ANCORA UNA E POI BASTA

La dichiarazione di voto a favore del SI’, nel referendum del 4 dicembre, ormai fortunatamente prossimo, fatta da Romano Prodi, ci dice qualcosa di molto interessante. Purtroppo. E non è in questione la libertà di opinione di Tizio o di Caio o di Romano Prodi o di suo fratello Paolo, il quale – cofondatore de “Il Mulino”, tanto per non fare nomi e per dare l’idea dello spessore culturale del personaggio – ha manifestato intenzione opposta: si tratta del cosa si intende quando si parla di norma di rango costituzionale e, più in generale, della Carta Costituzionale stessa.

E’ indicativo – non meno che amareggiante – notare come Prodi, nel dichiarare il proprio consenso alla riforma RBV, abbia aggiunto il sottotitolo, ormai consueto e ripetitivo, di moltissimi altri: La riforma è poco chiara. Altri, come Cacciari, dicono che ‘fa schifo‘, altri ancora ne parlano come qualcosa di modificabile. Il che, oltre a rappresentare uno dei particolari vizi italiani, cioè quello di fare qualcosa, ma fino a un certo punto, tanto poi accontentiamo tutti con qualche modifica, in questo modo non compiendo quasi mai qualcosa di decisivo e significativo, quale che sia il senso, la dice lunga sull’approccio culturale che molti politici hanno rispetto alla formazione delle leggi. E Romano Prodi, fra costoro, è uno dei più eminenti e rispettabili.

Tutti coloro che aggiungono, alla propria dichiarazione di SI’ considerazioni non certo positive sulla riforma, prima di essere tristi epigoni di Montanelli, quando invitava gli elettori anticomunisti a turarsi il naso e a votare DC (sia consentito un ricordo personale: il nonno di cui porto nome e cognome, fascistissimo e anticomunista della prima ora, si sarebbe fatto applicare elettrodi in posti sensibili, piuttosto che votare Democrazia Cristiana, ma lui era uno di quelli che nei Paesi ispanici chiamano hombre verticàl e in Italia ci sono molti orizzontali o, peggio ancora, curvi o chini), dimostrano di avere un’idea giuridicamente sbagliata delle leggi.

Ancora una volta e poi, basta, come dice il titolo. Una legge ordinaria è fisiologicamente fatta per essere cambiata: in quanto espressione della volontà popolare, mediata dall’attività parlamentare (legislativa) e di governo (esecutiva) di coloro che vengono eletti, può e per certi versi deve essere soggetta a modifiche, cambiamenti, aggiustamenti. Anche perché può, e per certi versi deve diventare, da disegno di legge quale nasce, legge vera e propria anche a dispetto della minoranza dei rappresentanti parlamentari. Perché chi governa, deve governare e chi ha la maggioranza deve esercitarla: si è messi lì per quello e non per altro.

Una legge di rango costituzionale, la Costituzione stessa, al contrario, è fatta – DEVE essere fatta – per durare, possibilmente svariate generazioni. Perché un articolo qualsiasi della Costituzione NON è una legge ordinaria (tanto che per modificarlo o abolirlo serve una maggioranza qualificata del Parlamento) e proprio per questo prima di tutto deve durare e poi non può essere imposta alla minoranza, non può essere il concretarsi del risultato elettorale che dà a questo o a quel partito, a questa o quella coalizione il diritto/dovere di legiferare, possibilmente per il bene comune.

Deve, invece, rappresentare quante più volontà possibili, incontrare il maggior numero possibile di consensi, perché si tratta di un’architettura che disegna e sorregge l’impianto stesso dello Stato: le porte di casa, le finestre, le maniglie dei bagni si possono e si debbono cambiare, anche a seconda dei gusti; le fondamenta no, o almeno solo in caso di necessità e con la massima cura. E non si può dire: beh, intanto facciamole e poi in qualche modo le aggiustiamo.

Che è esattamente quello che ripetono, con toni e parole a volte diversi, ma con le medesime finalità, moltissimi di coloro che voteranno SI’ e nel fare questo, appunto, commetteranno un gravissimo errore; non perché daranno torto, dovessero vincere, a quelli che votano NO, ma perché tratteranno norme costituzionali alla stessa stregua di quelle ordinarie.

Una riforma costituzionale deve durare decenni: non si può approvarla, ma poi dopo insomma, rimediamo alla scarsa chiarezza, la riscriviamo meglio, mettiamo a posto lì, cambiamo là, aggiustiamo qui e là

Chi vota SI’ con la riserva mentale che la riforma fa schifo, è scritta male, si capisce poco, è emendabile a breve, ha torto perché confonde le leggi e la loro diversissima natura, ha torto perché toglie fondamenta di cemento armato e le sostituisce, sia pure in parte, con paletti di legno, ha torto perché (e in questo gli si fa credito di onestà intellettuale, ché dei disgraziati che – anche fra coloro che votano NO – utilizzano questo referendum per scopi personali e di potere non mi occupo) pecca di superficialità e di leggerezza nel decidere su una riforma che non può e non deve essere cambiata, una volta approvata, se dovesse esserlo.

E un’ultima cosa: altro tormentone da campagna elettorale dice che chi vota NO vuole che le cose rimangano come sono. Io mi permetto di esprimermi per mio conto e per tutti coloro che onestamente difendono la Costituzione, ma ai quali non garba per nulla che l’Italia sia imbacchettata, ingessata, bloccata dalla burocrazia e che credono nelle modifiche, quando sono necessarie, utili e scritte bene: votiamo NO perché non vogliamo QUESTA riforma. Altri, come Salvini o Berlusconi votano NO in opposizione a questo governo e per rilanciarsi in vista delle prossime elezioni.

Noi votiamo NO perché vogliamo cambiare, ma in meglio, non in peggio.

Cesare Stradaioli

Voto all’estero

Non sono favorevole a che votino gli italiani residenti all’estero. Si tratta di una presa di posizione che, ovviamente, retrodata di gran lunga rispetto alle questioni che stanno sorgendo in occasione del referendum del 4 dicembre prossimo.

Dal 2000 al 2004 ho vissuto in South Australia e fino a qualche mese prima del ritorno, la mia idea era di rimanerci se non per sempre, comunque senza un’idea precisa se e quando tornare. Non mi trovavo ancora nella condizione di diventare cittadino australiano e non credo che avrei rinunciato alla cittadinanza italiana – se mi fosse stato imposto l’aut aut -: in ogni caso, ero iscritto all’AIRE (Associazione Italiani Residenti all’Estero) e non ho votato né alle elezioni politiche né a quelle amministrative e neppure al referendum del 2003, che incorsero in quel periodo di tempo, pur avendo ricevuto tempestivamente apposita documentazione elettorale che mi avrebbe legittimato a farlo.

