essere indiscutibile, è che non sottoporre il proprio figlio alle vaccinazioni è sicuramente di destra. Lo è per un semplice motivo: perché una scelta di questo genere presuppone una considerazione specifica e cioè che la libertà del singolo venga prima di quella degli altri considerati nel loro insieme, secondo la più pretta impostazione thatcheriana secondo la quale, per l’appunto, non esista la società bensì una somma di individui, ognuno per sé, in nome dell’esercizio della libertà personale, anteposta a tutto e a tutti.

E’ noto come Vladimir Il’ic sostenesse che i fatti hanno la testa dura. Nello specifico, i fatti sono insolitamente chiari e semplici; decenni di vaccinazioni hanno portato alla quasi estinzione di alcune gravissime malattie, migliorando la salute e la qualità della vita di centinaia di milioni di bambini; negli ultimi anni, a seguito della diffusione di una tenace opposizione alle vaccinazioni, frutto marcio di una strampalata e mefitica libertà di espressione, per la quale qualunque stupido ha diritto di parola e credibilità su temi che non gli competono, queste malattie hanno ripreso a diffondersi in preoccupante percentuale, riproponendo situazioni che appartenevano alla prima parte del secolo scorso; di conseguenza, ogni singolo bambino non vaccinato – che sarà nel futuro un cittadino non vaccinato – diventa non solo soggetto a malattie che, in non pochi casi, sono mortali se non minoranti in maniera permanente, ma anche un pressoché certo portatore sano, in grado di contagiare e danneggiare altri i quali, per vari motivi che vanno dalla loro debolezza strutturale al fatto di non poter assumere vaccini, rischiano così di ammalarsi.

E’ pertanto una sommatoria di dati di fatto, dotati di teste durissime, a dirci che la mancata vaccinazione si caratterizzi in definitiva come una scelta potenzialmente devastante per la società intera – e non solo per il singolo figlio, che si vorrebbe esente da mai dimostrate controindicazioni causate da questo o quel vaccino.

Si dirà che, una volta stabilito che la scelta antivaccino sia di destra, l’appiccicare un etichetta è e rimane un puro esercizio accademico, se poi non si agisce nel concreto. Verissimo. Sarebbe il caso di cominciare. Con urgenza. Possibilmente da ieri. Perché il movimento anti vaccino, che ultimamente è uscito da circoli ristretti per guadagnare consensi inimmaginabili fino a qualche anno fa, deve essere fermato e le persone che lo appoggiano devono essere ricondotte alla ragione (o, quanto meno, all’osservanza delle norme che regolano un minimo di consorzio civile), prima che il problema diventi più grave di qualche centinaia di turisti in meno. E sotto questo aspetto, il ricondurre alla ragione passa per il dialogo, il confronto: che siano civili e attenti a capire il perché e da dove nascano questi fenomeni che non sembrano durare lo spazio di una moda, ma serratissimi e senza tregua.

Senza tregua contro alcuni mezzi di cosiddetta informazione, in modo tale da finalmente – e si spera una volta per sempre – ridimensionare il vacuo mantra neoliberista di ‘informazione’, per tornare a privilegiare la conoscenza, che è cosa ben diversa e più completa. Non dare spazio, non dare un momento di pausa nel confutare, nel ribattere, nel mettere in chiaro i fatti e rifuggire dal solito, frusto cliché di scambi di opinioni (che NON hanno sempre diritto a pari dignità e rispetto) che poi finiscono regolarmente col diventare risse da curva di stadio. E senza pietà, senza remissione, contro coloro – non pochi fra costoro, la cosa dovrebbe essere stupefacente ma ormai non ci si stupisce più di nulla, anche dei medici, dunque gente che ha studiato, applicando oltre a tutto metodi scientifici nel loro apprendimento e nella loro pratica – che dichiarano di essere contrari non al concetto di vaccinazione in sé, quanto piuttosto alla vaccinazione di massa. Qui la faccenda si fa molto seria, perché la banale considerazione per la quale una vaccinazione o è di massa o semplicemente non è, travalica il rilievo tecnico. Manifestare il proprio pensiero in un simile modo significa essere dotati di un italiano malconcio, approssimativo, sconclusionato, sconsiderato. Ne “Una storia semplice”, prima su carta grazie alla penna di Leonardo Sciascia e poi su pellicola, con lo splendido volto scolpito di Gian Maria Volontè, il professor Franzò esprime un concetto che andrebbe incorniciato e appeso in tutte le aule pubbliche, scolastiche fra le prime: “Vede, l’italiano non è L’ITALIANO: è il ragionare.” 

Non sembra esserci alternativa: opporsi in tutti i modi, con tutti i mezzi allo scialo sociale, al disinteresse per gli altri, allo scollamento che vediamo giorno dopo giorno, all’imbarbarimento (e vada chiamato con il suo nome, perdio!) dei rapporti umani, bestia feroce che si alimenta di paura, neoliberismo, utilitarismo, libero sfogo alle pulsioni più basse e vili in nome della libertà che non è altro che arbitrio da una parte e sottomissione dall’altra. E questa opposizione andrà fatta anche ricominciando dall’italiano. Dal ragionare. 

Che è sempre di sinistra. Per quello che può significare.

Cesare Stradaioli

 

 

 

IL LIBRO DEL MESE DI APRILE – Consigliato dagli Amici di Filippo

Solo in apparenza sono facili e impregnate di ottimismo, le pagine che scrive Raffaele Guariniello, noto alle cronache come il Pubblico Ministero della Procura di Torino che maggiormente fra tanti altri si è distinto per avere condotto indagini su inquinamento, tutela della sicurezza sul lavoro e, più in generale, a tutela della legalità e della dignità di ogni cittadino, nel riassumere la propria carriera.

