SPETTACOLI E BUFFONI

E’ davvero indecente lo spettacolo umano e politico che offre il Partito Democratico. La svolta costituita dall’esito del referendum, del 4 dicembre, lungi dal produrre riflessioni, autocritica, quanto meno l’abbozzo di un’apertura verso altre, diverse problematiche che affliggono il nostro Paese e, più in generale, la politica mondiale, si sta sostanziando in un’alternanza di comportamenti e dichiarazioni che denotano una pochezza individuale e collettiva della dirigenza di quello che dovrebbe essere il partito guida del Paese e della Sinistra – o di ciò che ne resta.

Ma non poteva che essere così. Ci sono momenti nella vita, in cui rivendicare che questa o quella cosa la si era già detta o preconizzata anni addietro, dà solo un senso di avvilimento che rischia di rasentare l’indifferenza. Oggi sentiamo Massimo Cacciari sferzare la natura stessa del Partito Democratico, nel definirlo un’improbabile – per non dire impossibile – tentativo di fare convivere due anime, una di ex democristiani e l’altra di ex comunisti: e bella scoperta! E ci voleva l’ammuina della cosiddetta scissione, per capirlo? Un indigeribile minestrone di culture, esperienze politiche e umane, idee, radici, ideali, aspirazioni talmente diversi, antitetici e inconciliabili, che solo menti confuse o lucidamente tese a giungere a una falsa ingovernabilità, per mettere la politica in un angolo e lasciare campo libero e indiscriminato all’economia di mercato, potevano avere concepito.

In definitiva, i rivolgimenti interni al Pd non sono altro che una quasi totale capacità di parlare la medesima lingua; non si tratta di differenti posizioni o strategie all’interno di un progetto con finalità comuni, dove si decide (congresso o meno) il programma tramite il qual raggiungere queste finalità, bensì di vera e propria incomprensione dovuta a diversità di linguaggio e, ancora una volta, non poteva che essere così, perché avere idee diverse è legittimo e auspicabile, mentre molto meno auspicabile è ficcarle a forza, tutte insieme, all’interno di un progetto che, per definizione, non può essere lo stesso e che, pertanto, non può puntare a medesimi risultati.

Questo è il partito ‘liquido’ che sognava – e che purtroppo ha visto realizzarsi – Veltroni; questa è l’alternativa al dirigismo, ai politici di professione; questo è, come quasi vent’anni fa lo definì Filippo Ottone, l’arrivo al governo del Bar Sport. Ma questo spettacolo indecoroso è niente, a paragone del baratro scavato fra i cittadini e i rappresentanti istituzionali. Uno spaventoso deficit di rappresentatività, che però non garantisce la governabilità, parola ormai sputtanata quasi quanto ‘libertà’ – serve ancora, ripetere che il fascismo e il nazismo, come di regola pressoché tutti gli Stati autoritari, fossero in grado di garantire un eccellente livello di ‘governabilità’? – è il vero stigma di questa stagione di vera antipolitica, che sembra non finire mai e peggiorare sempre.

Premono urgenze quali lavoro, disoccupazione, scuola, immigrazione, povertà, disorientamento sociale, abbruttimento e incarognimento delle persone – per non parlare dell’ancora lontanissimo raggiungimento di livelli appena accettabili di decenza sociale quali il testamento biologico – e il ridicolo balletto delle scissioni ma non tanto, delle alternative però vediamo, dei programmi che dipende da, non fa altro che rappresentare la miseria di una assoluta carenza di pensiero e di visione politica. La forma partito è sbiadita, ma ancora non ha raggiunto (e nel nostro Paese difficilmente la raggiungerà) la forma movimento di opinione; e così ci troviamo delle incompiute, senza i pregi ma con tutti i difetti di quello che erano e di quello che vorrebbero essere.

L’irruzione ai livelli della rappresentanza politica dell’uomo qualsiasi (uomo qualunque è brutta definizione), del cittadino onesto, non compromesso fa il pari con quella solenne idiozia che sono le primarie all’italiana. L’onestà al governo genera solo immobilismo, incompetenza, indecisione, soprattutto mancanza di capacità di confronto, logica conseguenza della mancata preparazione al dialogo con le opzioni diverse, in definitiva, il facile ricorso alla via sbrigativa del ‘non c’è alternativa’, quando la costante ricerca dell’alternativa è uno dei tratti più importanti e preziosi della politica. L’arrivo di diversi rappresentanti del M5S alla guida di istituzioni pubbliche e i disastri che, per la più gran parte delle volte ne sono scaturiti, è la più pregnante dimostrazione del fatto che l’onestà è indispensabile, ma non può in alcun modo essere sufficiente a praticare la politica. Basti pensare a quanto sta accadendo al Comune di Roma e mi pare che si possa affermare di avere detto tutto, in proposito.

Quanto alle primarie, è quasi incomprensibile come una tale buffonata possa essere stata conculcata nelle menti dei cittadini, praticamente senza colpo ferire, come se tutti i rappresentanti politici – escluso Berlusconi, il quale alle primarie non pensa neanche per sbaglio, ma per ragioni tutt’affatto diverse – fossero stati folgorati da questa brillante trovata che dovrebbe, secondo l’intendimento di chi le ha importate dagli Usa (dove si svolgono per ragioni e in contesti del tutto differenti), garantire una maggiore partecipazione dei cittadini alla scelta dei candidati nei quali si identificano.

Attendo da tempo che qualcuno mi spieghi il perché le primarie dovrebbero dare questa garanzia. Al di là del mercimonio delle tessere, acquisite come se fossero biglietti presi dai bagarini (con la differenza che i soldi li prendono in luogo di darli e, a proposito di Stati Uniti, lì se uno compra voti per le primarie finisce in un carcere federale, mentre da noi viene intervistato e, d’altra parte, come stupirsi di questa forma di disonestà, in un Paese in cui la questione morale e il cancro della corruzione sono quotidiano oggetto di indagini, processi e spettacolari quanto inutili analisi televisive) per portare voti a questo o quel candidato, l’equivoco di fondo consiste nel fatto che, in ogni caso, i cittadini elettori votano un nome che si trova in una rosa pur sempre compilata dal vertice del partito. Sarebbe QUESTA l’alternativa rappresentativa alle decisioni di un comitato centrale, di una segreteria, di una direzione davvero politica?

Nella città dove passo la maggior parte del mio tempo, Padova, fra qualche mese si terranno le elezioni per il prossimo sindaco. Mentre la Lega corre con un candidato forte, lui sì fortemente rappresentativo, il suo principale concorrente, tale signor Giordani, definito onesto e capace – me ne compiaccio: vorrei anche vedere che non fosse così – compare sorridente nei manifesti elettorali senza alcun segno identificativo. Pare che sia sostenuto dal Pd e da un imprecisato e non esattamente qualificato numero di liste civiche di destra (a proposito di orrendi minestroni): ma nei manifesti che lo presentano e che invitano a votarlo, non esiste alcun simbolo di partito o movimento. Giordani e basta – neanche il nome proprio.

Questa è la conseguenza di una doppia, micidiale operazione che, da un lato, in una sistematica operazione di personalizzazione esalta il singolo, il capo, l’uomo forte che dirige e, dall’altro, spersonalizza il concetto di politico, portando a votare la persona e non il suo ideale, il suo progetto, la radice politica dalla quale lui e il suo programma scaturiscono; in tal modo, poco o nulla conta il simbolo, anche perché si danno alleanze – spudoratamente strumentali alla divisione dei poteri e dei denari all’interno di un’amministrazione – che una ventina di anni or sono sarebbero state definite semplicemente intollerabili e impensabili, le quali per il solo fatto di generare apparentamenti che definirei contro natura, non possono neanche averlo, un simbolo comune identificativo.