Non ho votato per il semplice motivo che non ritengo né giusto né opportuno che un cittadino italiano che risieda stabilmente all’estero, che quindi è socialmente, economicamente e politicamente strettamente connesso con il Paese che lo ospita (e, per converso, sconnesso dall’Italia), possa contribuire a decidere come debbano vivere gli italiani che rimangono a vivere nel nostro Paese; e questo senza nessun giudizio di merito su cosa significhi rimanere e cosa significhi partire, cosa che peraltro consiglio a tutti i giovani, quanto meno per un certo periodo, si tratta di un’esperienza che forma carattere e personalità.

A parte il fatto – e l’ho sperimentato in prima persona – che anche nella società delle comunicazioni in tempo reale e pur vivendo in un Paese evoluto e civile, la distanza non rende per nulla facile formarsi un’opinione politica corretta su questo o quel partito, movimento, singolo rappresentante istituzionale e amministrativo – si rischiano fraintendimenti, equivoci, incomprensioni, veri e propri abbagli, anche a causa di una certa stampa, va detto; a parte ciò, quand’anche un cittadino italiano stabilmente all’estero fosse informato e consapevole in maniera sufficiente per esercitare il diritto di voto (e sarebbe tutto da discutere, lo ammetto, intorno a quanti nostri connazionali raggiungano quella sufficienza), non si vede per quale motivo, da distante e magari senza avere messo piede in Italia da anni e forse senza mettercelo mai più nel futuro, costui possa decidere in campo politico e amministrativo. Insomma, non ritengo che abbia lo stesso diritto mio, che in Italia sono tornato a vivere e di tutti gli altri che non se ne sono mai allontanati se non per turismo, non fosse altro per il fatto che, poi, esiste la concreta possibilità che una certa somma di voti di italiani residenti all’estero sposti l’ago politico della bilancia di quella cifra percentuale da dare la vittoria a questo o a quel partito, a questa o quella lista, in modo tale che la maggioranza dei residenti potrebbe optare per la coalizione X, ma quella Y vince in virtù della percentuale portata dai voti degli italiani all’estero.

In periodi di grandi equilibri, di formazioni o coalizioni politiche che tendono a somigliarsi, in aggiunta a un elettorato (quello italiano) che storicamente sposta di pochissimo le proprie preferenze – l’esempio del M5S è più unico che raro – è del tutto plausibile che su un elettorato di oltre 50 milioni, con tre milioni residenti all’estero oggi aventi diritto, anche solo 500mila voti (l’1%!) possano risultare decisivi, alla conta finale. E’ accettabile, tutto ciò? E’ congruo? Io sostengo di no. Una simile ipotesi può dirsi seriamente rappresentativa della volontà popolare? Potrebbe definirsi rappresentativa di quella ELETTORALE, con ciò intendendo la massa di coloro che ricevono un certificato elettorale – in questo senso è secondario l’uso, votare o astenersi dal voto, che ne viene fatto: ma può dirsi altrettanto rappresentativa della volontà del POPOLO sovrano che abita il suolo statale, che ci vive e ci lavora tutti i giorni, che tutti i giorni porta i figli a scuola, va al mercato, partecipa alle manifestazioni sociali, beneficia di servizi, li paga (chi lo fa) tramite il prelievo fiscale, chiede di partecipare e dà voce alle proprie idee? Ancora una volta, dico no.

Perché un signore che gestisce un ristorante a Sydney, una signora che insegna italiano a Stamford, una scienziata che vive e lavora a Capetown, un ricercatore che se n’è andato a cercare (e trovare) a Pechino migliore e più accettabile riconoscimento ai propri titoli di studio, dovrebbero avere voce in capitolo e decidere anche per i loro colleghi che sono rimasti (contenti o meno) in Italia, dei loro destini politici (e, vorrei dire, quelli di qualche generazione futura, se pensiamo al referendum del 4 dicembre)?

Non sarebbe preferibile – personalmente era e rimane la mia opinione – che un residente in un tale Paese, dove cioè vive, lavora, paga le tasse, mette su famiglia, un’attività, dove concepisce le proprie idee che siano a carattere scientifico o letterario, dove insomma come individuo incide sulla realtà sociale, politica ed economica di QUEL Paese, molto ma molto di più di quanto fa – o non fa per niente addirittura in Italia – possa esercitare il diritto di voto là dove risiede? Non sarebbe più consono al concetto stesso di partecipazione?

Questo, ovviamente, spetta alla decisione sovrana di ogni singolo Stato: per quanto concerne l’Italia, io penso che il nostro Paese dovrebbe fare di tutto per evitare le migrazioni per necessità o insoddisfazione; detto ciò, braccia (e urne) aperte a chi torna stabilmente, dopo essersene andato per migliorare la propria vita o anche semplicemente per cambiarla, ma fino a quando rimane a risiedere fuori dai confini nazionali, non è opportuno che possa continuare a esercitare un diritto al quale ha rinunciato.

Cesare Stradaioli

Carta perde, carta perde.

Andrà male comunque. Quale che possa essere il risultato del referendum del 4 dicembre, chiunque abbia vinto – chi avrà perso, c’è da scommetterci, tirerà fuori due argomenti; primo, hanno a malapena votato due cittadini su tre e secondo, una materia di simile portata e complessità non poteva né doveva essere oggetto di consultazione popolare (argomento sollevato da chi scrive in tempi non sospetti e ribadito anche oggi, nonostante sembri che l’opzione preferita, il NO, vada a prevalere), vedi commenti sulla ‘Brexit’ – ne uscirà un Paese diviso, lacerato e conflittuale. Non se ne sentiva la necessità.

Era, per contro, necessaria, un’azione di governo che realmente incidesse sulla povertà, il lavoro, la messa in sicurezza di beni culturali e del territorio stesso dove abitiamo, che agisse con discrezione e intelligenza nello scenario internazionale, che desse speranza, opportunità, motivo di essere socialmente coesi e per quanto possibile uniti e solidali, anche nei confronti di coloro che fuggono da guerra, miseria, integralismo religioso.

E’ stata portata avanti a tamburo battente una riforma di scarsa utilità, da un lato (i risparmi sulla politica saranno risibili, non è vero che il parlamento italiano legifera poco e male, la stabilità di governo è, in sé, una panzana politica) e, dall’altro con l’improntitudine, l’arroganza e – bisogna dirlo – una sesquipedale ignoranza dei fondamentali della dottrina politica, scambiando (da stabilire se e quanto inconsapevolmente) l’approvazione della riforma di una gran parte della Carta Costituzionale con una legge ordinaria qualsiasi.