Lasciata la Magistratura per raggiunti limiti di età – un giorno o l’altro bisognerà mettere mano a questa impostazione mentale che, nelle mani del legislatore, per determinate categorie di lavoro diventa uno sbarramento che definite assurdo è un eufemismo – Guariniello parla di sé e del proprio lavoro come non mai, condensando in un libro quanto nessun cronista è riuscito, in decenni, a fargli dire, anche solo in parte, cercando inutilmente di avere da lui un’intervista.

Lo stile schietto e semplice che permea le sue memorie porta con sè, in effetti, una forte dose di ottimismo: va anche detto come l’A. riveli uno stile sorprentemente lineare, che in qualche modo spiazza il lettore, considerati gli argomenti trattati, e cioè in sintesi decenni trascorsi in un lavoro costante, instancabile, teso a dirigere e coordinare l’attività degli inquirenti in fatti non di sangue e di notevole rilievo mediatico, quali mafia e terrorismo, ma episodi e squarci di vita italiana meno visibili e, di conseguenza, meno ‘visti’ e percepiti: dalle schedature FIAT a danno degli operai e dei sindacati, fino alla vicenda finale della sua carriera in Magistratura, il processo ‘Eternit’, passando per le tragedie della (mancata) sicurezza nei luoghi pubblici – l’incendio del cinema Statuto a Torino – e in quelli di lavoro – quali il famosissimo processo ‘ThyssenKrupp”, seguito al massacro di sette operai bruciati vivi in quella che più tardi venne ribattezzata ‘la fabbrica dei tedeschi’.

Il proprio lavoro come qualcosa di costruttivo e non distruttivo; la profonda empatia verso le vittime, gli ‘ultimi’, quelli senza una voce, i sottomessi; il modo di rapportarsi agli imputati, a maggior ragione se poi diventano condannati, distaccato, perfino comprensivo della loro umanità e privo di qualsiasi accanimento personale nei loro confronti (che richiama un famoso e lontano ammonimento di un celebre penalista, Vincenzo Manzini, che parecchi decenni or sono invitava il pubblico accusatore, se proprio doveva provare odio, a indirizzarlo verso il reato, non verso il reo); la convinzione che dopo la punizione debba seguire una riabilitazione, una secie di remissione in pristino delle cose e delle persone colpite dal reato, tutto questo si connota di ottimismo che, pur ignorando le opinioni politiche di Guariniello (sarebbe comunque da escludere una sua identificazione nella destra, per lo meno nella destra straccione a forcaiola di questi anni), verrebbe da qualificarlo gramscianamente come attributo della volontà: accoppiato, fra le righe, a un pessimismo dell’intelligenza che si avverte emergere di tanto in tanto, quando la narrazione dell’instancabile lavoro di un uomo che ha fatto della professione una sorta di missione (sociale, più che personale, ciò che la rende, per così dire, meno ‘messianica’ e più laica), pare farsi cadere le braccia. Non tanto e non solo osservando con una certa amarezza la gravità, l’abiezione del fatto-reato oggetto dell’indagine, quanto piuttosto l’insipienza e la pochezza morale dei colpevoli, oltre al dispregio da loro manifestato per la convivenza civile, siano essi gli ultimi esecutori o i lontani mandanti di un crimine.

C’è una frase che sembra sintetizzare nel modo più efficace questi umanissimi momenti di sconforto di un uomo tanto duro e intransigente (anche quando portò a giudizio dirigenti e calciatori dell sua squadra del cuore, la Juventus – aveva potere e autorevolezza per delegare ad altri l’indagine) quanto mite all’apparenza ed equilibrato nella sostanza. Nel compiere determinati accertamenti sulla sicurezza di un locale pubblico – proprio a seguito all’incendio torinese che provocò 64 vittime – lui e i suoi collaboratori constatarono che, sì, i responsabili del locale avevano gravemente trascurato le norme di sicurezza, le quali però erano talmente tante, sovrapposte e contraddittorie, “Come se la gran massa di norme che affollano il nostro ordinamento fosse una sorta di via libera per non farne rispettare nemmeno una.”

Amara constatazione, che hanno ben presente nella propria coscienza tutti coloro che praticano il diritto, sia come inquisitori, sia come giudici e infine sia come difensori. A conclusione dei suoi ricordi, l’A. (che, lasciata la Magistratura si è immediatamente iscritto all’Ordine degli Avvocati – quando si dice che la giustizia in cui egli afferma di credere fino in fondo, è una specie di demone che prende e non lascia più) pare volerci esortare a cambiare: cambiare le leggi, renderle più chiare, più semplici; cambiare il proprio e l’altrui atteggiamento verso la società di cui tutti facciamo parte. Facile a dirsi, ma qualcuno lo deve pur dire, prima che il sonno della ragione accompagni tutto e tutti verso un definitivo quieto e intorpidito malessere.

Cesare Stradaioli

Raffaele Guariniello – LA GIUSTIZIA NON E’ UN SOGNO – Rizzoli – pagg. 232, €19

DALL’ASSOCIAZIONE GIURISTI DEMOCRATICI

Sui decreti Minniti-Orlando
Redazione 30 marzo 2017 18:30
COMUNICATO STAMPA GIURISTI DEMOCRATICI SUI DECRETI MINNITI-ORLANDO

30 marzo 2017

 

Con i decreti legge 13 e 14 del mese di febbraio del corrente anno —cc.dd. Minniti-Orlando—, provvedimenti d’urgenza immotivati, il Governo ha adottato misure gravemente riduttive delle garanzie e delle libertà civili e democratiche, da un lato restringendo l’accesso alla giustizia per i richiedenti asilo, dall’altro con l’attribuzione ai sindaci di poteri di ordinanza in materia di ordine pubblico oltre i limiti di garanzia costituzionale.