Vorrei chiedere al mio giornalaio, ai miei vicini, alla gente che incontro tutti i giorni, se sanno chi sia, se lo votano e per quale motivo. Vorrei chiedere loro se preferiscono questo modo di mandare qualcuno a ricoprire la carica di sidnaco o se non troverebbero più consono un dibattito politico che preceda e produca una candidatura, preferibilmente designando un nome che sia disposto, prima di ogni altra cosa, alla collaborazione e a fare gioco di squadra con la sua compagine amministrativa e non a puntare al successo personale, mettendoci la faccia, come ripeteva buffonescamente qualcuno che poi, presa su quella faccia la sberla dell’esito referendario, continua a mettercela, invece di tenerla a casa, mantendendo – tanto per cambiare – una promessa fatta.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI MARZO – Consigliato dagli Amici di Filippo

 

Si tratta di un’opera che richiede un particolare approccio e una lettura attenta e meno frammentata possibile e non c’è modo migliore di illustrarla che rifarsi al capitolo finale, che ne costituisce una sorta di summa.

Con freddo distacco e minuziosità di analisi che sfiora l’asettico – tipico di una mentalità strettamente analitica di matrice orientale: l’A. è cittadino statunitense di origine indostana – Arjun Appadurai è dell’opinione che la crisi economica che tutt’ora ci affligge, partita nel 2007-2008, sia necessaria conseguenza di un vero e proprio cedimento linguistico, prima che finanziario. Per la precisione, il cedimento è da ricondursi al termine linguistico che comunemente chiamiamo ‘promessa’: che, per mezzo del semplice fatto di essere enunciata, crea la realtà alla quale fa riferimento.

Il punto nodale della questione è costituito dal fatto che la parola ‘promessa’ è non solo un termine che indica un fondamentale modo di regolare ordinari rapporti fra le persone (i quali, per il fatto stesso di relazionarsi alle interazioni ‘ordinarie’ fra individui, sono sprovvisti di sanzione legale in caso di mancato adempimento di quanto viene promesso), ma è nel contempo la ragione stessa di essere dei contratti che vengono stipulati e disciplinati dal diritto civile.

La tesi dell’A. si fonda sull’analisi del concetto di ‘derivati’, il cui mercato è strutturalmente basato su una concatenazione di promesse in pacchetti caratterizzati da un tasso di rischio sempre maggiore, teoricamente reiterabile all’infinito – e già questo concetto fuoriesce in maniera dirompente dalle regole del diritto civile. La degenerazione di questo rischiosissimo sistema finanziario, gli swap (strumento inventato da un finanziere della JP Morgan), che in pratica sono promesse di scambio, hanno rappresentato il momento del collasso; nel concreto e per semplificare, si tratta né più né meno di una scommessa speculativa sul fatto che una delle due parti vincolate da una promessa venga meno all’obbligo assunto.

E’ sorprendente come la portata devastante di una simile innovazione sia stata sottovalutata – più verosimile una colpevole e consapevole attività di distrazione di massa, magari come di consueto incolpando questo o quel finanziere cattivone e spietato, come se la pratica non fosse nota, approvata e incoraggiata dai governi degli Stati occidentali. Il venir meno, da parte di un contraente, dei vincoli assunti, nel diritto civile (e nella vita di relazione quotidiana) è una circostanza patologica, che deve andare incontro a una sanzione stabilita per legge: negli swap, diventa materia di contratto e di riscossione di provvigioni e, quanto di più grave, esente da sanzione, in quanto non solo prevista dal sistema dei derivati ma addirittura premiata. L’elemento sconvolgente, solo apparentemente contraddittorio, è concretato dal fatto che un comportamento in sé distruttivo del mercato – il non adempiere a un’obbligazione – diventa costruzione creativa di nuova ricchezza: la quale, però, essendo per la più gran parte fittizia, prima o poi giunge al collasso ed è quello che è avvenuto. E, soprattutto, è quello che continuerò ad avvenire.

Trarre profitti dal mancato rispetto di una promessa è il core del cedimento linguistico. Perché se, a un certo punto, in una società i soggetti al cui interno vivono e operano, travisano i termini di scambio linguistico (che sono le basi degli scambi materiali) e da questo travisamento ricavano incentivi, è evidente che la struttura linguistica diventa terra di frontiera, valicabile e violabile ogni qual volta il più forte decide di volerlo fare, senza controlli e senza sanzioni.

Una simile forma di degenerazione, brillante intuizione dell’A., non deve portare secondo la sua opinione a una negazione tout court del sistema capitalistico, bensì di concepire in modo diverso – e più civile, secondo noi – il sistema che genera scambi, ricchezza, dinamismo umano e materiale, praticando una socialità che ragionevolmente possa sperare di tenere testa alla finanza globale. Quella che l’A. chiama ‘distruzione creatrice’ (distruzione del linguaggio al fine di creare ricchezza e nuovo tipo di potere ad essa connessa), non avrà pietà per la scienza giuridica e per la politica convenzionale, se non si porrà in essere una vera e propria svolta politica.

Cesare Stradaioli

Arjun Appadurai – SCOMMETTERE SULLE PAROLE – Raffaello Cortina Editore –  pagg. 186, €21

CHE COS’E’ QUESTA LAICITA’?

Lunga, lunghissima sarà la strada verso un concetto di laicità, di Stato laico concretamente saldato nella coscienza dei cittadini italiani – e non solo. Al punto da indurre a riflessioni più approfondite sulla sua stessa, attuale realizzazione: più nello specifico, a porci la domanda se, ogni qual volta se ne parla e se ne scrive non si stia facendo, in realtà, un puro e sterile esercizio di stile, scordandoci di fare i conti con la realtà che ci circonda. E valga qualche considerazione presa da cronache di questi giorni.

E’ abbastanza ovvio che la stampa di occupi con un rilevante clamore della vicenda di un sacerdote della provincia di Padova coinvolto, secondo la Procura della Repubblica che si occupa delle relative indagini, in una serie di ipotesi di reato, che andrebbero dall’induzione allo sfruttamento della prostituzione, fino al tentativo di estorsione.

Ora, in tutta evidenza – e per un minimo di decenza giudiziaria oltre che sociale – sarà la magistratura inquirente a considerare l’ipotesi di una richiesta di rinvio a giudizio e, per logica scansione procedurale, quella giudicante a valutare se e in quale misura il sacerdote dovrà rispondere di questo o quel comportamento delittuoso. Sarà anche lecito stupirsi e perfino indignarsi di certe titolazioni dei quotidiani – ancor di più, vorrei dire, delle locandine, non di rado non veritiere e ansiogene: anche e soprattutto con riferimento al voler ascrivere al sacerdote comportamenti (“Don XY: sesso con trans“) che, in sé, nulla hanno di penalmente rilevante, oppure allo sparare titoli, neanche poco minacciosi e allusivi quali “Si cercano altri preti“, come se essere prete fosse equiparabile a ‘scafista’ o ‘ricettatore’, definizioni intrinsecamente criminali. Rimane il fatto che si tratta di fenomeni massmediatici che per forza di cose attirano l’attenzione dei lettori, il che porta la stampa a eccedere nei toni e nelle definizioni. Il livello professionale (e linguistico) del giornalismo italiano è quello che è, ma non è questo il punto.

Si legge, con sempre maggiore frequenza, di persone che – ritenendo di essere state soggette ad abusi, o tentativi di abusi o molestie sessuali da parte di rappresentanti del culto, o magari di voler dare voce a chi non possa farlo – si rivolgono al vescovo o all’autorità ecclesiastica del luogo, a denunciare determinati fatti. Ne consegue – a quanto pare – un invito ben più che pacato, rivolto alla singola persona, ad astenersi dal pubblicizzare il fatto all’esterno e questo pare proprio che ricomprenda le forze dell’ordine.

Come si fa? Cosa si deve fare? Per mettere in testa alla gente, continuamente incalzata da cronaca nera e programmi televisivi che non esito a definire criminali, da bandire senza pensarci un momento, che se un sacerdote ricava utilità dalla prostituzione di una donna; se le usa violenza; se ne chiede omertà, con la minaccia di rivelare alla di lei famiglia determinati fatti, prima che essere un sacerdote rinnegato davanti al dio in cui crede, è un cittadino accusato di gravissimi reati? Che quei fatti, prima che interessare il vescovo e terrorizzare la Curia che cerca di porvi rimedio col silenzio, devono DEVONO essere riportati immediatamente ai Carabinieri?