E’ l’argomento più spesso trattato (a livelli, diciamo, ‘alti’) da diversi e più portati al dialogo che all’invettiva fra coloro che sostengono il Sì. Significativo, a tale proposito, è l’intervento di qualche settimane fa, su ‘Repubblica’ di Angelo Bolaffi. L’illustre germanista, dopo un breve excursus sulle vicende che portarono alla caduta della Repubblica di Weimar – ovvio e conseguente il richiamo alla stabilità di governo, strettamente collegata a suo dire con l’approvazione della riforma Renzi-Boschi-Verdini – giunge a un’affermazione che, a memoria suona più o meno così: quando si fanno le leggi è inevitabile scontentare qualcuno, essendo impossibile nel mondo degli umani che una norma possa essere pensata e scritta per regolare una determinata materia di comune accordo fra tutte le componenti sociali, politiche ed economiche di un consorzio civile. In breve, chi vince le elezioni, ha da governare e, anche senza arrivare necessariamente agli metodi di ispirazione britannica, dove si teme da sempre la cosiddetta ‘dittatura della maggioranza’, quando si forma il Parlamento e si insedia un esecutivo, il loro compito (come recita la nota tripartizione, unitamente a quello giudiziario che spetta alla magistratura), è legislativo ed esecutivo. Per fare questo, per governare un Paese e costituire un corpo di rappresentanti della cittadinanza, va cercata una comunanza di vedute finché si può: dopo di che, SI DEVE legiferare e SI DEVE governare e che qualcuno, anche in forte percentuale, ne sia scontento, ebbene questo è il sale della democrazia, è l’altra faccia (per nulla oscura) della tenzone elettorale e, lungi dal costituire avvilimento degli scontenti, deve al contrario produrre in essi idee ed energie per diventare, a loro volta, maggioranza: in modo da poter e dover legiferare e governare, anche prevalendo su una minoranza – debole o forte che sia.

Ma la Costituzione non è un corpus di leggi ordinarie: una riforma di parte di essa non può essere posto alla stessa stregua della procedure legislativa ordinaria.

E’ giusto, è doveroso consultare, contrattare, condividere, esaminare, confrontare ogni aspetto e rappresentanza sociale, nel momento in cui si costruisce, per così dire, una legge; ma, a un certo punto, si deve decidere, pena la stasi, la paralisi, il vuoto politico. Sotto questo profilo non si può essere in disaccordo con coloro i quali rilevano come la nostra società sia, in qualche modo, impacchettata, ingessata, immobile – forse perché a ciò costretta da troppe leggi, sicché la necessità di uno sveltimento nel legiferare (uno degli argomenti forti del Sì) apparirebbe fasulla, a fronte di una diversa e più qualificata esigenza quale, per esempio, la migliore scrittura delle leggi stesse?; ma un conto sono, ancora una volta, le leggi ordinarie che, viene da dire, quasi fisiologicamente dividono e contrappongono: altro sono le norme di rango costituzionale.

Una Costituzione, ma anche una sua pesante riforma, non devono MAI dividere: nella loro predisposizione si deve fare esattamente il contrario di quello cui si è appena accennato, vale a dire coinvolgere il più possibile, per quanti tentativi possibili, finché è possibile. E se non è possibile, ebbene, non si faccia! Si vede che non è il momento per farlo. Difficile ipotizzare nel 1920 – per dire – una comunanza di intenti anche lontanamente paragonabile a quella che si è concretata nell’Assemblea Costituente del secondo dopoguerra; e altro che se, dopo la prima guerra mondiale, anche al solo fine di evitare il baratro fascista, non ci fosse stato bisogno di un qualcosa che assomigliasse a quella magnifica mobilitazione di saperi e di personalità. Non era il momento, non era storicamente necessario, a dirla marxianamente ed è andata com’è andata.

Il momento per riformare una Costituzione è necessario solo se unisce e per una semplice ragione, a voler semplificare: una legge ordinaria è fatta per essere cambiata (pensiamo a quelle sul comune senso del pudore che erano soggette al diverso sentire popolare o al testo unico sugli stupefacenti, modificato quattro volte in 26 anni) e il più delle volte il cambiamento è indice di crescita civile e culturale; una norma di rango costituzionale DEVE durare svariate generazioni, perché è uno dei mattoni su cui poggia l’edificio dello Stato. Oppure, a voler citare Calamandrei, perché le norme costituzionali sono fatte da sobri per quando si è ubriachi. La Costituzione non è di chi la scrive, di chi la approva, di chi vince il referendum: la Costituzione è di tutti, DEVE esserlo; o, semplicemente, non è.

Questa riforma costituzionale è stata fatta da ignoranti e arroganti – qualcuno, come chi scrive, li ritiene per lo più eterodiretti, come il non illustre ex Presidente della Repubblica che preferiamo non nominare – partiti lancia in resta come se una riforma dovesse significare prima di tutto la vittoria propria e la sconfitta di chi non ci sta, spacciando il tutto per modernizzazione e innovazione, asserendo di metterci la faccia e promettendo il ritiro se andasse male; di nuovo trattando il tutto come se a rimetterci, in qualsiasi caso, fosse il singolo politico o il gruppo perdente e non la società intera. Il dibattito è involgarito e incattivito e parlano al vento o pochi che trattano la questione, in un senso o nell’altro, con pacatezza e ragionamento.

Non è così. E non sarà così il 5 dicembre; giorno in cui, svegliandoci, troveremo un Paese ancora più spaccato, diviso, litigioso, rancoroso; in cui la tara italiota di cui parlava Leopardi, intorno alla incapacità di collaborare, alla pervicace volontà di vedere battuto l’avversario, piuttosto che vincente la nostra idea, trarrà ancora più vigore.

Il berlusconismo non è finito: prosegue sotto altre – neppure tanto mentite – spoglie. Oltre che con la consueta invasione dei mezzi di comunicazione, con la contumelia tardo-dannunzian-sgarbiana e con la disinformazione più pervasiva, prosegue con la diffidenza, il dagli al traditore, col cambio di casacca, con l’indifferenza verso tutto quello che non appartiene al mio orticello, con spaccature pressoché in ogni ganglio sociale e civile, con l’incomunicabilità. Con il chi non è con me è contro di noi, con la menzogna, con il tradimento dei politici che spacciano dati falsi, che comprano e vendono e SI vendono, non mancando mai nel nostro Paese i compratori. Con il dispregio delle regole di vita e di relazione, oltre che politiche.

Non vincerà nessuno, il 4 dicembre: perderemo tutti. E poi non si venga a dire che non era stato – da lunghissimo tempo – detto.

Cesare Stradaioli

Giochi olimpici e corruzione – II°

Il sistematico accantonamento dall’agenda politica della questione criminalità organizzata è strettamente connesso a quella che, un tempo lontano, fu chiamata ‘questione morale': la questione della corruzione.

Ora, io penso che intorno alla questione della corruzione sia necessario qualche chiarimento. Da tanto tempo, troppo, è invalso un tipo di pensiero omogeneo, sostanzialmente vincente e apparentemente inattaccabile, secondo il quale i mali della nostra società – e, per certi versi, utilizzando l’analogia alla bell’e meglio, anche altre – siano in definitiva riconducibili alla disonestà della nostra classe dirigente; alla sua ignoranza, alla sua impreparazione, al suo scarsissimo (per non dire: inesistente) senso dello Stato. Certo, le radici del disfacimento sociale italiano sono lunghe e partono da ben prima dell’irrompere delle televisioni private e di Berlusconi, il quale non ha fatto altro che dissotterrarle, sdoganarle, queste radici, allo stesso modo in cui ha sdoganato i fascisti al governo e dintorni; e tanti sono i guai, tanti sono i guasti da avere cento padri e cento madri.