Da una parte, laddove la nostra Costituzione impone la sicurezza di avere diritto alle cure mediche, a percepire la retribuzione per il lavoro svolto e alla pensione una volta raggiunta un’età avanzata, cioè quella sicurezza dei diritti interesse principale dei consociati, ancora una volta le norme proposte vanno in tutt’altra direzione. Intervenendo sulla “sicurezza urbana”, in perfetta continuità con il nefasto “pacchetto sicurezza” del 2009 dell’allora ministro Maroni (Governo Berlusconi), ci si prefigge tra l’altro di «eliminare la marginalità sociale», di fatto criminalizzando i soggetti più deboli (art. 4, D.L. 14/17) e favorendo il proliferare di nuovi ghetti nelle periferie con il loro allontanamento (c.d. “DASPO urbano”) dai luoghi turistici per tutelare il “decoro di particolari luoghi”. Ancora, si mette in discussione il principio della presunzione d’innocenza prevedendo la possibilità per i regolamenti di polizia urbana di introdurre divieti di accesso a determinati luoghi per chi ha ricevuto una sentenza di condanna non ancora definitiva e si reintroducono norme persecutorie —ma soprattutto dichiarate incostituzionali, come l’art. 75-bis D.P.R. 309/90— con il divieto di frequentare locali pubblici o aperti al pubblico per chi ha ricevuto (anche se minore!) una condanna confermata solo in appello per reati di cui all’altrettanto nefasto Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/90).

Dall’altra parte, mentre la legge di delegazione europea n. 154/14 imporrebbe la revisione sistematica del corpus di norme disciplinante le politiche migratorie e la condizione dello straniero nel nostro Paese —e con essa la protezione internazionale—, incentivando il sistema di accoglienza diffusa, lo scenario prefigurato dal decreto n. 13/17 concernente “Disposizioni per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale” è invece quello di un restringimento delle garanzie. L’esigenza di “assicurare una maggiore celerità ai ricorsi giurisdizionali in materia di immigrazione” si concretizza in  notifiche che non assicurano certezza della ricezione, nella scomparsa del verbale, nella previsione di una semplice udienza camerale anche in assenza del richiedente protezione fino alla non reclamabilità dei provvedimenti. Il decreto legge appare perciò chiaramente, ed irragionevolmente, liquidatorio di istanze che invece necessiterebbero di attenta ponderazione. Se a ciò si aggiunge la previsione dei nuovi Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), con la possibilità di allungare i tempi di detenzione dagli attuali 90 giorni fino a 135 e la facoltà per i Comuni di utilizzare i richiedenti asilo presenti nel proprio territorio in lavori socialmente utili senza compensi in danaro, il quadro è decisamente dei peggiori.

I Giuristi Democratici chiedono perciò alle forze presenti in Parlamento, ostaggio per di più dell’ennesima fiducia richiesta da un esecutivo la cui apparente affabilità nasconde invece una pericolosa arroganza, di non votare i decreti Minniti-Orlando. Chi davvero ha a cuore l’uguaglianza davanti alla legge e intende scongiurare l’instaurazione di un “diritto diseguale” per poveri, emarginati e stranieri non può non avvertire la portata enormemente ed ingiustamente discriminatoria di questi provvedimenti avverso i quali, se adottati, ci impegneremo a condurre tutte le azioni previste dall’ordinamento interno e internazionale.

 

Torino-Bologna-Padova-Roma-Napoli, 30 marzo 2017

ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI

PUBBLICAZIONE

La casa editrice Primiceri pubblica – in libreria e on line dal 19 aprile 2017 – il romanzo di Cesare Stradaioli, intitolato

“I RIFIUTI GETTATELI DOVE LI AVETE PRELEVATI”

Sul sito www.primicerieditore.it si trovano la locandina del libro e la seconda di copertina.

Gli amici di Filippo

FALSE VERITA’

Nella cacofonia di questi giorni, successivi a due bombardamenti in Siria, uno avente come obbiettivo una città, con decine di vittime e centinaia di feriti, il secondo a opera della marina militare statunitense nei confronti di una base militare dell’esercito di Assad, dalla quale si ritiene siano partiti i micidiali ordigni dotati di gas ustionanti, la notizia sensazionale di oggi è che il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro britannico Theresa May, si dicono ‘convinte’ che proprio da quella base aerea – dunque con piena responsabilità del presidente siriano in primis – sia partito il micidiale attacco missilistico al gas nervino. Le opinioni dei due capi di governo fanno seguito a quelli degli esecutivi francese, italiano, spagnolo e così via.

Ora, è necessatio partire da un punto fermo: non ci interessa, non ci deve interessare ciò che pensa questo o quel capo di governo, questo o quel presidente, questo o quel portavoce. Ciò che conta, che davvero è importante, se vogliamo una volta ogni tanto parlare di democrazia senza trafficare in aria fritta, è che quanto di va sostenendo, SIA VERO E COMPROVATO.

A prescindere dal fatto che, in ogni caso, non spetta agli Stati Uniti il compito di dare una risposta militare, quand’anche fosse giustificata e fossero provate le responsabilità del governo che si intende colpire, non essendo stati gli Usa incaricati da alcuna autorità internazionale – e neppure da alcun patto di alleanza con singoli Stati – rimane la considerazione indiscutibile che ci porta a dover prendere atto del fatto che, oggi come oggi, a diversi giorni dal primo massacro e dalla successiva reazione militare americana, non risulti in alcun modo comprovato che del primo sia responsabile la Siria, ovviamente nella persona del suo presidente.

E la cosa gravissima, sotto tutti i profili – umano, politico, strategico – è che dopo tutti questi giorni, con centinaia di occhi che in orbita intorno alla Terra sono in grado di sorvegliare qualsiasi angolo del pianeta, con l’indescrivibile dotazione tecnologica a disposizione quasi di chiunque (che va dal semplice cellulare a più sofisticati sistemi di comunicazione radio su diversi tipi di onde), nessuno è in grado di dimostrare, con qualche straccio di immagine o di suono, quello di cui figure apicali della politica locale e mondiale quali due capi di governo si dichiarano convinte, vale a dire che la responsabilità dell’uso di armi non convenzionali (per non parlare del fatto di avere avuto come obbiettivi dei civili: lo fa anche Israele, ma quello non è sgradito in Occidente, stomaci forti dalle nostre parti) sia da ascrivere ad Assad.