Al di là del singolo fatto di cronaca locale che interessa qualche migliaio di cittadini che vivono nella cintura provinciale patavina (dove, peraltro, ancora numerosi si contano gli infraquarantenni i quali, in luogo di domandare dove taluno abiti, gli chiedono a quale parrocchia appartenga…), è stupefacente come l’incremento dei casi di molestie o vere e proprie violenze sessuali, quanto meno denunciate, che vedono accusati religiosi di ambo i sessi, porti una percentuale direttamente proporzionale di denunce rivolte, quasi nella loro totalità solo all’autorità ecclesiastica e in misura minore ma comunque allarmante ANCHE a quella giudiziaria. Come se l’offesa che viene riportata avesse unicamente a che fare con la coscienza di chi viene accusato del gesto e come se il bene tutelato fosse il buon nome della Chiesa e non l’individuo (i reati a sfondo sessuale sono ‘contro la persona’) o il patrimonio (come nel caso dell’estorsione), oltre che il popolo italiano, in nome del quale vengono emesse le sentenze, di condanna o di assoluzione che siano.

E poi si parla di laicità dello Stato. E poi si alza alto lo sdegno per questa o quella dichiarazione, per questo o quel mancato intervento da parte di questo o quell’intellettuale che, a seconda dei casi, ha tentato di erodere la laicità dello Stato o non ne è stato sufficiente difensore.

Ma di quale laicità dello Stato stiamo parlando, in Italia, oggi, anno 2017? Che il fenomeno non sia solo italiano, non è che sia considerazione degna di nota. A che pro sottolineare come anche negli USA, segnatamente nella circoscrizione di Boston, moltissimi casi poi accertati di pedofilia siano rimasti per anni circoscritti agli ambienti religiosi? “Anche negli USA”? Uno stato apertamente teocratico, dove il Presidente giura sulla Bibbia, dove a nessun politico che pensi di candidarsi per qualsiasi carica verrebbe in mente di dichiarare il proprio ateismo, dove la parola dio viene scritta sulle banconote, dove ai convegni universitari sulla perenne crisi in Medio Oriente (per fare un esempio che lasciava di sasso Edward Said), si alza sempre la manina di qualcuno che chiede ai relatori come spieghino che dio ancora non ha pensato di risolvere il problema, dove in alcuni stati è imposta la teoria del creazionismo come insegnamento obbligatorio a scuola?

E poi parliamo della Francia, del senso dello Stato, del divieto del velo in pubblico, mentre da noi c’è ancora il crocefisso nelle aule scolastiche e in quelle dei tribunali. Un esempio di comportamento al quale aspirare? Il caso del cardinale Pell scoppiò quando qualcuno, non ricordo se uomo, donna, madre, padre, sorella o altro, si rivolse a un prelato di un certo livello della Curia del Victoria, stato della federazione australiana, menzionando per l’appunto fatti attribuiti a Pell quando era sacerdote a Ballarat, località a un centinaio di chilometri da Melbourne; riferito il fatto, costui o costei si sentì dire che certamente le autorità religiose avrebbero fatto il dovuto, ma che era opportuno che di tutto fosse informata la polizia. Molto simile, nella connotazione del senso di appartenenza a un’entità statuale (oltre che di un grande senso di umanità) al pensiero del rabbino capo di Melbourne, qualche centinaio di metri di distanza e di pochi mesi successivo, quando dopo l’inizio nei Territori, dell’operazione dell’esercito israeliano denominata ‘Piombo Fuso’, disse che anche i palestinesi avevano diritto a uno Stato autonomo e indipendente.

Questo è parlare da e di uno Stato laico: e sono stati due rappresentanti religiosi, a farsene portavoce.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI FEBBRAIO 2017 – Consigliato dagli Amici di Filippo

 

S’alza – ed era tempo – un sano vento di intolleranza contro le stupidaggini e il galoppante relativismo che dalla rete tracima nella società. Cominciano a sentirsi voci che, finalmente libere da pudori e code di paglia, dichiarano una cosa che butta il tavolo all’aria: non tutte le opinioni hanno pari dignità. Sottotitolo: gli errori sono tollerabili in quanto umani, le idiozie non altrettanto.

Questo volume, scrive Roberto Burioni, ordinario e microbiologia e virologia al San Raffaele di Milano, autore de “Il vaccino non è un’opinione”, libro del mese di febbraio, pesa 240 grammi: anche se il 99 per cento della popolazione mondiale fosse convinto che pesa due chili, tutti avrebbero torto, non potendo i fatti essere approvati a maggioranza.” A differenza delle opinioni le quali, come amava ripetere uno che se ne intendeva, Tinto Brass, sono come il buco del culo, con la conseguente chiusa finale che tutti dovrebbero conoscere – e chi non la sa, se la faccia dire.

Alzi la mano chi sapeva che il termine ‘vaccino’, riferito alla sostanza che viene utilizzata per immunizzare da malattie gravissime, è esattamente derivante dalle vacche; si deve il termine di riferimento all’iniziativa di un medico inglese, tale Edward Jenner il quale, avendo osservato come i sopravvissuti al vaiolo bovino fossero stati resi immuni a quello di cui si ammalavano gli esseri umani, mise in atto un esperimento di vero e proprio microcontagio a scopo immunitario. Questa e altre, ben più importanti informazioni – ma il colore, ogni tanto, non stona nelle pubblicazioni a carattere scientifico, pur se divulgative – si trovano in questo scritto dal taglio qui e là volutamente ‘leggero’, ma severissimo fra le righe.

Si tratta di un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dei cosiddetti antivaccinisti, ma andrebbe doverosamente esteso a quell’infernale meccanismo che muove dall’essenza stessa di internet e che, in un modo o nell’altro, dovrà trovare un rimedio, pena l’ulteriore imbarbarimento dei rapporti personali e del concetto stesso di società civile. Meccanismo nel quale è sufficiente che un tizio affermi una tal cosa e poi ne conferisce veridicità per il solo fatto di inserirla in rete. A tale proposito, appare illuminante oltre che splendidamente descrittivo, l’esempio che porta l’Autore di Tizio il quale afferma, a una cena fra conoscenti occasionali, di essere il più forte sciatore nazionale. Richiesto di parlare dei propri trofei, sostiene di non averne in quanto non partecipa a gare ufficiali, tutte notoriamente governate da arbitri corrotti e da interessi economici che favoriscono sempre gli stessi. Quanto al fatto di non essere iscritto ad alcun club o associazione sciistica, la risposta è che non ci pensa neppure, dato che si tratta di organizzazioni tutte asservite alle ditte sportive: d’altronde, la sua fama di controcorrente lo rende inviso ai più e, in ogni caso, dei tempi delle sue discese, tutti presi da sé, si trova copiosa documentazione in rete.

Il taglio rende la lettura piuttosto agevole, ma la sostanza è estremamente seria; tanto quanto è preoccupante il ragionamento di qualcuno, fra i meno intransigenti fra costoro, che sostiene (trattasi anche di medici, dunque di persone di scienza, con una certa presumibile confidenza con i numeri la statistica), di essere contrario solo alle vaccinazioni di massa, non tenendo conto del rilievo – evidente per chi non ha mandato il cervello in pensione – per il quale una vaccinazione o è di massa o non è. Sembra impossibile, eppure si tratta di un ragionamento che sembra non entrare nella mente di molti.

Così come non sembra avere fine l’interminabile discesa nel privato, nel particulare, che porta persone di grande onestà personale e anche di una certa cultura, a letteralmente ignorare come non vaccinare il proprio figlio, oltre a essere una cosa da lui non richiesta (il quale però rischia di pagarne lui il prezzo), è azione totalmente antisociale, che se praticata su larga scala espone al rischio infezione, come lui, anche altri che non hanno avuto la possibilità di vaccinarsi o che magari hanno contratto una patologia diversa che ha loro affievolito la carica immunitaria del vaccino assunto.

Il diritto di tutti ad avere una opinione rispettabile su qualsiasi argomento, inclusi e per primi quelli di cui si sa poco o nulla, e intorno ai quali spesso si ragiona a intuito in luogo dello studio e della statistica, rappresenta il concretarsi di una libertà bislacca, utilitarista, cieca e sorda: in questo senso è benvenuta ogni forma di dialogo e di resistenza, anche armata di ragionamenti e di dati di fatto i quali, come amava ripetere Lenin, hanno la testa dura. E pazienza se qualcuno si offende: dovrebbe considerare quanto ci offendiamo noi, al cospetto dell’ignoranza che quest’epoca che ci tocca vivere, all’insegna del ‘tana libera tutti’, spaccia per libertà di pensiero e di espressione, di cui non pochi tendono ad abusare nel mondo di oggi, dove tutto sembra lecito.