Ma la vulgata predominante, oggi, nella nostra società è quella della Casta; il fortunatissimo libro di Rizzo e Stella – bollato anni fa da Luciana Zerbetto, notissima esponente politica del padovano, come qualunquismo puro (con ragione da vendere, come spesso le capitava: in realtà non era altro che lucida capacità di analisi e sintesi, imparata e studiata sui duri banchi della scuola di Partito) e con un discreto anticipo, aggiungerei – è stata la svolta di pensiero e di propaganda, ignoro quanto voluta dagli autori (né me ne interessa più che nulla), sorgente di slogan e di demagogia alla quale si sono abbeverati direi quasi tutti in Italia: non limitandosi a dissetarsene, provvedendo invece a imbottigliarne il prezioso liquido al fine di distribuirlo all’elettorato – da noi la campagna elettorale non finisce, se mai agisce sottotraccia e del resto è inevitabile da quando un gruppo di geni della politica ha pensato di fare in modo che elezioni politiche e amministrative si alternassero, un po’ come i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, ogni due anni per non perdere la tensione.

Il qualunquismo che sta alla base del libro e di tutto quanto ne è seguito sta nel fatto di avere provato, riuscendoci alla grande, a convincere i lettori prima, e subito dopo la più generale massa di elettori, comunque di cittadini, che corruzione, concussione, interesse privato in atti d’ufficio, perfino l’assenteismo fossero fatti illeciti cosiddetti ‘monosoggettivi’, cioè commessi da un unico soggetto: il corrotto, il disonesto, pubblico ufficiale o comunque rappresentante istituzionale e che di questa monosoggettività, cioè di questa azione posta in essere da una sola persona caso per caso, abbia a beneficiarne per l’appunto l’unico soggetto, con relativo e corrispettivo danno per tutti. E’ evidente che questa teoria, questa vulgata assolutamente vincente in quanto parte integrante e fondamentale del pensiero comune dell’intera cittadinanza – irresistibile, in quanto ripetuta a tamburo battente – abbia costituito un magnifico lavacro di coscienza per un discreto numero di nostri connazionali: è il politico, il disonesto; il sindaco, l’assessore, il consigliere, il geometra del comune, l’assenteista. Loro sono la causa del fenomeno della corruzione e questo mantra viene ripetuto all’infinito, senza considerare neppure per un momento che se c’è un corrotto a percepire la tangente, ovviamente c’è un corruttore che la porta e per forza di cose a proprio tornaconto; che se centinaia di vigili urbani producono certificati medici in prossimità dell’ultimo dell’anno o se ci sono decine di migliaia di falsi invalidi o falsi ciechi, ciò è dovuto al fatto che ci sono centinaia e forse migliaia di medici compiacenti (o in diversi casi semplicemente cialtroni, facciano loro) che li firmano, quei certificati che danno diritto a non lavorare o a percepire una pensione non dovuta. Il tutto, questo sì, a scapito della collettività.

Questo, credo, spiega la riluttanza a trattare della corruzione, a parlarne: al di là della corruzione quando diventa sistema di controllo politico – si dice che un politico si corrompe una volta sola, poi per il resto della sua vita lo si ricatta – quella diffusa, quella di tutti i giorni, vede i cittadini corruttori, beneficiari di regalie, di privilegi, di favoritismi – di certificati! – quali portatori di interessi personali che per forza di cose vanno contro quelli della collettività e da ciò ci si chiede: può il singolo rappresentante istituzionale avere interesse a sputtanare coloro i quali gli passano la busta o spianano la strada alle carriere dei familiari o gli fanno avere viaggi di lusso o week end nei finalmente liberi Paesi ex Cortina di Ferro, generosi nel fornire il servizio più ricercato in occidente?

Può, una classe dirigente – peraltro eletta dai cittadini, non certo ascesa alla stanza dei bottoni dopo un colpo di Stato – certamente ignorante, miserabile, meschina, vendicativa, debole coi forti e forte con i deboli, sostanzialmente povera di preparazione politica (e per forza, dopo la distruzione delle scuole di partito) rivolgersi alla cittadinanza esortando, come dovrebbe se fosse onesta, a fare fronte comune contro la corruzione e il malgoverno, con la consapevolezza che una bella fetta dei destinatari del messaggio sono coloro che la foraggiano, la corruzione, che mantengono il malgoverno del Paese?

Allo stesso modo in cui ogni qual volta si parla di evasione fiscale in genere si riceve uno sbuffo di insofferenza come risposta – dato che, una volta tanto, è chiaro che a parte qualche caso, non sono i politici a evadere il fisco ma siamo noi italiani, noi elettori, noi cittadini – evitare per quanto possibile di parlare di corruzione è un modo per deviare le responsabilità, per spostarle altrove, puntandole contro uno solo dei (necessariamente due e in alcuni casi più di due) soggetti che compongono l’illecito chiamato corruzione o concussione o interesse privato in atti d’ufficio, per lavarsi la coscienza, per mantenere vivo a dispetto dei millenni, il concetto di capro espiatorio o, comunque, l’idea che il reato lo commettono gli “altri”, non io singolo cittadino.

E’ il politico che prende i soldi – da chi?; è il consulente che firma falsi elaborati peritali – per conto di chi?; è l’impiegato comunale che sta a casa con un certificato medico fasullo – firmato da chi?: e tutto questo, per bontà d’animo o in cambio di qualcosa?

E’ sempre qualcun altro che evade le tasse; è sempre l’altro – il politico – a essere disonesto; l’assassino che ha stuprato e ucciso il bambino è un corpo estraneo alla comunità (stramaledetta parola, portatrice infetta di individualismo, separatismo, antisolidarismo), la quale per contro è sana, immune da certe bestialità, come se il violentatore, il marito o compagno omicida provenissero dallo spazio profondo, in compagnia dell’evasore fiscale e del politico corrotto.

Per queste ragioni è deludente – certo, non inaspettato – che la diatriba riguardante l’assegnazione a Roma delle Olimpiadi del 2014 abbia trattato di svariati temi ma mai quello più centrale, il nervo scoperto della nostra società. E fino a quando non se ne parlerà come si deve, non sarà affrontato come si deve: e non sarà risolto.

Cesare Stradaioli

1 Comment

Chi si fida e chi non.

A differenza di quasi tutti gli altri, vale sempre la pena di riflettere su quanto dice o fa Gianni Cuperlo, se non altro per lo spessore intellettuale e per l’onestà di base della persona. In questo senso, la notizia secondo la quale avrebbe deciso di orientarsi per il Sì al referendum, in cambio di una riforma della legge elettorale, impone di mettere da parte le reazioni di pancia, per lasciare posto all’analisi e alla valutazione che meritano

A quanto ho capito, la sua decisione ha questo ragionamento di base: bisogna avere l’occhio lungo e se è logico che un giurista (che non è un politico) si schieri per un verso o per l’altro a secondo di giudizi puramente giuridici, d’altro canto il politico deve andare con lo sguardo oltre il lunedì prossimo.