E questo anche mettendo da parte una considerazione, piuttosto elementare se si vuole, e cioè: per quale ragione Assad avrebbe dovuto compiere un gesto così abietto, che non può, per forza di cose, trovare il plauso di nessuno, sulla faccia della terra; quale convenienza avrebbe potuto avere a dare un simile ordine. E non si dica che il fine giustifica i mezzi, che da quelle parti e con certi personaggi, si tratta di pane quotidiano: avesse voluto, per provocare una propria, giustificata e legittima reazione, di qualsiasi genere, uno come Assad non avrebbe avuto alcuna remora a creare uno stato di vera e propria strategia della tensione, all’interno del proprio Paese. Due o tre omicidi ‘facilitati’ – magari di funzionari governativi ma non proprio tanto graditi al Presidente; una o due autobomba nel centro di Damasco ed ecco che l’esercito di Assad, senza far vedere al mondo corpi martoriati di bambini bruciati dal nervino, attirandosi l’esecrazione di tutta la comunità internazionale, avrebbe potuto scatenare l’inferno in maniera indiscriminata, colpendo a proprio piacimento. Ma queste sono altre considerazioni.

Rimane questo, da dire, e da ripetere, fino allo sfinimento: i cittadini europei devono dire ‘basta’ alla prassi secondo la quale il proprio esecutivo si accoda, prono, a questa o quella operazione militare americana o della Nato, con la semplice motivazione di ‘essere convinti’ che le cose siano andate come vengono dette, senza sollevare la benché minima obiezione o riserva o richiesta di maggiori chiarimenti. I cittadini hanno il diritto, il dovere di chiedere delle verifiche; di chiedere che le cose vengano dimostrate e di avere modo e maniera di farsene una opinione, perché la versione che addossa a qualcuno nello specifico la responsabilità di un gesto così orrendo non richiede – per essere dimostrata o confutata – particolari conoscenze in campo economico, finanziario, strettamente tecnico amministrativo e neanche di natura diplomatica. Non è necessario essere esperti militari; non occorre avere particolari competenze.

Gli Usa sostengono che il bombardamento sia partito da quella base? Ebbene, ci facciano vedere i filmati che ne diano dimostrazione. Si vedono talmente tante schifezze in rete e in televisione – ivi compresi i bombardamenti dei droni occidentali in Medio Oriente – che, al confronto, la semplice partenza di bombardieri o di missili diventa qualcosa da far vedere anche ai minorenni.

Non ci sono immagini? Non le avete? Non vi sono prove, visive o testimoniali? E allora non si dica più, dal primo governante all’ultimo dei cittadini, che si è ‘convinti’ della verità che passa attraverso un asettico portavoce, dando patente di autorità (e, quel che è peggio, di verità) indiscussa a uno Stato che ha ben precisi interessi in quella, come in altre zone strategiche del pianeta e che, questo sì, per certo, non fa mistero di usare con disinvoltura e impunità le armi che sovente colpiscono tutto tranne che obbiettivi militari. Ci si opponga in tutti i modi a prove di forza illegittime e immotivate – o, almeno, si faccia il gesto di farlo: basta così poco per salvare un minimo di dignità.

E’, in fin dei conti e a farla più semplice possibile, una questione di coscienza e di onestà.

Cesare Stradaioli

 

FLUSSI E RIFLUSSI

Va detto e ripetuto, a costo di venire a noia, a costo di suscitare fastidio: ogni euro di detrazione fiscale è una risorsa in meno su cui può contare lo Stato; è un passo indietro, è un altro metro di ritirata, a favore della prateria dove pascolano e spadroneggiano i forti, i ricchi, i (pre)potenti. Delle due, l’una: chiunque, a livello istituzionale o di mass media, qui e ora in Italia, in Occidente, argomenti a favore della riduzione del prelievo fiscale sul lavoro o è un imbecille che non riesce a vedere il proprio futuro e quello del nostro Paese oltre il prossimo lunedì oppure (è l’opinione di chi scrive) è – consapevole o meno – a favore della ritirata da parte dello Stato. A favore del cosiddetto ‘Stato minimo’, il cui più fulgido esempio sono gli Usa, dove tutto è privatizzato, dove il cittadino è solo in balia delle più spietate espressioni del capitalismo predatorio, dove la riduzione al minimo di una parvenza di socialità porta come conseguenza un darwinismo sociale che si potrebbe riscontrare, risalendo nel tempo, nell’Inghilterra di cui scriveva Charles Dickens.

Da decenni stiamo assistendo a un vero e proprio delirio organizzato, che parte dalle segreterie dei partiti, passando per il Parlamento, le assisi comunali, provinciali e regionali, fino alla quasi totalità della stampa, che trova riscontro, ascolto e appoggio anche e soprattutto a livello di opinione pubblica: palese e sconfortante dimostrazione di come lo spregiudicato e massiccio predominio dei mezzi di comunicazione possa interferire con i più elementari livelli di ragionamento e di dove possa arrivare un condizionamento privo di qualsiasi scrupolo e professionalità. Che un cittadino qualunque, che vive onestamente del proprio lavoro e che – magari non proprio sorridendo – paga le tasse; che sia costretto quotidianamente a confrontarsi con servizi pubblici sempre più carenti, spersonalizzati e inefficienti – non potendo (a differenza di quelli che vorrebbero smantellare lo Stato sociale) accedere a quelli privati; che ogni mese che arriva fatichi sempre di più a garantire a se stesso e ai propri figli un presente e un futuro dignitosi; che questo cittadino, si diceva, si convinca piuttosto facilmente che sia politica lungimirante e positiva ridurre la tassazione del lavoro, diminuendo i carichi fiscali e le contribuzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, perché in questo modo si rilancia l’economia, si combatte la disoccupazione e si da’ impulso all’imprenditoria, la quale più agevolmente potrà investire con maggiori risorse, equivale a che lo stesso cittadino si convinca che 5 meno 2 faccia 7.