 

Cesare Stradaioli

Roberto Burioni – IL VACCINO NON E’ UN’OPINIONE – Mondadori – pagg. 159, €16,50

 

IL LIBRO DEL MESE DI GENNAIO 2017 – Consigliato dagli Amici di Filippo

Fra poche settimane, più precisamente il 20 gennaio 2017, Donald Trump diverrà ufficialmente Presidente degli Stati Uniti, con tutto quanto conseguirà a quello che, verosimilmente, è stato il meno prevedibile esito di un’elezione presidenziale, verrebbe da dire mondiale e non solo statunitense. Per questo, gli Amici di Filippo hanno pensato di consigliare, quale libro del mese di gennaio 2017, una monografia e cioè il fascicolo 11/2016 della rivista Limes, che porta come titolo “L’agenda di Trump”. 

In epoca più recente, di certo suscitò parecchio scherno sulla persona la candidatura di Ronald Reagan, salvo poi trovarselo – la componente democratica degli Usa – eletto a dispetto della per il vero poco credibile rielezione di Jimmy Carter: non era la prima volta che la cosiddetta sinistra americana prendeva una cantonata da campionato del mondo e non sarebbe stata l’ultima, a dimostrazione di un dilettantismo di analisi politica che non può – sfido chiunque sul punto – non essere figlio bastardo del sistematico e progressivo sbiadimento delle differenze politiche in un sistema elettorale bipolare. D’altronde, anche l’ascesa alla Casa Bianca del cattolico Kennedy costituì una sorpresa, peraltro mai del tutto prevalente sul sospetto di brogli elettorali, ma in tutti i casi precedenti alle elezioni del 2016, vuoi per la pochezza dell’antagonista (hai voglia di parlare male di Reagan o di – dei – Bush: Chi cazzo è Tsongas? titolava feroce Il Male, a proposito di uno dei tanti candidatucoli democratici stritolati da partito repubblicano, prima che si imponesse Clinton – Bill, non quell’altra), vuoi perché a un certo punto anche il vincitore delle primarie meno conosciuto, in qualche modo riusciva a porre in risalto questo o quel pregio, o quanto meno un certo livello di simpatia o di credibilità personale, magari in questo aiutato non solo dai dollari ma anche – era il caso di Carter o di Eisenhower – da un modello di vita familiare e militare di tutto rispetto secondo i canoni puritano/militaristi che da sempre prevalgono al di là dell’Atlantico.

A parte il fiume di dollari investiti nella corsa presidenziale – ma Hillary Clinton a quanto pare ne ha messi molti ma molti di più, proprio soldi ben spesi… – Donald Trump è arrivato all’alba dell’Election Day, senza essere né simpatico, né particolarmente noto per conoscenze politiche internazionali, né univoco su determinati temi (era stato più volte, in alternativa, pro e contro l’aborto, questione che rarissimamente gli americani perdonano al candidato tipo), e soprattutto preceduto da una vita familiare e matrimoniale ben poco consona al modello non solo repubblicano ma anche democratico: stigma che, curiosamente, toglie il sonno alla sinistra più che non ai genuini sostenitori del libero mercato, sempre prontissimi a perdonarsi fra loro. Last but non least, avendo colorito la propria campagna elettorale di giudizi un tantinello poco simpatici su donne, messicani, musulmani, immigrati in genere e la Cina. Insomma, il classico candidato che, a bocce ferme e finiti gli sproloqui in campagna elettorale, al momento del voto si prende un calcio nel sedere da rimaner zoppo. Questo, secondo i canoni europei e democratici statunitensi.

Limes prospetta, con il consueto contributo di più voci, provenienti da esperienze, specializzazioni e punti di vista diversi, quella che chiama ‘agenda’ di colui che almeno per i prossimi quattro anni – chi scrive propone una scommessa aperta a chiunque: fra tre anni e mezzo Michelle Obama stravincerà le primarie del partito democratico e successivamente, salvo l’emergere un valido antagonista nell’altro campo, diventerà finalmente la prima presidente donna degli Stati Uniti – sarà a capo (ma il fascicolo di Limes illustra in maniera piuttosto chiara i concreti limiti e arzigogoli di questo potere) dell’unica superpotenza, per adesso, rimasta sulla scena mondiale.

L’agenda di Donald Trump viene preceduta da un’attenta e puntuta analisi sul dove e come Hillary Clinton e il magnate nipote di immigrati irregolari abbiano perso e vinto. Tenendo a mente il passaggio di un articolo di Paul Krugman risalente a un anno e mezzo fa quando, scrivendo come sua competenza di economia, riferendosi alle prossime elezioni presidenziali, con un certo tono leggero (ma chi conosce Krugman sa bene che è proprio quando scrive in tono apparentemente scherzoso che il premio Nobel parla sul serio), affermava che i tre candidati repubblicani fossero due personaggi orrendi – Cruz e Rubio, per la cronaca: due al cui confronto Reagan era un moderato di centro – e “uno con una buffa pettinatura“, con questo mettendo in guardia, inascoltato, i democratici, vengono maggiormente evidenziate le palesi carenze democratiche in tema di vicinanza/lontananza rispetto all’elettorato, particolarmente al proprio (per caso ricorda qualcosa e qualcuno di un po’ più vicino a noi?).

Dovrà, secondo Limes, questa agenda necessariamente prendere in considerazione in primo luogo i rapporti col Pentagono e con il Congresso, non essendo del tutto scontata la ‘fedeltà’ di un’istituzione che in teoria è schierata col presidente; i rapporti con Mosca, oltre a quelli ben più problematici (sembra un paradosso, ma la presidenza Trump si annuncia molto meno paradossale di quanto non sono stati i suoi eccessi verbali) con Berlino e Tel Aviv saranno di vitale importanza, senza trascurare quelli con il Giappone e il Vaticano, prontissimi questi ultimi, a differenza dell’imperturbabile Putin, a farsi avanti come polo di riferimento.

La monografia disegna un quadro contraddittorio e denso di questioni e curiosità. Non ci si annoierà, con la presidenza Trump e non è detto che sarà per quello che sembri all’apparenza.

 

Cesare Stradaioli

AA.VV. LIMES 11/2016 – L’AGENDA DI TRUMP – Editoriale L’Espresso – pagg. 256, €14 dispobibile anche on line

 

NON SPARATE SUL MINISTRO (che è Natale)

Non v’è dubbio alcuno che la frase pronunciata dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali sia stata semplicemente inqualificabile. Prima di tutto, è ovvio, per il contenuto che riporta un evidente disprezzo nei confronti di una determinata categoria di concittadini – il disprezzo è vergognoso a prescindere, verso qualsiasi categoria di cittadini onesti – e poi per il fatto che a esprimersi non è stato l’avventore di un bar Sport e neanche un amico appartenente a un’allegra congrega di persone oneste e dabbene, che in privato hanno il sacrosanto diritto di dire quello che pensano, anche il peggio, bensì un rappresentante delle istituzioni.

Vanno dette due cose. Per cominciare, è senza dubbio vero che da decenni si è incistata nella nostra società la pratica di ficcare il microfono dappertutto, spacciando detta pratica per partecipazione democratica, perché i cittadini hanno il diritto di sapere, le istituzioni devono essere case di vetro e scempiaggini del genere. Certo che i cittadini hanno il diritto di sapere: a titolo di esempio, e penso all’Australia, avrebbero diritto che le sedute in Parlamento fossero date – gratis – in diretta televisiva (si accettano scommesse che le assenze parlamentari precipiterebbero subito vicino allo zero), per sapere in prima persona e non tramite veline cosa dicono e fanno gli eletti; avrebbero diritto che le questioni più squisitamente tecniche – scelte di politica economica, di giustizia, di riforme istituzionali – fossero spiegate e illustrate in maniera comprensibile da tecnici, vicini all’organo statale che le prende e non dalle reti televisive e giornalistiche, spesso cialtrone, illetterate e volutamente terroristiche; avrebbero diritto di sapere – nell’ambito della libertà di coscienza del singolo parlamentare – il perché di determinate (anzi, di tutte) le opzioni e le decisioni di voto. Sapere che in questo o quel consesso, che in questo o quell’ufficio, che in questa o quella stanza, in privato qualcuno impreca, bestemmia e dice peste e corna di taluno e talaltro, significa solo conoscere le interiora di qualcuno, come scriveva Cesare Garboli, non l’interiorità del suo pensiero.