Pertanto, sempre se interpreto correttamente il suo pensiero, si può anche sacrificare una riforma costituzionale (che può sempre essere, in qualche modo, emendata in futuro) per avere una legge elettorale che impedisca il premio di maggioranza così com’è previsto adesso: un NO vorrebbe dire esporsi al rischio di un ricompattamento fra la maggioranza del Pd e una fetta più consistente di centrodestra, che lascerebbe da parte la riforma costituzionale, ma approverebbe una legge elettorale anche peggiore e prima che possa intervenire la Corte Costituzionale, si formerebbe un nuovo Parlamento, totalmente succube a quello che potremmo chiamare il Partito della Nazione (che, fra l’altro, ne eleggerebbe una bella fetta, di Giudici Costituzionali).

Non è possibile concordare con questa impostazione.

Dal punto di vista strategico, sarebbe anche un discorso da prendere in seria considerazione: ma il punto fondamentale è che si basa su un atto di fiducia nei confronti dell’attuale esecutivo e di chi ci sta dietro e la cosa non può essere accettata.

In linea di principio, perché sappiamo di chi si tratta e già questo basterebbe; ma, in ogni modo, la politica non è fare affari e se un domani l’esecutivo fallisse nell’imporre il voto di fiducia (magari con il marcare visita dei famigerati 101 che trombarono Prodi) per una nuova e migliore legge elettorale? Niente nuova legge elettorale, ma una Costituzione distorta e piegata alla forza dell’esecutivo – da chiunque sia guidato.

Non siamo nel mondo degli affari, dicevo: non siamo in campo civilistico, qui se la controparte non adempie alla propria obbligazione (di carattere naturale, fra l’altro, non risultando esistere un contratto scritto, comunque non tutelabile) non c’è un giudice, non a Potsdam, né a Berlino e neppure a Roma che possa essere investito di un ricorso che condanni l’inadempiente ad adempiere.

Non si firmano cambiali in bianco, specie nel nostro Paese. Vada bocciata la riforna elettorale e con essa il cosiddetto ‘Italicum': dopo di che, si torni in Parlamento, si faccia quello che aveva esortato di fare la Corte Costituzionale e nel giro di 3 mesi si approvi una nuova legge elettorale, rispettosa delle indicazioni della Corte delle Leggi e poi al voto e vinca il migliore.

Oppure, opzione da me preferita, dato che il ‘Mattarellum’ non è stato abrogato ma solo sostituito (dal ‘Porcellum’ e dal quello nuovo in vigore), è soggetto a rivivescenza.

E si voti con quello.

Cesare Stradaioli

Giochi Olimpici e corruzione – I°

E’ singolare – e sinistramente indicativo – il fatto che nella diatriba alla quale abbiamo assistito in relazione alla decisione di candidare o meno Roma per le Olimpiadi del 2024, da entrambe le parti sia mancato il benché minimo riferimento, in mezzo a diversi agromenti pro e contro, quasi tutti dotati di valide argomentazioni, a una questione centrale per il nostro Paese: la presenza, in tutti i gangli produttivi e finanziari, della criminalità organizzata.

Il fatto è indicativo della sistematica azione di rimozione che viene fatta, a livello di stampa e di propaganda politica, in merito a quanto e come la criminalità organizzata influenzi e determini i destini economici e politici non solo italiani ma dell’intero mondo occidentale, con le debite differenze. Il clichè del mafioso con la coppola e la lupara o del camorrista chiassoso con la villa costruita a mo’ di “Scarface” – non esiste (e anche questo è fortemente indicativo, in altri sensi) un topos dell’affiliato tipo alla ‘ndràngheta – ormai è quasi del tutto scomparso anche dall’immaginario collettivo dei commentatori stranieri: regna l’ordine, nelle regioni dalla quali i fenomeni organizzati nascono e questo non significa altro che gli affari vanno bene. Solo che gli affari si fanno altrove, in giacca e cravatta e via internet, possibilmente senza sparare un colpo, che il sangue sporca. Malgrado ciò, nonostante il fatto che le librerie e le biblioteche pubbliche e private siano stracolme di analisi sociologiche e criminali che, senza tema di smentita, ci dicono ormai da vent’anni che la criminalità organizzata investe nella legalità (immobili, costruzioni, scommesse legalizzate, finanza) i proventi della illegalità (stupefacenti, prostituzione, gioco d’azzardo, estorsioni), malgrado il fatto che qualsiasi magistrato, qualsiasi investigatore sa benissimo che il lavaggio del denaro sporco costituisca un affare con bilanci superiori a qualsiasi Paese del Terzo Mondo e a molti Paesi cosiddetti sviluppati, la questione proprio non entra nelle agende della politica e, di conseguenza, nel dibattito e nella coscienza collettiva.

Personalmente condivido le ragioni del NO alle Olimpiadi, sotto il profilo dell’impegno finanziario: troppe volte, in passato e in troppe situazioni, le città e i Paesi ospitanti hanno avuto l’onore di ospitare i Giochi Olimpici per poi, subito dopo e per decenni, subite l’onere finanziario che è costato immense cifre sottratte al welfare. Per non parlare del fatto che nel nostro Paese, ben prima dell’organizzazione di Olimpiadi o altri cosiddetti ‘grandi eventi’ (definizione che, da noi, presenta regolarmente il conto in termini di code giudiziarie), la priorità andrebbe assegnata a ben altre urgenze, quali l’ambiente, la scuola, la sanità, la giustizia – a tacer d’altro, che ognuno ha diritto a rivendicare qualcosa nel proprio ambito.

Ma prima di tutto, prima di ogni altro discorso, direi che sia obbligatorio, in Italia qui e ora – e per un bel po’ di tempo ancora – porsi il problema dell’invasività della criminalità organizzata nell’intera macchina amministrativa e realizzativa di un avvenimento quale le Olimpiadi. E proprio a Roma! Dove è in corso un processo denominato ‘Mafia Capitale’! Mettiamo da parte per un momento l’ipotesi accusatoria relativa alla presenza di un’organizzazione dotata di tutte le caratteristiche della mafia; la tesi di alcune difese, in questo processo, rappresentate da eminenti studiosi penalisti, secondo la quale non si possa parlare di Mafia, è ragionevole pur se si può non condividere, ma non è questo il problema, se si parla di candidatura ai Giochi Olimpici. E’ materia, l’accertamento del carattere mafioso dell’organizzazione che farebbe capo a Massimo Carminati, di competenza dei giudici di QUEL processo. Ma, che vi sia o meno un carattere mafioso, questo non toglie che, di fatto, l’ambiente politico e imprenditoriale nazionale in genere e romano nello specifico fosse  – e, secondo una concreta dose di buon senso, ancora sia – fortemente impregnato dalla criminalità, più o meno organizzata.