E’ avvilente dover ricorrere ad argomentazioni che per complessità di ragionamento e livelli di analisi si riserverebbero a un bambino di seconda elementare – il quale, con tutta probabilità, capisce meglio e prima del suddetto cittadino medio, il quale anzi non capisce niente adesso ma neanche dopo – per chiarire che meno entrate fiscali significa meno servizi pubblici; che esentare, anche in maniera percentuale, il datore di lavoro dal versare i contributi porterà il lavoratore ad avere una pensione ridotta; che la conseguenza più evidente e chiara di una defiscalizzazione del lavoro porta FORSE a più posti di lavoro, ma è tutto da vedere – e, nel nostro Paese si è già visto a sufficienza: un ceto imprenditoriale per la più parte codardo, neghittoso e familista non ci pensa neppure a reinvestire nell’impresa, nel proprio e altrui lavoro, preferendo di gran lunga una via finanziaria per i capitali risparmiati per gentile concessione statale – che porti benefici allo sviluppo tecnologico della singola impresa.

Va detto e ripetuto chiaro e forte: la riduzione delle tasse, mefitico mantra ripetuto a pappagallo da tutti coloro che non sanno dire di meglio, non hanno argomenti diversi, o più semplicemente non vogliono dire altro, perché E’ PER QUELLO che stanno seduti dove stanno seduti, è un argomento di destra. E’ un argomento fondato e ragionevole solo ed esclusivamente se si concorda con Margaret Thatcher, quando sosteneva che non esiste la società ma solo un insieme di persone, tutte individualmente separate e libere – di soggiacere a quelli che una volta venivano chiamati poteri forti e che oggi, terzo millennio, posso ancora essere chiamati poteri forti, perché questa definizione sintetizza in maniera formidabile un insieme di concetti riconducibili a un sostantivo e un aggettivo non altrimenti e diversamente interpretabili.

La riduzione delle tasse, oggi in un Paese con un’evasione fiscale che è da vergognarsi solo a metterla in forma numerica su un foglio di carta, è arma di distrazione di massa; è argomento vile, stupido, crudele, approssimativo. E’ argomento innervato di un un senso di ineguaglianza talmente bieco e massiccio da faticare perfino a definirlo. Parlare di riduzione delle tasse è rincretinire la gente, indurla a credere che il sole nasca a ovest; è un osceno minestrone di disonestà condita con menzogne, è imbesuimento (termine caro al grande Dario Fo) sparso a piene mani per raccogliere il consenso di un popolo che SI VUOLE SIA BUE, perché solo se è bue può convincersi che minore gettito fiscale sia meglio per tutti, quando invece è meglio solo per pochi. Ed è pure un argomento concettualmente idiota: alla lunga, i cittadini avranno meno disponibilità economica per effettuare spese anche di livello ordinario, con la conseguenza che interi rami produttivi e commerciali (molti dei quali sono i primi evasori fiscali o quelli che chiedono e ottengono sgravi fiscali sul lavoro) non avranno un futuro e dovranno chiudere o svendere.

Allo stesso modo in cui dire e ripetere continuamente, ossessivamente che nel nostro Paese la pressione fiscale è alta, senza aggiungere che è tale perché molti non pagano il dovuto e che la cifra del 50 o del 48 o del 55%, intesa come percentuale del prelievo fiscale è effettiva e pesante solo per coloro i quali le tasse le pagano davvero, o perché ne sono convinti o perché gli tocca e non se ne possono sottrarre, è disonesto, è giocare sporco: certo, il carico fiscale non è alto e non è del 50%  – se mai, dello zero o poco più per cento – per gli evasori fiscali, totali o parziali. Il fatto è che menzionare l’invasività fiscale senza immediatamente dopo chiarire che è così solo perché qualcuno non fa il suo dovere di cittadino, è solo bugia, punto e basta.

Nel terribile quanto memorabile monologo che interpreta in “Quinto Potere”, parlando di quali siano i reali valori di una società basata sul mercato, Ned Beatty da’ voce ed espressione a un personaggio che parla del denaro – parla di potere, in realtà – in termini di flussi e riflussi: va di qua e va di là, ma come l’acqua in una bacinella spostata a piacimento a destra e a manca il livello si alza e si abbassa, ma la quantità sempre quella è. E se la si riduce, si può anche nuovamente alzare la bacinella e notare che da un lato il livello è più alto: peccato che in quello opposto si abbassi fino a scomparire. Sotto questo punto di vista, criticare l’inefficienza statale, la qualità dei servizi pubblici, i tempi di attesa, le lungaggini, l’abbrutimento dei rapporti Stato-cittadino, senza fornire la principale spiegazione di tutto ciò, vale a dire che meno soldi, meno entrate fiscali per forza di cose significa meno efficienza e più attesa, meno qualità e più disservizio, è argomento che in uno Stato normale non meriterebbe commento.

Invece i commenti vanno fatti. Vanno ripetuti. Vanno detti e ridetti, scritti e riscritti e scritti nuovamente. Insistenze, le chiamava Franco Fortini. Perché in questo, come in altri aspetti della vita di un consorzio civile, tacere è complicità: senza scuse, senza attenuanti, senza ‘se’ e senza ‘ma’.