In secondo luogo, bisogna dare atto del fatto che il ministro Poletti non solo si è scusato – di questi magri tempi è già qualcosa – ma in più NON ha detto di essere stato frainteso, ma di avere detto una frase infelice e di essersi espresso male; due passi avanti e mezzo indietro, ma nel suo piccolo va anche bene così. Si deve aggiungere infine che, dato che la sfortuna odia gli incompetenti e gli arroganti, il governo Renzi e quello che ne è rimasto è stata una compagine particolarmente beccata dalla sfiga: ultimo (ma il sole è ancora alto, diceva il grande John Wayne) a esserne vittima, Poletti non aveva neanche finito di pronunciare quella frase che una di costoro – quelli che se ne sono andati all’estero togliendo il disturbo – rimaneva vittima a Berlino di un attentato, sembra materialmente eseguito da un tizio che, a differenza di molti suoi compagni di sventura e pur gravato da una condanna con detenzione, evidentemente poteva muoversi con sorprendente abilità all’interno dell’Europa dei muri e de ‘gli emigranti sono un problema dello Stato dove sbarcano‘ che tanto piace agli europeisti da tre palle a un soldo che affollano anche i vari governi italiani.

Tutto questo per dire un parere personale e cioè del contenuto in sé di una frase quale quella del ministro Poletti mi importa poco più che pochissimo. Naturalmente i destinatari di questo bel pensiero hanno tutte le ragioni per sentirsene offesi e di fare le rimostranze che credono. Il fatto è che, anche se tutti noi cittadini ci sentiamo disturbati da simili episodi, è pur vero che appunto i veri offesi sono una ristretta cerchia di donne e uomini che hanno fatto determinate scelte: ma c’è qualcosa d’altro e al di là di quella frase, che credo dovrebbe non solo disturbare ma anche offendere l’intera cittadinanza italiana ed è l’incompetenza, l’incapacità, l’inanità dell’uomo Poletti e di tantissimi che come lui ricoprono cariche istituzionali. E’ ben vero che una volta non c’era la libertà di infilare dappertutto microfoni e telefonini, ma sono certo che quelli della mia età siano dell’opinione che certi dirigenti democristiani e comunisti mai si sarebbero sognati, neppure seduti sulla tazza del cesso, di dire a voce alta certe cose, pur pensandole con tutto il cuore. E non per timore di essere sentiti, ma proprio per un costume personale, derivante dalla formazione politica delle scuole di partito che da un paio di decenni viene svilita e sbertucciata, a favore del fare largo all’uomo della strada, all’uomo qualunque a dirigere le istituzioni – con i disastri che sono sotto gli occhi di tutti.

Non avendo competenze in proposito, non posso azzardarmi a fare diagnosi specialistiche: mi fermo all’abusatissimo buon senso. Poletti, come Renzi (i ‘gufi‘; l’ignoranza porta spesso a dire stupidate: i gufi ci vedono benissimo, lontano e al buio), come Boschi (i ‘professoroni‘), come tanti altri dilettanti allo sbaraglio che stanno finendo di mandare in rovina questo Paese, al di là della personale educazione familiare e scolastica ricevuta da ciascuno, si esprimono – volontariamente o come voce dal sen fuggita – per frustrazione: perché non sanno cosa fare e come; per autodifesa: perché, posti di fronte a problemi infinitamente più grandi delle loro capacità e della loro cultura, reagiscono in maniera umanamente comprensibile ma politicamente non accettabile, contrattaccando e offendendo; per stanchezza: le famose lacrime del ministro Fornero (ma penso anche a quelle di Deborah Serracchiani o di Federica Mogherini e il sesso non c’entra nulla: se mai le donne hanno il coraggio di piangere in pubblico; un uomo al posto loro magari avrebbe passato la serata a sputtanarsi diecimila euro alle slot per abbattere la tensione emotiva), a mio personale parere e contrariamente a tanti che le considerarono una finzione, erano genuine e del tutto conseguenti al disorientamento e smarrimento di una persona abituata a dare direttive, a vivere venti piani sopra il marciapiede o in lussuose lounges d’attesa per il prossimo volo in business class, a non sporcarsi le mani, a parlare per essere ascoltata e non ad ascoltare gli altri, e per niente avvezza a sentirsi fare continuamente richieste – cellulare acceso 24/7 se sei un Ministro – le quali TUTTE esigono una risposta, possibilmente per un quarto d’ora prima. In definitiva: Poletti e quelli come lui dicono e fanno ciò che dicono e fanno di disdicevole semplicemente perché sono incapaci di fare fronte al compito davanti al quale sono stati posti. Perché, oltre a essere carenti di competenze specifiche, non hanno adeguata preparazione culturale e politica per ascoltare, capire, discutere, confrontarsi, affrontare dispute verbali anche aspre e forti – in una parola: mediare –  e in non pochi di loro queste carenze sono dovute alla giovane età e conseguente breve esperienza di vita e di relazione con gli altri, specie con quelli che hanno opinioni diverse od opposte o hanno problematiche – fondate o meno, giuste o meno – pressanti e gravissime.

Queste carenze, di poco conto nelle loro esistenze precedenti agli incarichi ricevuti e talvolta pretesi, sono esiziali per loro ma soprattutto per il consorzio civile che rappresentano, dal livello comunale a quello apicale istituzionale, passando per amministrazioni private o pubbliche, le quali tutte hanno in comune il referente che è il bene comune della cittadinanza. La quale cittadinanza, che ha pur sempre il dovere di partecipare, pretende: esige, vuole, ha bisogno, ha delle richieste, delle istanze. Soprattutto vuole – e ne ha il diritto – risposte. Tanto per dare una via d’uscita a quel vero e proprio corto circuito sociale che Filippo Ottone descriveva con una delle sue proverbiali, fulminanti battute quando diceva (appunto con una battuta e perciò, conoscendo l’uomo, serissimamente) che ci sono troppi WHY e pochi BECAUSE.

Coloro che non sono in grado di dare delle risposte ma si limitano a partecipare a convegni o consessi istituzionali e, quando va bene, ben bardati dietro il badge che dà loro accesso a luoghi che non sono alla loro altezza, tutt’al più pongono problematiche, magari suggerite dal proprio ufficio stampa, si facciano da parte. Nella vita ci sono tante occupazioni, ben più ‘onorevoli’ del fare i deputati come molti di loro fanno: incluso quella, direttamente riguardante Giuliano Poletti, già presidente della Lega Coop, di NON fare il ministro del Lavoro, evitando in tal modo non solo le battute vergognose ma anche e soprattutto un palese conflitto di interessi perché, con tutto il dovuto rispetto, lo vada a raccontare a mia nonna – anzi, a entrambe; che tanto nessuna di queste due sagge signore gli crederebbe – che nell’esercizio del suo ministero non è mai stato neppure sfiorato da sgradevoli situazioni che non sono di esclusiva pertinenza di quell’ex presidente del Consiglio, appassionato dell’altra squadra di Milano.