Proprio a Roma, proprio in Italia, in QUESTA Italia, è da domandarsi come possano persone dotate di un minimo di quella che il codice civile chiama, con un arcaismo che travalica il tempo ‘diligenza del buon padre di famiglia‘, ossia la capacità, il raziocinio, la ragionevolezza e l’onestà di base – non disgiunte da una certa dose di malizia – di rapportarsi alle dinamiche sociali ed economiche di un consorzio civile, è da domandarsi si diceva come si possa ipotizzare uno scenario di progetti, piani regolatori, appalti, costruzioni di impianti, immobili in genere e tutta la serie indispensabile di mezzi e vie di percorrenza e di raggiungimento per e dagli stessi, insomma tutta la mobilitazione sociale e tutto l’indotto economico che una Olimpiade porta con sé, senza preoccuparsi di chi possa trarne illeciti guadagni e come e agendo verso chi o per conto di chi. Si tratta di una questione ineludibile; a tutti coloro che in buona fede sostengono la necessità di un rilancio economico che dia nuovo impulso al lavoro, alla produttività, al fine di combattere la disoccupazione; che in buona fede si impegnano per liberare questo Paese da pastoie burocratiche e – diciamocelo – da una certa tendenza al fatalismo e all’immobilismo; che in buona fede credono che un nuovo impulso di crescita materiale e morale, per combattere la povertà e le disuguaglianze passi anche attraverso l’assunzione di impegni di grande spessore che comportano impegno e serietà; a tutti costoro è necessario, è indispensabile ricordare dove viviamo e cosa succede praticamente ogni giorno. Se non ogni giorno, quasi non v’è settimana in cui non si dia la notizia di una nuova azione giudiziaria – ovvero lo sviluppo di una o più già avviate – aventi a oggetto la corruzione. A parte tutte le severe critiche da farsi intorno a un progetto quale quello olimpico che da noi, per forza di cose, ricorda ritardi, errori, disguidi, fallimenti strutturali veri e propri: proviamo a ipotizzare che un evento olimpico realizzato secondo tutti i crismi di legalità e di utilità sociale, oltre che di profitto privato, possa costituire (anche semplicemente annunciandolo, mancando ancora otto anni alla data di svolgimento) una spinta di portata epocale per il nostro Paese, sotto tutti i punti di vista, interno e internazionale; ma seriamente si può pensare che sopra questa torta miliardaria – non perdiamoci in cineserie: c’è una montagna di denaro e di potere alla base di una ‘spinta di portata epocale’ che si rispetti – non ci metta mano quella che, probabilmente, è la struttura economica e finanziaria più solida, non solo in Italia ma in tutta Europa? L’unica, verrebbe da dire, in grado di garantire nel Paese dei ritardi, delle deroghe e delle proroghe, una consegna pronta ed efficiente, scevra da grattacapi quali sindacati, sicurezza sul lavoro e giuste rivendicazioni salariali, in quanto capace di regolarli a modo proprio, magari per interposta persona?

(continua)

 

 

 

IL LIBRO DEL MESE DI NOVEMBRE – Consigliato dagli Amici di Filippo

Luciano Gallino ci ha lasciati lo scorso anno con un lucido e ficcante saggio intorno a problematiche riguardanti l’Unione Europea, il neoliberismo, la precipitosa ritirata della Sinistra dal tavolo politico e, ultima ma non ultima – come recitano titolo e sottotitolo – l’uscita dalla moneta unica. Si tratta di un’analisi, talvolta assume l’aspetto di vero e proprio attacco senza quartiere a persone e ideologie, che esamina nel suo complesso la situazione sociale in Europa. Più che un saggio omogeneo, il testo si presenta come una raccolta di saggi con, al termine, un’ipotesi – scritta in modo tutt’affatto diverso – che concerne la moneta unica: l’Autore è mancato un mese dopo la nota finale e questo può spiegare il titolo e la scelta editoriale dell’opera, apparentemente poco congrui rispetto al contenuto. Sottigliezze, che non meritano ulteriori considerazioni.

Senza mezzi termini, Gallino attribuisce al trionfante neoliberismo la crisi del 2007 che tutt’ora riverbera i propri effetti praticamente a livello globale, senza che se ne veda una sia pur pallida via d’uscita. Quella che definisce ‘straordinaria potenza predatoria’, che non tollera leggi né vincoli, nell’arco di un trentennio ha provocato un balzo all’indietro culturale, politico ed economico senza precedenti, con la democrazia svuotata, il lavoro svilito e i diritti compressi. Il tutto inizia, da punto di vista concettuale con l’aver fatto passare, fra le altre, l’idea che la crisi da debito privato delle banche sia in realtà la crisi da debito pubblico degli Stati, il che non solo ha avvalorato la ancora solidissima e dura a morire tesi secondo la quale vi è un eccesso di spesa sociale, ma in questo modo ha mascherato le vere radici della crisi, che si situano all’interno del mondo finanziario, opaco e non tracciabile.

Nel frattempo, il sistema industriale – che comunque andrebbe rivisto e ripensato – si sfalda e perde di consistenza e questo con la complicità di sindacati indeboliti e di partiti di Sinistra resisi da sé subalterni alla Destra e alle sue più viete e retrograde istanze e ai suoi slogan più miseri e, proprio per questo, più vincenti: quante volte abbiamo sentito invocare gli investitori stranieri, i capitali stranieri che stanno alla larga dal nostro Paese e davanti ai quali, per contro, dovrebbero essere stesi morbidi e accoglienti tappeti? Ebbene, sono arrivati, gli investitori stranieri: hanno comprato, hanno approfittato delle legislazioni scandalosamente a loro favore e contro le istanze salariali e sindacali, hanno delocalizzato e hanno chiuso, con tanti saluti e ringraziamenti ai governi italiani. Tutte le conquiste ottenute dopo la seconda guerra mondiale, in termini di sistema sanitario e pensionistico, di sicurezza sul lavoro, del miglioramento delle generali condizioni dei lavoratori – in due parole, democrazia sostanziale – hanno subito un brusco arretramento, proprio in nome dei principi del neoliberismo. Il quale, in aggiunta a ciò, è dotato di una formidabile capacità comunicativa di mascherare i fallimenti e le previsioni del tutto sbagliate, sviando sistematicamente l’attenzione proprio delle fasce più deboli della popolazione verso altri argomenti: in questo, bisogna dirlo, enormemente facilitato dalla generosa cooperazione dei partiti ispiratisi ai principi del New Labor di Blair e Schroeder, i cui effetti devastanti peseranno per decenni sulle società e sulla Sinistra europea – se sopravviverà.