Cesare Stradaioli

IL LIMITE E LA PAZIENZA

A concordare con il detto marxiano, secondo il quale quando la Storia si ripete, da tragedia muta in farsa, la famosa battuta del principe de Curtis, ‘ogni limite ha la sua pazienza’, è meno stralunata di quanto possa sembrare. In effetti, vi sono circostanze della vita – di ognuno singolarmente o presi tutti come collettività – che comportano tali e tanti pesi, oneri, sofferenze, rinunzie, avvilimenti, da portare ognuna in sé un certo livello di sopportazione, oltre al quale non è possibile andare, neanche sotto la massima coercizione. E non tanto e non solo perché superare quel livello non sia possibile dal punto di vista morale – ché, sotto quel profilo e in linea di principio, la parola ‘impossibile’ non esiste – quanto piuttosto perché dal più immediato e concreto punto di vista materiale, prima o poi si giunge a un passo in cui i numeri, le statistiche e la forza di volontà ci pongono di fronte a un muro invalicabile.

E’ un po’ ciò che significa il detto comune, per il quale alla gente si può rompere le scatole fino a un certo punto e poi basta: in Urss, teoricamente, la vodka era fuori mercato e non ne era possibile l’acquisto se non nei ristoranti i quali, all’epoca, per ragioni economiche non erano accessibili al cittadino sovietico medio, bensì solo ai turisti. In pratica, nel baule di un taxi su due – lo sapevano anche i bambini dell’asilo, inclusi i figli dei funzionari di partito – si trovava una vera e propria rivendita di alcolici e i primi a servirsene erano gli appartenenti alla milizia che regolava il traffico. Perché, proprio in omaggio a quel detto volgarizzato, oltre un certo limite non si può andare.

E’ da chiedersi dove si situi la pazienza di ognuno rispetto al limite in cui sono arrivati povertà, disoccupazione, sistematici bombardamenti in merito all’Europa che vuole questo, il fatto che qualcuno ha deciso che non si debbano infastidire i mercati, la procedura di infrazione che a settimane alterne si sta predisponendo verso il nostro Paese (questa di sanzionare con una multa un Paese che per questa o quella situazione disattende un impegno europeo per mancanza di fondi è una trovata che definire idiota è dire poco – e poi dicono che uno si butta a destra, sempre per citare Totò…), la totale perdita di prospettive future specie per le generazioni più giovani, l’incubo del trovarsi senza lavoro passati i cinquanta, i programmi televisivi che si può non esitare a definire criminali, quando non sono assordanti chiacchiericci autoreferenziali, l’assordante e ammorbante invasione pubblicitaria che ci insegue in ogni angolo più recondito delle nostre vite, spesso preceduta e seguita da ignobili (per fattura e volume) combinazioni di suoni difficilmente definibili come musica, che un tempo erano circoscritti agli ascensori e cose del genere.

Bisogna stare attenti a trattare di simili argomenti: alquanto labile è il confine fra la sacrosanta denuncia civile e la conversazione da scompartimento ferroviario, che assimila tutto al fatto che non ci sono più le mezze stagioni, qui una volta era tutta campagna, la gente non ha più voglia di lavorare e la politica è sporca e tutti rubano. Ma è proprio la banalizzazione forzata, spesso a opera di mezzi di comunicazione e informazione che da cani da guardia contro gli abusi del potere ne sono diventati cani da compagnia, che tende a comprimere nell’ambito della chiacchiera frusta e individualista ogni legittima istanza di opposizione, a costituire una gravissima limitazione del diritto di ognuno a dissentire e a fare valere tale dissenso – ché, se rimane dentro un bar o fra le quattro mura di casa, finisce esattamente per diventare chiacchiera che lascia il tempo che trova.

Fanno male, i rappresentanti istituzionali, anche quelli scarsamente dotati di onestà e senso dello Stato, a sottovalutare tutto ciò. Fanno male a trascurare un malessere talmente profondo e diffuso da quasi non riuscire ad avere un termine per essere definito, come se si trattasse di dare uno specifico nome e colore all’insieme cromatico che emette un caleidoscopio.

Fanno male perché quando l’ultimo o più importante limite avrà messo in chiaro a che livello si trovi la relativa pazienza e questa sarà raggiunta, dato che sul come si gestisce il malcontento la dittatura dispone di notevoli mezzi e intelletto, mentre la democrazia (o qualcosa che le somigli, almeno in copertina) sul punto è, strutturalmente, a corto di idee e mezzi, si creerà un cortocircuito socioeconomico rispetto al quale non basterà più agitare lo spettro della Repubblica di Weimar.

La Storia, che nella dimensione di ognuno può anche essere scritta con la ‘s’ minuscola – poco cambia – si ripete continuamente e con la propria, porta con sé la ripetizione stanca e vuota di quelle che vorrebbero essere risposte di carattere istituzionale e che, per contro, non sono altro che frasi prive di concreto significato, sia come spiegazione di quello che accade sia, soprattutto, di cosa si possa e si debba fare per provi rimedio – se rimedio vi è. Per cui, ecco che di colpo stampa e politica si accorgono che dei voucher vi è stato un vero e proprio abuso; che il PIL è un insieme di valutazioni che può dare una seria e attendibile indicazione – per oggi – solo fra 10 anni e che, quindi, riportarlo come una notizia di adesso è pura mascalzonaggine; che le case crollano perché l’Italia è una zona geologicamente a rischio (ohibò e chi l’avrebbe mai detto:, ma lo è anche il Giappone, però lì costruiscono in modo diverso e non si può certo dire che abbiano densità abitativa inferiore alla nostra; ecco che vi è la legge Severino che impone la decadenza di un parlamentare condannato in via definitiva oltre una certa pena, però non è proprio così (vedi il recente caso del senatore Minzolini); ecco che si scopre, con regolare ripetizione appunto, che le privatizzazioni di questo o quel servizio portano a) l’aumento dei costi, b) il taglio del personale addetto, c) spersonalizzazione dei rapporti con l’utente che rimane solo e d) un servizio peggiore, riservato nella sua parte migliore solo a fasce più abbienti o convenienti per gli azionisti – mi si trovi UN cittadino che preferisca l’allucinante, maleducata e predatoria giungla telefonica di adesso al paternalistico e un po’ lento e scalcagnato (ma non avevano la tecnologia di questi anni) monopolio SIP del tempo che fu o che non rimpianga le FS che lo chiamavano per quello che è, cioè passeggero, invece di ‘cliente’ come accade con Trenitalia; ecco che puntualmente giunge l’allarme evasione fiscale, subito rintuzzato da quello terrorismo o populismo. E via discorrendo, di problema in problema, di banalità in banalità.