Poi, è vero che si fa presto a denunciare, fare notare, alzare il ditino e chi scrive lo fa spesso: ma alla fine di tutta una sommatoria di considerazioni quali quelle sopra scritte, rimane un senso di tristezza e di avvilimento per come la politica e il bene comune siano diventati banconote da Monopoli o carriarmatini da Risiko; chiunque abbia praticato, anche in età matura, questi giochi di società sa benissimo che loro principali tratti siano la contumelia e il doppiogiochismo, l’imprecazione e il tradimento. Tutti generati dalla frustrazione e dall’incapacità di accettare le proprie carenze e i propri, inevitabili, insuccessi.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

 

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A VOLTE RITORNA (NO)

“… Persa l’aura di ottimismo e di sfrenata fiducia in se stesso; incupito dalla sconfitta; costituzionalmente e per cultura (parola ‘forte’, nel suo caso) incapace di accettare un contraddittorio; forse non si rende conto che l’avere sbertucciato e messo in un angolo non solo gli oppositori esterni, ma anche – e, forse, soprattutto – quelli interni, lungi dall’avergli garantito una solida posizione di comando, ha provocato una rivolta nei suoi confronti che, evidentemente essendo lui immemore del destino degli uomini soli al comando in Italia (osannati finché la barca va, appesi – e non solo metaforicamente – quando il vento gira), lo lascia unico – e non sempre meritatamente – responsabile del disastro provocato; perseguendo finalità di statista (nel concreto, per contro, rivelando solo un superego che trascura persone e situazioni che non lo soddisfino nell’immediato e nel lungo periodo), ha fatto sbiadire anche la propria parte politica, tradendone nella sostanza alcuni principi fondamentali; essendosi nel tempo cucito da sé l’aspetto di un barbogio senza età che assilla gli altri con i propri problemi esistenziali che vanno ben oltre quelli politici, alla lunga ha finito col prendere per sfinimento i cittadini, inclusi molti già suoi elettori, che non sopportano più né lui né le sue lamentazioni e che quasi lo evitano, come si evita attraversando la strada verso l’altro marciapiede un conoscente rompiscatole…”

Scrivevo queste parole grosso modo nel 2009; erano riferite all’allora Presidente del Consiglio, rispetto al quale cominciavano a emergere, al di là di personali e inquietanti problematiche di ordine comportamentale, difficoltà non più superabili non solo nella ordinaria gestione del potere, ma anche rispetto alle sue relazioni con il proprio bacino elettorale e, più nello specifico, con il raggruppamento politico che lui stesso aveva formato a propria immagine e somiglianza e che pareva non sostenerlo più, al punto da dare l’idea che la sua parabola politica avesse intrapreso la curva discendente, come poi è stato di lì a poco.

Credo che possano essere riscritte oggi, parola per parola, con riferimento all’ex – momentaneamente tale, quanto meno – Presidente del Consiglio.

Non credo che faccia ridere.

Cesare Stradaioli

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COLPE E (VERI) COLPEVOLI

Ora che, in piena crisi di governo dopo le dimissioni di Matteo Renzi, l’attesa sembra focalizzata sulla data del 24 gennaio 2017, quando la Corte Costituzionale esaminerà i ricorsi in merito ai dubbi di incostituzionalità della legge elettorale attualmente in vigore, denominata ‘Italicum’, non sarà sbagliato fare presente qualche considerazione in proposito.

L’entrata in vigore dell’attuale legge elettorale rappresenta un esempio tipico della natura arrogante e pressapochista dell’esecutivo che, di fatto, è stato messo in minoranza dal referendum del 4 dicembre: intendo la natura del governo, ma anche dello spirito di servizio, senso dello Stato e competenza politica di tutti coloro della minoranza del Pd che lo votarono, pure se sotto minaccia della fiducia. Il governo Renzi ha operato a testa bassa e, in un colpo solo, ottiene, forzando continuamente la mano alle Camere, niente meno che una nuova legge elettorale e la riforma costituzionale: dopo di che promuove su questa seconda un referendum popolare, che avrebbe dovuto avere la natura di sigillo non solo e non tanto sulla bontàe giustezza di quella riforma, quanto sulla durata e popolarità dell’esecutivo. Due pilastri che avrebbero dovuto sorreggere sia le leggi già approvate nei quasi tre anni di governo, sia soprattutto quelle a venire e in tutto ciò si devono aggiungere le nomine ai vertici di fondamentali apparati produttivi e di potere nel nostro Paese – Finmeccanica e Trenitalia per dirne solo due.

Renzi, però, e con lui i suoi sodali, dentro e fuori la compagine ministeriale, avrebbero dovuto approfondire una riflessione e, di conseguenza, porsi per lo meno una domanda. Perché la riforma costituzionale, fra le altre – esecrabili – cose, conteneva quella del Senato che, sostanzialmente e al di là dei numeri e del taglio dei costi (piuttosto esiguo), constava del fatto che la carica di senatore sarebbe stata ottenuta con metodo del tutto diverso e cioè tramite le consultazioni amministrative le quali, per mezzo di decisioni prese da un certo numero di eletti, avrebbero portato a Roma un centinaio circa di persone NON direttamente elette dai cittadini. Dunque, di fatto, tolto il Senato dalla consultazione diretta, solo la Camera dei Deputati rimaneva sottoposta al sistema ‘Italicum': che, nel frattempo, lo si poteva tranquillamente prevedere senza gran sforzo, a tempo di record sarebbe stato sottoposto al giudizio della Consulta. Ma che importa? devono essersi detti Renzi e soci: tanto, se la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale l’Italicum, rimane sempre la revivescenza del ‘Mattarellum': e, in ogni caso, la questione riguarderebbe solo la Camera.

La domanda da porsi avrebbe dovuto essere: se la riforma costituzionale dovesse essere bocciata, che ne sarebbe del sistema elettorale? All’esito della consultazione referendaria, come è puntualmente accaduto, l’Italia avrebbe potuto trovarsi, come di fatto si è trovata, con un sistema elettorale per la Camera (l’Italicum) e uno per il sopravvissuto Senato, cioè il redivivo ‘Mattarellum’, tornato a nuova vita dopo la sanzione sotto la quale a inizio 2014 è caduta la porcheria che ha, non lo dimentichiamo, portato in Parlamento i rappresentanti tutt’ora presenti. Cioè una situazione di pieno marasma elettorale e istituzionale, due cose delle quali proprio non si sentiva la necessità e l’urgenza. Qualcosa situato fra la follia e la tragedia.

Saggezza avrebbe consigliato, postisi domanda di cui sopra, che i membri dell’esecutivo togliessero da quella costituzionale, se proprio volevano farla – e neanche di questa si sentiva necessità e urgenza, con i mille e un problema che l’Italia si trova ad affrontare – quella del Senato, lasciandolo così com’è: vediamo come va il referendum (meglio ancora sarebbe stato lasciare in stand by l’intera riforma) e poi decidiamo per il futuro. Così ragiona un gruppo politico che ha a cuore le sorti del Paese e che non le scambia – o le contrabbanda – con metterci la propria faccia, cosa che non importa a nessuno.

Ma questo esecutivo, pienamente innervato dal carattere dell’ex presidente del Consiglio, ha sempre manifestato un’aperta insofferenza per la riflessione, una palese incompetenza nel pensare e nello scrivere le leggi, un disarmante pressapochismo nella conduzione dell’attività politica e una patologica tendenza a invadere il campo altrui (specie quello del Parlamento, occupando il Potere legislativo con le truppe di quello esecutivo: e dire che era uno degli appunti più seri e fondati che venivano mossi a Berlusconi), mischiate a uno stile tardofuturista da adolescenza in esubero di testosterone, che inevitabilmente porta con sé taglienti giudizi senza appello sui vecchi, sui rottami, sulle lungaggini, come se una struttura istituzionale fosse una specie di gioco di società. E così, l’insipienza e l’incompetenza da dilettanti allo sbaraglio (ma il sospetto che si tratti invece di un pool di utili idioti, al lavoro per conto terzi, è fortissimo), ha portato a mettere in un unico calderone leggi fatte male, senza decreti attuativi o troppi e scritti da analfabeti – non solo della politica: analfabeti nel vero e proprio senso della parola – quotidiane e plurime intemperanze propagandistiche da campagna elettorale in servizio permanente effettivo, disordine legislativo, dispersione di risorse umane e materiali, inconsistenza europea, il tutto a fare da contraltare a un voluto e sistematico ridurre la politica interna a indecorosa canizza da cortile di casa. La sicumera di cui dispongono a piene mani li ha portati a semplicemente escludere che i NO vincessero. Ed è andata come sappiamo, coi bei risultati sotto gli occhi di tutti.