In tutto questo, si chiede l’Autore, L’Europa che cos’è? Cosa è diventata? E’ ancora una democrazia? O non si presenta, a parole e nei fatti, come un regime dispotico, capace di violare diritti umani ma anche gli stessi trattati ai quali fa ricorso quando fa comodo? L’Unione Europea ha delle colpe gravissime, delle quali prima o poi qualcuno dovrà essere chiamato a rispondere, nella crisi greca e nel disastro umano che ha provocato una politica criminale verso non tanto il governo attuale (o quelli precedenti: loro sì, caso mai, veri responsabili) quanto piuttosto verso il popolo greco nel suo complesso. Le stesse colpe ha la memoria corta della Germania e di tutti coloro i quali dimenticano che, probabilmente essa è lo Stato più insolvente del XX° secolo.

Quanto a noi, gli ultimi governi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi, secondo Gallino passeranno alla Storia per avere dimostrato una assoluta incapacità di governare – o, forse, una manifesta volontà di non farlo – una situazione che è degenerata sotto tutti i punti di vista. Dal 2007 sono diventati sei milioni e più gli italiani che vivono in condizione di povertà – numerosi enti assistenziali laici e religiosi denunciano una situazione tremenda, nella quale ricevono richieste di aiuto non da solo cittadini extracomunitari ma anche da molti nostri connazionali – cresce sistematicamente il tasso di disoccupazione (e l’Autore si domanda, alla luce di percentuali in costante aumento, con che faccia il Ministro del Lavoro parli di situazione economica in miglioramento), fasce sempre più ampie di cittadini hanno perso tutela e rappresentanza: e tutto questo prepara un futuro per le generazioni a venire da far tremare le vene e i polsi.

La tanto conclamata stabilità politica – che sia realizzata è tutto da discutere – porta il carissimo prezzo di una instabilità personale di decine di milioni di persone, chi si vede negato il presente e chi si vede negato il futuro (molti pensionati si sono già visti negare il passato, con il taglio delle pensioni): senza reddito, senza lavoro, senza prospettive, questa è la condizione del nostro Paese. E non sono i soldi che mancano; per rifarsi al vecchio detto, che quando Tizio mangia un pollo mentre Caio rimane a bocca asciutta, comunque la statistica ci dice che c’è mezzo pollo a testa, ebbene non è vero che non ci sono i polli, anzi magari nel tempo sono anche aumentati: solo che sono quasi tutti nelle mani di pochi Tizio, mentre la stragrande maggioranza dei Caio non ne dispone e, anzi, di quei pochi che ha gliene viene chiesto contributo. Ma la parola ‘patrimoniale’ o il termine ‘lotta all’evasione fiscale’ non paiono essere all’ordine del giorno nelle agende delle cancellerie europee – e ci sarà un motivo, ci permettiamo di dire.

Il futuro è poco chiaro: ma se il passato ci aiuta, se vogliamo una volta tanto imparare dalla Storia, prima che la ripetizione della tragedia diventi farsa, come diceva quel signore nato a Treviri, allora pensiamo che la crisi del ’29, gestita come fu gestita (unitamente alla scellerata umiliazione post bellica della Germania), ha creato il nazismo, figlio legittimo dei populismi, che in Europa stanno rifiorendo.

Luciano Gallino non era quello che si definisce un ‘euroscettico’: era, per contro, convinto che l’Unione Europea fosse una grande invenzione politica. Ma, con altrettanta forza argomentativa, sosteneva come l’euro (da più parti, non solo contrarie alla moneta unica, definito ‘il marco sotto mentite spoglie’) si fosse trasformato nello strumento della vittoria del neoliberismo contro qualsiasi altra corrente di pensiero. La stessa, per inciso, che ha inculcato nella società l’idea che a questo mondo esista solo l’economia di mercato.

La sua ‘modesta’ proposta per uscire dall’euro ma non dalla Comunità Europea, è tutta contenuta nel capitolo finale, che non ha bisogno di presentazione, ma va solo letto, riletto e rimeditato, perché non di soldi, non di denaro si tratta, ma di democrazia, di futuro, di solidarietà, di rispetto per la vita umana e per il lavoro, soprattutto per il lavoro, questione che maggiormente stava a cuore a Gallino. Il quale, da studioso serio quale era, nota – ed è una delle pochissime menti ad averlo fatto – come nella copiosa letteratura favorevole all’uscita dell’Italia dall’euro, manchi una sostanziale analisi dei numerosi e per nulla semplici problemi di natura giuridica che ciò comporterebbe.

E, a questo proposito, dato che il sito in cui compare questa recensione è dedicato a un uomo che, da sindacalista che si rispetti, ha speso la propria vita nella difesa e tutela del lavoro, ci permettiamo di chiudere con un’ampia citazione da questo prezioso testo comparso postumo: osiamo pensare che Luciano Gallino non se ne avrebbe a male [il neretto è mio].

“L’obbiettivo primario deve essere quello di creare posti ad alta densità di lavoro.

Ci sono gli acquedotti che dalla sorgente al rubinetto perdono metà dell’acqua. Ci sono i beni culturali che vanno a pezzi. Ci sono milioni di abitazioni ancora costruite con sistemi che fanno consumare energia in misura cinque-dieci volte superiore al necessario per assicurare lo stesso livello di comfort e ci sono le scuole da mettere a norma per evitare che caschino sulla testa degli studenti. Ci sono migliaia di chilometri di torrenti e fiumi, decine di migliaia di chilometri quadrati di boschi e terreni da sistemare, affinché ogni volta che piove non ci scappi ilo morto e siano distrutte case e officine. C’è la metà almeno degli ospedali da ristrutturare, perché oggi terapie e degenze richiedono spazi organizzati in modo diverso rispetto a quando furono costruiti mezzo secolo fa e forse c’è la metà degli edifici esistenti in Italia oggi che dovrebbe venire protetta dal rischio sismico.

Tutto ciò significa milioni di posti ad alta densità di lavoro, con qualifiche professionali che vanno dal manovale al perito all’ingegnere, che aspettano di venire create a vantaggio dell’intero Paese. Ci si potrebbero impegnare migliaia di piccole imprese, di cooperative, di artigiani, in parte forse coordinate da imprese pubbliche e private più grandi.

E’ necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre di meno: e, perché no, a un’idea un po’ più ‘alta’ del Paese in cui si vorrebbe vivere.” (pagg. 140 e 141)

Cesare Stradaioli

Luciano Gallino – come (e perché) USCIRE DALL’EURO ma non dall’Unione Europea – Editori Laterza – pagg. 196, €15

Complimenti e grazie per il sito – Pippo Biassoni

Complimenti e grazie per il sito.
In questa battaglia per il no, sto riscoprendo il gusto, il sapore, dell’…illuminismo.
Si, potrà sembrare strano ma ,ancora una volta, il conflitto ” io credo, io penso” rinasce sotto differenti spoglie.
I seguaci del si, non cercano mai di confutare le opposte logiche ma argomentano con dei “credo” legati in tutta coscienza ad una religione con icone che pescano a Santi passati e moderni condottieri.
L’art 70 creerà conflitti per… Loro non rispondono sul merito, ma diranno che “aumenterà l’autonomia delle Regioni”. Ma come faranno i nuovi senatori ad intervenire nel controllo parlamentare… Ma si vedranno poche volte.
L’assenza della logica, del contrasto anche duro su contenuti, non fa’ purtroppo crescere il confronto. Se uno crede, antepone la propria religione ( il nuovo Pd, il vecchio PCI trasformato, il Dio cambiamento, la rottamazione,ECC.) ferma il pensiero logico.
Soprattutto sposta nell’illogico : la Costituzione è spazio di condivisione e tutela, oggi per me, domani per te; il resto è miope credo.
Buona vittoria del NO per tutti.