Fanno male, si diceva, i politici a sottovalutare l’esaurimento della pazienza dei cittadini. E sbagliano anche gli intellettuali, le grandi firme del giornalismo e della cultura. Male incoglierà anche a loro. Perché, questa è la mia opinione, ci stiamo pericolosamente avvicinando a un momento in cui il limite avrà eroso la pazienza e nel momento in cui qualcuno – singolo o gruppo che sia – senza bisogno di carri armati o di irruzione delle aule parlamentari (cose del tutto improponibili, oggi come oggi in Europa – in compenso i mass media sono già stati quasi del tutto colonizzati da una specie di pensiero unico), si presenterà come unica guida credibile del Paese e imporrà una sorta di legge marziale qui e là edulcorata e adatta ai tempi, troverà decine di milioni di cittadini residenti in Italia che lo sosterranno; che diranno ‘era ora’; che approveranno, perché ‘finalmente qualcuno ha il coraggio di agire’.

Quel giorno, le innervature democratiche di questo Paese, per come le conosciamo, cesseranno di avere effettività; rimarranno lì, a fare bella mostra di loro stesse e della loro totale ininfluenza. Il tutto con l’approvazione di una gran massa di cittadini, impauriti, incattiviti, delusi, avviliti, senza speranza, resi ciechi da odio e propaganda, pronti (e come biasimarli?) ad abbeverarsi a qualsiasi fonte faccia promesse a voce alta e senza contraddittorio.

Quel giorno, i rappresentanti istituzionali e della cultura saranno afoni e i loro volti diverranno grotteschi, nella consapevolezza di non avere più voce in capitolo per chissà quanti anni. Parleranno, per dire le stesse cose che ripetono ora e per questo motivo saranno senza una voce, senza una lingua.

Quel giorno comincerà qualcosa di nuovo eppure già accaduto: legge e ordine, disciplina e allineamento al pensiero corrente, temporanea rinuncia a una certa porzione di diritti in cambio di sicurezza, lavoro, certezza e libertà: il tutto a scapito della vita di qualcuno e della dignità di tutti.

E’ già successo, in Italia e in Europa. E’ la Storia che si ripete diventando farsa, perché un manganello è molto più serio di una buffonata televisiva – ma quest’ultima è infinitamente più moderna ed efficace, data la sua capacità, a differenza del desueto aggeggio, di bastonare un numero infinito di teste con un solo colpo.

Quando il limite raggiunge la pazienza, la consuma e dichiara la Ragione vecchia, fuori moda e non più in grado di presiedere la società e con essa il dialogo, il confronto, la solidarietà. Quel giorno, in nome di una democrazia fasulla e di un concetto semplicemente ridicolo e svergognato di libertà, sarà perfino consentito di dire: “Noi l’avevamo detto.”; tanto, nessuno presterà attenzione.

Cesare Stradaioli

ANNIVERSARI

Ieri, 11 marzo 2017, erano quarant’anni dall’assassinio di Pierfrancesco Lorusso, fucilato alle spalle in via Mascarella a Bologna, durante una manifestazione.

Non se n’è ricordato nessuno.

Triste Paese che si restringe.

Cesare Stradaioli

POLITICI (E) CRIMINALI

Un qualunque esperto di armi sa che la vittima di un colpo di fucile da caccia, nella migliore delle ipotesi perde un arto: e se il colpo non è immediatamente mortale, nella gran parte dei casi porta a un’emorragia talmente grave e diffusa da lasciare pochissimo margine di sopravvivenza.

Ora, quando un cittadino acquista un fucile da caccia, è o dovrebbe essere edotto ed esperto da prendere quel minimo di precauzioni – mai tenere il colpo in canna e cose del genere – tali da lasciare margini quasi inesistenti a un possibile incidente. Questo, nel caso intendesse utilizzare l’arma al solo scopo per il quale viene costruita, vale a dire l’attività venatoria. Se, invece, si vive in casa con la riserva mentale che, in caso di necessità, l’arma possa essere utilizzata anche ad altro scopo, allora il discorso è del tutto diverso, al di là di quello che ognuno pensa della caccia.

Nel diritto penale esiste un particolare aspetto che studia e regola un comportamento che porta a una conseguenza non direttamente voluta, ma ragionevolmente prevedibile: si tratta del cosiddetto dolo eventuale. Il classico caso di scuola, che si trova in qualsiasi manuale di diritto penle, è quello della persona che viene disturbata in ora notturna dal chiasso provocato dal sottostante bar frequentato da persone che non rispettano il riposo altrui. Il Tizio, denominato per l’appunto Tizio, esasperato, non avendo avuto esito le richieste di fare silenzio, afferra un vaso da fiori e lo getta dalla finestra: tre piani più sotto, il vaso da fiori colpisce uno dei rumorosi avventori che muore per il trauma cranico. E’ evidente che il signor Tizio, cittadino irreprensibile ed incensurato, non desiderasse la morte del cliente del bar e che con il suo gesto, per quanto poco urbano, intendesse solo fare valere il proprio, legittimo, dirittto al sonno, spaventando un po’ gli screanzati nottambuli: ma, avendo gettato in preda all’ira un pesante oggetto, senza sincerarsi di fare solo paura e non fare del male a nessuno, non potrà certo dire che tutto si sarebbe aspettato tranne che di colpire qualcuno. E’ dolo, ma indiretto: non volevo, ma mi sono assunto il rischio che potesse accadere con ragionevole prevedibilità.