Da ultimo, l’incertezza sul sistema elettorale per il Senato. Ed è davvero disdicevole che il principale responsabile a cui ascrivere non solo il fallimento del governo Renzi, del governo Letta e di quello Monti ma, quello che più conta, il disastro di un Paese che negli ultimi cinque anni, grazie anche al sostegno di una stampa a coro unanime, prona e prostituta come non si era vista neppure nei più oscuri anni democristiani, ha perso lavoro, ricchezza, dignità, speranza, coesione sociale e prospettive per pressoché tutte le fasce sociali e di età (neanche i pensionati possono stare in pace, dovendo provvedere ai figli e ai nipoti, come avevano già fatto nei precedenti 30-40 anni della loro vita lavorativa), un Paese dove sono cresciute povertà e diseguaglianza oltre a una più che legittima, fondata e pericolosissima disaffezione alla politica; si diceva, il principale responsabile, che di tutto ciò fino a qualche mese fa si prendeva il merito (nelle poche pause in cui i peana mediatici che glielo attribuivano prendevano fiato), vale a dire l’ex Presidente della Repubblica vivente, probabilmente il peggiore Capo dello Stato che ha avuto l’Italia – e con personaggi quali Saragat e Cossiga era una bella gara, per niente facile da vincere – di tutta questa rovina non sarà chiamato a rispondere, se non da Maurizio Crozza quando lo imita e questa è cosa brutta e ingiusta perché, parafrasando la battuta di un famoso film, ci sono momenti in cui dire ‘Noi l’avevamo detto’, non rende sufficiente giustizia e di fronte allo scatafascio politico, culturale e sociale nel quale si è svegliato il Paese la mattina del 5 dicembre 2016, non ci sarà giustizia neanche stavolta.

Cesare Stradaioli

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IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE 2016 – Consigliato dagli Amici di Filippo

Si confrontano in un dialogo serrato e senza tanti birignao i due più importanti magistrati del cosiddetto ‘pool Mani Pulite‘. All’epoca, il braccio giustizialista della Procura di Milano era rappresentato da due figure ugualmente efficaci dal punto di vista mediatico, pur se diametralmente opposte sotto pressoché tutti gli altri punti di vista: il vulcanico e travolgente pubblico ministero Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli, l’algido Procuratore Capo. Il primo non disdegnava farsi fotografare nella classica canotta neorealista mentre guidava il trattore nelle sue terre in Molise, il secondo preferiva essere conosciuto anche come pianista di un certo livello. Ma le vere menti pensanti, quelli che amavano stare in seconda fila, a farsi sentire poco – tutto il contrario dei primi due – erano proprio Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, pure loro agli opposti reciproci, per il modo di intendere la vita, la giustizia, i rapporti umani e la loro stessa professione. Loro due costruirono e diressero la complessa attività di quella stagione che, bene o male, fece luce su un intero sistema politica, e lo fecero quasi nella penombra, volutamente oscurati da Di Pietro e, nello stesso tempo, lavorando sotto l’ala protettiva di Borrelli: a loro modo, entrambi costoro fungendo da parafulmine per stampa e politica.

Al di là del come in questo saggio le questioni vengono poste, ben identificabili nei rispettivi modi da chi conosce i due interlocutori, il principale pregio dell’opera sta nel rendere chiare e comprensibili – poi ognuno si forma, consolida o modifica la propria idea – le tematiche trattate, anche perché queste due figure pubbliche (Colombo non è più magistrato dal 2007, essendosi dimesso da Giudice di Cassazione, mentre Davigo di una sezione della Suprema Corte è presidente) espongono in maniera diretta, talvolta anche troppo (Davigo) e forse qui e là in maniera eccessivamente sbrigativa (Colombo) i propri punti di vista che già li differenziavano all’epoca della più famosa inchiesta giudiziaria sulla corruzione. La vulgata voleva Colombo di sinistra per le sue idee cosiddette garantiste, come pure Borrelli, là dove i metodi diciamo così da questurino di Di Pietro e l’inflessibilità di Davigo li vedeva collocati a destra, ma è storia vecchia che di tanto in tanto si ripresenta nelle cronache giornalistiche, utilissime a essere strumentalizzate da questo o quel rappresentante politico.

Il disaccordo, definito perenne nel sottotitolo, che separa i due interlocutori, al di là di interessanti disquisizioni e divagazioni che spostano l’attenzione dalla pratica quotidiana della legge a citazioni di Sant’Agostino, Foucault, Adam Smith o Aristotele, oltre i comuni punti di vista sulla corruzione e l’inefficienza della macchina giudiziaria, verte principalmente sulla pena, cioè sul carcere: l’inflizione della pena, quale pena, quanta pena, in che modo, dove e con quali prospettive e SE le prospettive debbano esserci per tutti ovvero se per una – per quanto ristretta – cerchia di condannati, di prospettiva non si deve neppure parlare, diversamente la serietà della risposta punitiva rimarrà debole e sbiadita, finendo così col non riuscire in alcun modo a cambiare l’animo del cittadino medio italiano che, opinione comune fra i due (pur se Colombo accusa Davigo di schematismo e furore punitivo, mentre costui ribatte sostenendo come il primo tenda a perpetuare il mito del buon selvaggio rousseauiano, che nasce buono e socievole), manifesta imperterrita negli anni la perniciosa tendenza alla corruzione, chiesta, favorita, ostentata e praticata a tutti i livelli della società.

Se un’osservazione va fatta ai due Autori – parlare di critica sembra eccessivo e si legga questo tenendo conto del fatto che chi scrive si sente, per cultura e inclinazione politica più vicino (o, se si preferisce, meno lontano) a Colombo piuttosto che a Davigo – è la mancanza di un riferimento, sia pure minimo, al fatto che entrambi (Colombo sempre Pubblico Ministero, Davigo quasi sempre, all’inizio per un breve periodo della sua carriera fu Giudice – si tenga conto che, nominati poi entrambi Giudici di Cassazione, si occuparono della legittimità dei giudizi avverso i quali veniva mosso ricorso, poiché la Cassazione non entra nel merito delle decisioni impugnate) in quanto comunque magistrati, all’interno delle complesse dinamiche sociali di un consorzio civile, intervenivano, diciamo così, a valle, cioè quando il reato si presume commesso o è stato commesso davvero, cosa che deve decidere la Magistratura giudicante.

In qualche modo essi sono spazzini – e non c’è nulla di offensivo a sentirsi chiamare così, essendo per tutti noi fondamentale questa attività lavorativa, si tratti di rimuovere l’immondizia o di istruire un procedimento per punire un crimine – cioè personale che interviene ‘dopo': dopo che la cartaccia è stata gettata, dopo che la mazzetta è giunta a destinazione. Manca, nella loro analisi sulla Giustizia, un riferimento alla prevenzione, se non un breve e controverso dialogo sulla formazione scolastica, come avviene, qui in Italia e all’estero, ma si tratta comunque di una manchevolezza di carattere minore.

Cesare Stradaioli

Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo – LA TUA GIUSTIZIA NON E’ LA MIA – Longanesi – pagg. 168 €12,90

UGUAGLIANZA Vò CERCANDO

Basterebbe un solo dato: il tasso di mortalità infantile che si registra a Cuba è inferiore a quello della media negli Stati Uniti. Cioè a dire, uno Stato che vive da mezzo secolo sottoposto a embargo commerciale, politicamente ed economicamente assediato, che ha vissuto periodi di crisi dovuti anche alla caduta di una delle potenze mondiali che lo sostenevano – vogliamo fare un paragone? Che ne sarebbe di Israele, sotto tutti i punti di vista: economico, militare, sociale; se domani gli Usa crollassero di colpo e, con essi, cessassero tutti i finanziamenti, gli aiuti e gli appoggi politici e diplomatici di cui Tel Aviv gode dal 1948? – messo a confronto con la nazione più ricca, nel complesso, del mondo, garantisce ai propri figli un’aspettativa di vita infradecennale mediamente superiore. Attenzione all’avverbio.

Mettiamo per un momento da parte il concetto di libertà, che in sé e per sé non significa un bel niente (oppure, parliamone per un breve inciso: un cittadino americano che vive in una roulotte nel Mid West, tagliato fuori dalla tutela sanitaria pubblica e che da un giorno all’altro rischia, perdendo il lavoro, che una finanziaria o una banca gli porti via quella miserabile catapecchia che chiama casa, è più libero di un cittadino cubano?). Il dato sulla mortalità infantile ci dice che l’economia cubana è più ricca di quella statunitense? Che le riserve auree di L’Avana sono superiori di quelle della Federal Reserve? Ovviamente no ed è proprio questo il punto focale: gli Stati Uniti sono, per forza di cose, incomparabilmente più ricchi di Cuba, con ciò intendendo che complessivamente producono e detengono una quota di ricchezza al cospetto della quale non vale neppure la pena, per un cubano, di provare a fare raffronti. Allora, come si spiega il dato terrificante sulla mortalità infantile? Con una sola parola: diseguaglianza.