Un primo, urgentissimo chiarimento sul nuovo Senato

Bisogna fare chiarezza quando, come e dove si può. E’ indispensabile dire le cose come stanno a prescindere dalle opinioni, perché c’è la libertà di espressione, ma qualcuno se ne approfitta e racconta bugie o, nella migliore delle ipotesi, semplicemente dice che il sole nasce a Ovest, magari pensando che sia vero.

E’ ORA DI FINIRLA, di dire e sentir dire che, con la riforma costituzionale,

 i senatori vengono eletti dai cittadini.

Non è così: i senatori NON vengono eletti dai cittadini, bensì vengono scelti da un’assemblea di eletti.

Non è la stessa cosa, non può esserlo.

*  *  *

Articolo 57, comma secondo della legge di riforma Renzi-Boschi-Verdini:

I Consigli regionali e i Consigli delle Provincie autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale,

i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori.”

*  *  *

Cioè a dire che, per fare l’esempio della Regione Veneto, tutti noi votiamo alle prossime amministrative coloro che poi saranno sindaci e consiglieri regionali. Dopo di ché, all’interno dei Consigli regionali, vengono ELETTI due senatori – a parte il Trentino-Alto Adige che (chissà perché) ne ha 4.

Ci siamo fino a qui? Bene. Tutto questo significa che un gruppo di ELETTI, i consiglieri regionali e i sindaci del veneto, DI FATTO NOMINANO i senatori. Se così non fosse, nella legge di riforma sarebbe scritto che i Consigli regionali RATIFICANO l’elezione di Tizio e Caio, quali rappresentanti al Senato. Per contro, ELEGGONO loro qualcuno fra gli eletti, dunque NOMINANO.

Dire che, non stiamo a sottilizzare, i due senatori veneti sono eletti da eletti e quindi è come se fossero eletti dai votanti del Veneto, è un gioco di parole, è un trucco ed è – dal punto di vista giuridico – una boiata pazzesca.

Facciamo un esempio assolutamente identico, dal punto di vista delle procedure – delle questioni sulle funzioni, dei sindaci che al venerdì vanno a Roma in senato, quando TUTTI i parlamentari fuori sede scappano a casa per il week end, eccetera parliamo un’altra volta – da mettere a confronto? Bene. Noi tutti abbiamo votato deputati e senatori. I quali, con l’aggiunta di un rappresentante per ogni regione, hanno ELETTO Mattarella Presidente della Repubblica.

Allo stesso modo, gli elettori NON eleggono i Presidenti di Camera e Senato, i quali vengono a loro volta eletti da coloro che sono stati eletti.

Ora, è indubbiamente vero che NOI abbiamo ELETTO i parlamentari: ma il Presidente della Repubblica viene votato da loro. Il Presidente della Repubblica, infatti, NON viene eletto dai cittadini. Neppure i Presidenti di Camera e Senato.

Cosa diversa, per fare un esempio, sarebbe se la riforma prevedesse che, all’esito delle elezioni amministrative, il sindaco più votato del Veneto e il consigliere regionale più votato del Veneto diventano automaticamente senatori: allora sì, sia pure in maniera un po’ farraginosa, che si potrebbe dire che i cittadini hanno votato perché i due che hanno avuto più consensi vadano a Roma a fare i senatori.

Questo metodo di comporre il ‘nuovo’ Senato della Repubblica è palesemente in contrasto con i principi della Costituzione, segnatamente con l’articolo 1, niente meno.

Mi auguro di essere stato sufficientemente chiaro. Alla prossima.

Cesare Stradaioli

‘Non firmare niente!’

E’ una tipica frase che si sente dire nei film polizieschi: non sottoscrivere niente, ché potrebbe essere poi usato contro di te.

E’ notizia di ieri che Alberto Melloni, eminente storico e studioso delle religioni, uomo di destra, di quella destra non beota e ignorante, che avrebbe dovuto sostituire Gabriella Caramore nella storica trasmissione di Radio3, “Uomini e profeti”, è stato rimosso dall’incarico. Motivazione ufficiale: in omaggio alla ‘par condicio’ (quella che consente a Renzi di avere sistematicamente la prima notizia in qualsiasi giornale radio e tv e una presenza garantita debordante rispetto agli oppositori interni ed esterni al Pd) applicabile in vista del referendum del 4 dicembre, Melloni non può condurla, in quanto ha sottoscritto un documento di sostegno al NO per la suddetta consultazione referendaria. Al suo posto, dovrebbe intervenire Massimo Cacciari.

La solita vocina rompiscatole dirà: ma Cacciari, pur con molti dubbi – sinistramente simili al turarsi il naso montanelliano – ha più volte dichiarato che voterà Sì.

Ma non ha firmato nulla.

Quindi, la sottoscrizione di un documento che, se va bene, sarà visto dall’1% dell’elettorato – con la bella e ricca propaganda per il NO che viene fatta! – esclude, in quanto violazione della par condicio, un esponente della cultura; un Sì, detto in tutte le salse e in tutte le reti e in tutte le testate, perciò visto, letto e sentito da milioni di elettori, MA SENZA ALCUNA FIRMA, consente di passare il vaglio della suddetta par condicio.

Non ce l’ho con il direttore della RAI: si tratta di un mero esecutore di ordini altrui. Ce l’ho con l’ipocrisia pubblica.

Tutti, poche, tante, tantissime volte, nella vita siamo stati ipocriti, a vari livelli: ma fino a quando la cosa rimane a livello personale (un po’ come l’abitudine che qualcuno, privatamente, può avere, di frequentare prostitute) e privato, il tutto rimane circoscritto per l’appunto al privato ed è esclusiva materia della coscienza del singolo e, eventualmente, delle persone della sua cerchia di frequentazione. Quando, però il singolo diventa pubblico rappresentante di un partito, un’associazione, un movimento, allora la cosa cambia. A parte le frequentazioni dell’esempio di cui sopra – duro, durissimo compito convincere il cittadino medio che un politico, un pubblico amministratore può essere ricattabile, quando certi comportamenti fuoriescono dalla scena privata: il riferimento a Berlusconi e alle ‘cene eleganti’ di Arcore è del tutto voluto e calza a pennello – il rilievo ipocrita di una norma parecchio discutibile quale quella della par condicio, più che di applicazione di una legge, pare piuttosto una discriminazione. In nome dell’ipocrisia politica.

Ma, si sa, in Italia c’è ben altro di cui occuparsi, specie in questo periodo…

Cesare Stradaioli