Se ne valeva la pena?

Il personaggio vestito da manager dice a Cipputi che non è tutto in bianco o nero, che il capitalismo ha i suoi pro e i suoi contro. “Pro chi e contro chi, Ghislazzi, non mi lasci in sospeso…” ribatte il leggendario operaio di Altan. Uno scambio di battute assimilabile a questo si potrebbe fare, in una specie di triangolazione con Ezio Mauro e Silvio Berlusconi.

In occasione dell’ottantesimo compleanno di Silvio Berlusconi, all’interno di un numero de L’Espresso in cui si parla ampiamente del personaggio e del ruolo da lui ricoperto in tanti anni di vita imprenditoriale e politica, Ezio Mauro scrive un articolato intervento, intitolato (come nella copertina del settimanale) all’undicesima domanda, quella che chiuderebbe idealmente il ciclo della famose dieci domande, che mai ebbero risposta dall’ex Cavaliere, postegli per lungo tempo da Giuseppe D’Avanzo su Repubblica in merito alla sua vita privata e quella pubblica.

L’undicesima domanda, che giunge a chiusura dell’articolo è: “Ne valeva la pena?”

In un libro uscito postumo, Luciano Gallino fa riferimento – fra le altre cose – alla stupefacente capacità del neoliberismo di mantenere consensi pur in presenza di clamorosi fallimenti economici e finanziari, e tutto in ragione di campagne stampa unicamente e prepotentemente tese a condizionare così efficacemente l’opinione pubblica da riuscire, per l’appunto, a mascherare i fallimenti per poter continuare a garantire di ‘avere il sole in tasca’ (celebre motto berlusconiano, rivolto ai suoi venditori).

Così, è stupefacente come un uomo colto ed equilibrato, molto attento a ponderare parole e valutazioni come Ezio Mauro, possa essere incorso in un infortunio giornalistico così evidente. Per riprendere la vignetta iniziale: valeva la pena di chi, Ezio Mauro? Quella di Berlusconi o la nostra?

Vediamo un po’ e in ordine sparso. In quasi 10 anni di governo diretto – senza contare quelli ‘indiretti’, nei quali la cosiddetta opposizione a tutto ha pensato tranne, per esempio, non tanto ad approvare una legge sul conflitto di interessi, quanto ad APPLICARE quella che c’è già, del 1956, per non parlare delle facilitazioni tramite corruzione, ottenute per Milano 2, le sue reti televisive negli anni ‘80:

  • ha fatto legiferare in materia di leggi ad personam (una per tutte, quella scandalosa sul falso in bilancio, per sé e per i suoi elettori imprenditori disonesti), unicamente tese al proprio beneficio, nonché leggi che hanno di fatto impedito moltissime rogatorie internazionali che avrebbero inciso profondamente su diversi processi a suo carico, molti dei quali chiusi con l’intervenuta prescrizione, spirata anche grazie proprio alle lungaggini sulle rogatorie e a un’ulteriore legislazione che ne ha dimezzato i tempi;
  • a lui si devono gli indecenti scudi fiscali, sempre per favorire un proprio bacino elettorale;
  • ha ottenuto strabilianti bonus pubblicitari a favore delle proprie reti televisive e testate giornalistiche;
  • ha, di fatto, bloccato due altri fondamentali processi a suo carico, facendo approvare per due volte dei decreti sull’immunità altrui ma soprattutto propria (il lodo Schifani e il lodo Alfano, entrambi oggi al governo col Pd, a proposito…), indubbiamente destinati alla sanzione di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale – per primi lo sapevano i relatori e il suo staff giuridico, mica sono scemi – ma che intanto fecero trascorrere il tempo e, dunque, ancora una volta la prescrizione (si noti che la prescrizione è rinunziabile, sicché un uomo di Stato, in certi casi avrebbe anche il dovere morale di affrontare un giudizio: essere prescritti, checché ne dicano Casini e gli altri amici di Giulio Andreotti sul processo di Palermo, NON equivale ad assoluzione, nemmeno nella forma della sentenza che è NON LUOGO A PROCEDERE PER INTERVENUTA PRESCRIZIONE, art. 529 del codice di procedura penale, quello dell’assoluzione è il 530.;
  • ha coagulato il peggio della destra italiana per sostenere i propri esecutivi e proseguire nella sua opera di governo;
  • le sue aziende hanno fatto incetta di film e, conseguentemente, di ricchissimi spot pubblicitari;
  • ha rimbambito milioni di italiani col mezzo televisivo, creando un consenso politico ed economico (sarebbe interessante sapere quanti voti ha portato la pubblicità Rovagnati);
  • ha spaccato in due il Paese al solo scopo di creare un consenso politico attorno a Forza Italia (e, personalmente, sono convinto che il progetto fosse ‘in sonno’ da decenni, fino a quando è servito nel 1993 alla caduta del PSI di Craxi, suo grande sodale: sono tutt’ora fermamente convinto che la campagna elettorale di quello che sarebbe divenuto il partito Forza Italia, sia iniziata nel 1980 con l’andata in onda su Canale 5 della prima puntata di “Dallas”);
  • tramite un pesante attacco a tutto campo per 365 giorni all’anno dei suoi portavoce politici e culturali, ha fatto sì che larghissime fasce della popolazione, specie quelle che direttamente pagano le tasse, si convincessero che la corruzione sia un reato con un solo colpevole, il corrotto, mandando assolto il corruttore nella coscienza popolare (basti ricordare la famosa, fra le tante, frase: “Nella prima Repubblica bisognava presentarsi agli assessori con l’assegno in bocca”, evidente ammissione di responsabilità penale, oltre che morale, praticamente il lupo che si veste d’agnello);
  • sempre tramite la sua artiglieria pesante e sempre a scopo di consenso politico, per anni ha offeso, umiliato, vilipeso, alzato il livello di tensione sociale e politica nel nostro Paese, per poi invocare la ‘pacificazione’, tacciando di violenti coloro che non ci stavano, magari facendo osservare che lui e non altri avevano tirato il primo pugno e anche il secondo e anche il terzo;
  • ha arricchito le proprie aziende e il proprio nucleo familiare in maniera smisurata;
  • ha costruito con la presidenza del Milan – lui interista (scampato pericolo, annotazione personale, di nessuna importanza): lo si sapeva da anni, forse l’articolo rievocativo di Scalfari di qualche giorno fa finalmente convincerà anche i più scettici – e con la creazione del ‘modello Milan’, una figura e una struttura di potere che ha generato profitti e consensi;
  • ha, di fatto e con il consenso di Lega e neofascisti, frenato la giustizia penale, abolendo il cosiddetto ‘patteggiamento in appello’, che deflazionava notevolmente l’iter di moltissimi processi, introducendo il reato di clandestinità (intasando così le Procure, i Tribunali e le carceri) e inasprendo la recidiva – mentre dimezzava la prescrizione per gli incensurati – appesantendo in tal modo milioni di processi;
  • ha rovinato l’economia di questo Paese, il suo senso civico, il livello culturale, il senso di appartenenza, il rispetto per le istituzioni, infarcendolo di maleducati e maleducazione, di insulti, di vergogna internazionale, di povertà di linguaggio e di senso morale;
  • ha fatto passare per suoi legittimi difensori in diversi processi, deputati e senatori della Repubblica i quali, non solo in ragione delle udienze disertavano le proprie rispettive Camere di appartenenza, ma venivano retribuiti (se non anche de lui direttamente, affari suoi) con i NOSTRI soldi, essendo cioè pagati da NOI per impiegare giornate di udienze e giornate di studio dei processi a difesa di Berlusconi.

Per cui, Ezio Mauro, la risposta di Silvio Berlusconi – e di tutti i suoi mandanti e sodali – alla sua ingenuissima quanto pretenziosa domanda, penso che non possa essere altro che Sì, NE VALEVA LA PENA, CRIBBIO SE NE VALEVA LA PENA!