Il dato, riferito agli Stati Uniti, ci parla di percentuali medie – l’avverbio!: il che sta a significare che certamente a New York, in larghe parti della California, che so probabilmente nello Stato di Washington e in qualche altro Stato dell’Unione, la mortalità infantile è inferiore a quella cubana; ma significa anche che per la maggioranza degli altri Stati e della popolazione, la percentuale si capovolge e verosimilmente è disomogenea anche là dove c’è maggiore ricchezza media (New York eccetera). Ora, senza tirare di nuovo fuori la solita storiella del mezzo pollo a testa di cui godiamo nel mio Paese, ma se il mio vicino ne ha tre di polli vuol dire che oltre al mio mezzo s’è preso pure quelli di altri quattro sventurati come me e però la media è quella, è evidente che stiamo parlando puramente e semplicemente di diseguaglianza.

Cioè i cittadini cubani – e, di conseguenza, i loro neonati – godono di un’assistenza, di un livello di preparazione dei medici ostetrici e pediatri, insomma di un trattamento sanitario di prevenzione e cura mediamente migliore di quella di cui godono quelli americani, il che solo apparentemente è paradossale. Perché il fatto che i loro omologhi americani vivano nello Stato con l’economia più ricca del pianeta e che, ciò malgrado, si registri il dato di cui sopra, non può che spiegarsi con la diseguaglianza, che ha come dato presupposto (e che, allo stesso tempo, la alimenta) il sistematico e progressivo affluire di ricchezza in sempre meno mani, a discapito della crescente maggioranza degli altri consociati.

E’ questa una delle cose, probabilmente la principale, che la Sinistra in Europa e nel mondo non capisce – o non vuole capire, avendo accettato l’economia di mercato come dato unico, immutabile e non discutibile delle nostre vite e di quelli che verranno dopo di noi. Non capendo questo, o rifiutandosi di farlo, non si spiega (non può) per quale ragione i movimenti e partiti cosiddetti ‘populisti’, da lungo tempo ormai, facciano il pieno di voti negli strati sociali che più avrebbero interesse proprio a una politica egualitaria e, perciò stesso, DI SINISTRA; sono passati più di vent’anni e ancora a Sinistra non si spiegano (quelli come Filippo Ottone se lo – e ce lo – spiegavano, eccome) come sia stato possibile, tanto per fare un esempio che è paradigmatico, che cittadini lombardi, per tradizione di Sinistra, abbiano votato Lega e, al contempo, in molti di loro erano e rimangano iscritti alla CGIL. Che ciò avvenga perché la Lega li tutela sotto il profilo politico, mentre il sindacato li tutela sotto il profilo del lavoro e della previdenza, e che insomma questa gente manifesti apertamente il BISOGNO di sentirsi tutelata, di fare sentire la propria voce nelle sedi istituzionali (perché lo spirito dell’economia di mercato era, è e rimane l’ognuno per sé e se sei povero vedi di rinascere ricco nella prossima vita), deve sembrare una spiegazione troppo semplice per il trust di cervelli che ha preso possesso, illegittimamente, dei simboli e dei nomi della Sinistra in Italia. Per cui non ci pensano e non agiscono di conseguenza.

Senso di solitudine, disagio, mancanza di prospettive, abbruttimento culturale, sono aspetti del declino sociopolitico occidentale che dovrebbero fare riflettere, invece di appioppare etichette di populismo e sperare così di cavarsela. Chi ci interessa, chi ci DEVE interessare di più? Marine le Pen, Grillo, Trump? O non dovrebbero piuttosto essere i milioni di cittadini delusi dalla Sinistra, impauriti e incattiviti da una società miserabile, predatoria e puttana, che li votano, che votano il tribuno, il popolano, quello che alza la voce, quello che le spara più grosse? Quello che a parole promette tutela, garanzia, riscatto sociale, futuro? Se in Gran Bretagna vince la Brexit è anche e soprattutto perché i ceti popolari hanno percepito la UE (che ci ha messo abbondantemente del suo) come ostile, nemica, profittatrice: e l’UNICA voce che si è fatta sentire da loro, invece che nei salotti dell’intelligencija di destra e di sinistra, è stata quella di Nigel Farage. Complimenti vivissimi.

Non basta? Vediamo questa. Per tutta la campagna elettorale Hillary Clinton e il suo circo a tre piste hanno ripetuto il mantra: CONTINUITA’. Loro, nelle loro lounges esclusive da happy hour a mille dollari a botta, intendevano continuità con la politica di Barak Obama; per il povero – e gli USA di poveri veri ne contano a decine di milioni – per l’operaio, per il disoccupato, per l’ex ceto medio assassinato dalla crisi dei mutui subprime, CONTINUITA’ significava continuare a essere povero, a essere disoccupato, a essere senza casa e senza assicurazione medica, continuare a vedere manager di banche, assicurazioni e corporazioni della comunicazione prendere buonuscite da capogiro. E’ finita che, pur essendo in maggioranza donne e in grande percentuale di colore, non hanno votato né una donna né la continuità con un colored: hanno votato la DISCONTINUITÀ’, hanno votato Trump, il quale ha saputo catturare la loro attenzione, che è stato capace di avere il loro consenso, senza farsi aiutare dalle comparsate di personalità pubbliche. A parte il fatto che, fra gli altri, la Clinton si è fatta sostenere da personaggetti quali Bon Jovi e Lady Gaga (pietre angolari del pensiero contemporaneo), la scelta di Trump di non apparire a fianco di nessuno (e non si può dire che in America manchino le star repubblicane: uno per tutti, il grande Clint Eastwood) è perché ha capito, LUI HA CAPITO, non gli altri, che per il solito povero, il solito ex ceto medio eccetera, anche se sei repubblicano, se sali su un palco, se ricco. Sei GLI ALTRI. Sei la CONTINUITA’, cioè TU con i soldi e la fama e IO col mutuo che non ce la faccio a onorare. Che mi importa di te. Non voglio vedere TE: voglio vedere che mi dice parole diverse. Che mi dice cose che interessano a ME.

Hanno votato un ricco perché lui si è fatto capire e ha promesso loro un cambiamento. Che non ci piaccia quello che pensa e che ben poco, alla fin fine, farà per chi l’ha eletto, è scarsamente importante.

Populisti sono LORO, quelli che chiamano gli altri ‘populisti’ e così facendo se la cavano a buon mercato sviando l’attenzione dalle proprie manchevolezze, che imbarbariscono la politica, che la sottomettono all’economia dei mercati, delegando le decisioni più vitali per il mondo a un ambiente gestito da malati di mente (aveva ragione Grillo quando faceva finta di fare il comico: uno che accumula jet privati, barche a vela, decine di auto di lusso pur disponendo di un solo culo col quale occuparne una alla volta solamente, purosangue, settemila cravatte firmate, vasche con idromassaggio, puf e divani pieni di soldi, prima che profittatore, corrotto e talvolta criminale, è uno che non ci sta con la testa) che dirigono il pianeta a colpi di dati virtuali, svilendo con ciò quelli concreti del lavoro e della solidarietà sociale; che se il tuo voto non gli garba, alzano la speculazione sul grano e altri venti milioni di esseri umani sono condannati alla fame o scommettono sull’energia che serve a casa tua per il caffellatte al mattino e la minestra alla sera e sconvolgono la vita di tutti.

E che, per logica e inevitabile (necessaria, secondo uno schema marxiano) conseguenza, portano alla concentrazione delle ricchezze e del potere in poche, ristrette cerchie di persone, con sofferenza e peggioramento di vita per tutti gli altri.

Senza Uguaglianza, Libertà e Fraternità diventano parole vuote che poi si tramutano in percentuali sulla mortalità infantile, finendo per essere solo chiacchiere e distintivo; parecchio sbiadito – specie a Sinistra – il distintivo.

 

Scritto in memoria di Fidel Castro.

Cesare Stradaioli