Ecco che, allora, il ristoratore di Casaletto nel Lodigiano, al fine di impedire che qualcuno rubi a casa propria, non avendo né tempo né opportunità di chiamare la forza pubblica, ritiene essere suo diritto impugnare un’arma altamente micidiale come un fucile da caccia e, non limitandosi a brandirlo come minaccia, lo carica (o lo tiene carico da prima, poco cambia) e spara, uccidendo uno dei ladri. In base non solo alle conoscenze di esperti, ma anche a quello che può essere un ragionvole livello di immaginazione di ciascuno di noi, tutto potrà dire e tutto gli sarà consentito di dire, tranne che mai più si sarebbe immaginato che un colpo di fucile da caccia potesse provocare la morte di un essere umano.

La giustizia si occuperà del destino di questo signore, per il quale umanamente provo molta pena: ha già ricevuto e riceverà solidarietà da svariate persone, le quali tutte hanno in comune fra loro – e di diverso da lui – che ogni prossima notte non dovranno ricorrere a tranquillanti per prendere sonno, con la coscienza di avere ucciso un uomo. Che, poi, il bottino fosse un sacco di sigarette o soldi o gioielli, del mio punto di vista non cambia. Criminale non è lui, povero disgraziato incattivito come questa società, il quale pure dovrà subire conseguenze giudiziarie e neppure quei quattro morti di fame che hanno lasciato per terra uno di loro solo per aver cercato di rubare delle sigarette: criminali sono tutti quei politici che inneggiano all’autodifesa e coloro che ideano, producono e dirigono indecenti programmi televisivi criminogeni.

Criminali sono rappresentanti di partito, figure istituzionali e firme del giornalismo che giustificano la loro miserabile esistenza e la loro ancora più vergognosa prebenda pagata dal contribuente basandosi sull’ingenerare paura, ansia, rancore e odio nella cittadinanza, alimentando furore e disprezzo verso l’altro, inoculando nella popolazione giorno dopo giorno, anno dopo anno, articolo dopo articolo, speciale tv dopo speciale tv una malattia terribile e invasiva che rende le persone cieche e sorde a quei minimi richiami di civilità e di convivenza e che arriva a giustificare l’uso delle armi, anche a costo di togliere una vita, per difendere la ‘roba’, di verghiana memoria. E l’aspetto più orribile e grottesco del tutto e quasi tutti costoro si proclamano difensori della vita e della famiglia, nello spendere il proprio nome contro l’aborto o contro la libertà di coscienza di tutti quegli sventurati come Eluana Englaro o l’ultimo disgraziato dj che a causa loro sono stati costretti a scappare, nascondersi, rifugiarsi altrove, dove la civiltà non è un concetto un tanto al chilo.

Criminali sono tutti coloro che urlano, animali bavosi da schermo delle disgrazie, che berciano, che straparlano di diritto alla proprietà da anteporre alla vita di una persona e poi, nel privato e nel pubblico brandiscono la propria religiosità andando a difendere la famiglia contro i gay o presentandosi in chiesa la domenica appena appena ripuliti con una cravatta da quattro soldi e male annodata, col culo lavato di fresco e la coscienza lurida a fare da testimoni contro satana per il proprio figlioccio. Criminali sono LORO, che rimestano nella parte peggiore della coscienza sociale, additando lo straniero, il ladro, l’extracomunitario come il vero e unico responsabile della precarietà della vita e delle sofferenze altrui – ché le loro sono garantite da un sistema marcio e autoreferenziale; che cavalcano ogni possibile infelicità presentandosi come unici fra tutti in grado di garantire sicurezza e serenità, quando le loro altrimenti inutili e disgustose esistenze sparirebbero senza lasciare traccia nemmeno all’interno dei loro nuclei familiari, se non regnassero insicurezza e ansia, da loro stessi alimentate e sfruttate.

Ecco un altro cittadino qualcunque che ammazza un uomo qualunque. Fra pochi mesi il tutto sarà dimenticato, a parte le conseguenze processuali per il ristoratore, che magari vivrà il suo quarto d’ora di notorietà (che maledirà, c’è da scommetterci una cifra, se è la persona normalmente sensibile che sembra essere), per poi rimanere da solo con la coscienza di avere spento una vita: solo, lui, come tutti gli altri cittadini che al calar del sole si barricano dentro casa, dietro un muro di cinta, lasciando fuori il cane da guardia e le proprie coscienze – e molti di loro anche la propria cristianità e tanti saluti all’amore per il prossimo e alla carità – preferendo tenersi sotto il cuscino un’arma da fuoco, fino a quando accadrà nuovamente che il prossimo esercente si stupirà del fatto che la propria arma abbia ucciso qualcun altro, ignorando la logica elementare che se un’arma non c’è, difficilmente parte un colpo.

Perché, no, signora Giorgia Meloni, nessuno deve avere il diritto di uccidere se qualcuno entra in casa per rubare. Esiste un codice penale – scritto da un Guardasigilli con il quale lei reclama qualche identità di vedute, ma che al suo confronto pare un illuminato pensatore libertario – che stabilisce precise norme. Troppo importanti per essere lasciate in balia della decisione e del voto di gente come lei.

Poi ognuno se la veda con la propria responsabilità, ma si abbia almeno la decenza di dare nome e cognome precisi ai veri, autentici criminali che appestano il nostro Paese – nel quale sono nati, cresciuti e (evidentemente) malissimo educati alla civile convivenza.

Cesare Stradaioli