La sua pena, esponendo la propria persona e, di fatto, perfino il suo corpo (finti attentati, finte malattie, scandalo della puttane ad Arcore che lo ricattano al telefono) valeva sicuramente.

La nostra, direi per niente.

I pro sono stati tutti per lui. I contro, tutti per noi.

E, grazie, Ezio Mauro, per questa splendida pagina di giornalismo. Se ne sentiva proprio la mancanza, di un’altra pagina agiografica berlusconiana.

Avanti il prossimo.

Cesare Stradaioli

 

Il padre nobile della post democrazia

Su “L’Indice dei libri del mese” di ottobre Ugo Mattei, filosofo del diritto noto soprattutto per la riflessione sui “beni comuni”, traccia un sintetico quanto, a mio avviso, convincente bilancio della (quasi) doppia presidenza di Giorgio Napolitano.
Il titolo è già illuminante: “Il padre nobile della post democrazia”…Di “democrazia autoritaria” parlano, da anni, alcuni fra i nostri più lucidi -e, pertanto, comprensibilmente inquieti- giuristi (Carlassare, Rodotà, Zagrebelsky, per ricordarne solo alcuni).
Dando mostra di una sorprendente capacità di sintonizzarsi con lo spirito-del-tempo, l’ex dirigente comunista e, teoricamente, garante supremo della Carta fondamentale ha di fatto legittimato e promosso le conversioni in atto verso lo svuotamento della dialettica politica, la subordinazione della politica stessa alle “oggettive” leggi del mercato ed agli imperativi dei centri finanziari, la sempre pericolosa deriva verso lo strapotere dell’esecutivo.
Mattei esprime riserve, opportune quanto aperte, riguardo alla decisione di insignire Mario Monti del titolo di senatore a vita alla vigilia dell’incarico di Presidente del Consiglio: una “blindatura” volta a conferire prestigio ad un governo responsabile di un pacchetto di misure dai pesantissimi costi sociali, essenzialmente mirate a salvare gli stessi responsabili della crisi e giustificate dal sempre utilissimo “ricatto della congiuntura”. Il che (effetto secondario, forse -certo non trascurabile) ha consentito a Silvio Berlusconi un’onorevolissima uscita di scena: non deposto dalla volontà popolare; obbediente nel superiore interesse del Paese; sollevato da provvedimenti impopolari (ed antipopolari) lasciati al governo “tecnico”.
Alberto Asor Rosa, negli anni del “berlusconismo”, ha ripetuto che almeno, durante il fascismo, c’erano gli antifascisti. La Democrazia Cristiana si poteva, volendolo, non votarla. Con gli ultimi governi di centro-destra, qualche voce dall’opposizione (?) si levava. Ora (per tornare a Zagrebelsky) “sono tutti dalla stessa parte”.
Il grandissimo Karl Valentin concluderebbe che “una volta il futuro era migliore”…

Maurizio Venasco

IL LIBRO DEL MESE DI OTTOBRE Consigliato dagli Amici di Filippo

Il salto dello squalo è quel particolare momento della sceneggiatura di una serie tv in cui si inserisce un avvenimento bislacco pensato per ravvivare il racconto ma che in qualche modo provoca l’inizio della fine del gradimento del pubblico. Viene dal salto di un vero squalo che il protagonista di Happy Days fu obbligato a fare durante un episodio in cui praticava il surf. Da quella puntata il gradimento del pubblico della serie passò dal quarto posto al ventottesimo, iniziando, dopo anni di successo, la parabola discendente fino a decretarne la chiusura.

serie-tvIl bel libro sulle Serie Tv di Gianluigi Rossini parla di storia, di costume e di politica dell’intrattenimento raccontando la nascita di un fenomeno televisivo che vede in questi anni la sua età dell’oro. Che le serie TV siano diventate parte importante della programmazione del piccolo schermo  per quantità e qualità si sapeva; ormai siamo abituati a prodotti di grande pregio in cui trovano espressione artistica registi e attori che una volta si impegnavano solo nel mondo del cinema. Libertà espressiva, sviluppo di trame e sotto-trame, evoluzione delle psicologie, sono tutti fattori che in qualche modo riconosciamo come fondanti di questa era della serie televisiva.

Dietro alle scelte qualitative delle grandi case di produzione si nascondono retroscena di chiara matrice economica, come ben si può immaginare, che hanno generato una spinta all’innovazione dei programmi partendo dalle riprese dal vivo di avvenimenti sportivi, negli Stati Uniti, e dagli arrangiamenti di opere letterarie, in Italia, per arrivare a produzioni originali che ancora oggi mostrano grandi potenzialità in termini di contenuti ed evoluzione stilistica.

Partendo dai primordi di quelli che allora si chiamavano telefilm e che raccontavano storie che si esaurivano in una puntata, arrivando a trasmissioni ancora al top degli ascolti dopo 16-17 anni, passando per tutti i gradi della serialità, il libro inquadra nascita e sviluppo delle produzioni, con le loro logiche e con i mutamenti di genere, sia nella TV americana sia in quella italiana, che tanto ha preso dalle produzioni straniere ma che ha anche saputo creare prodotti originali e apprezzati in tutto il mondo. Ritrovare citate le serie che hanno rappresentato, per chi scrive, delle vere e proprie avventure vissute in mondi paralleli e vederne evidenziati i pregi che le hanno rese grandi e  originali, è un vero piacere; comprenderne gli aspetti più nascosti rende la lettura di questo libro veramente appassionante.

Anna Campo

Gianluigi Rossini – Le Serie TV – Il Mulino – 216 pagg., €14

LE RAGIONI DI UN ‘NO’ – IV° a cura di Cesare Stradaioli

Ragioni sparse.

  1. La riforma costituzionale è stata votata da un Parlamento eletto con un sistema dichiarato incostituzionale: anche solo per ragioni di correttezza istituzionale, non poteva mettere mano alla Costituzione, ma solo all’ordinaria amministrazione.
  2. Il programma del PD menzionava la Costituzione come ‘la più bella e avanzata del mondo’.
  3. Le riforme sono state imposte dal governo e non proposte dal Parlamento.
  4. I risparmi del nuovo senato si aggirano intorno ai 40 milioni all’anno: bastava decurtare del 10% gli stipendi degli attuali parlamentari, senza toccare la Costituzione e si sarebbe arrivati a risultati anche migliori.
  5. I 2/3 dei deputati verranno eletti col meccanismo dei capilista bloccati, i senatori verranno scelti dai Consigli regionali e dal Capo dello Stato: i rimanenti, finalmente, dagli elettori, con tanti saluti alla RAPPRESENTANZA PARLAMENTARE, che la Corte Costituzionale ha posto in forte evidenza, proprio sanzionando il cosiddetto ‘Porcellum‘.
  6. La ‘Riforma’ regala l’immunità parlamentare a 21 sindaci e 74 consiglieri regionali (95 senatori su 100!), cioè al ceto partitico più corrotto e indagato nel nostro Paese, SENZA CHE NEMMENO DEBBANO PASSARE PER L’ELEZIONE DIRETTA ALLO SCOPO. Senza contare che, tanto per fare un esempio, nel consiglio regionale del Veneto avremo alcuni consiglieri immuni e altri non e lo stesso valga per alcune amministrazioni comunali: un mostro giuridico.
  7. L’articolo 57 della riforma prevede che i senatori siano eletti con metodo proporzionale dai consigli regionali. NON E’ COSì. Se fosse così, i consigli non SCEGLIEREBBERO i rappresentanti, evidentemente al termine di contrattazioni da suk mediorientale, ma dovrebbero limitarsi a RATIFICARE le indicazioni dei cittadini che, però, nel sistema elettorale amministrativo, NON SONO PREVISTE.
  8. Il Trentino-Alto Adige (1.056.000 abitanti) avrà DUE sindaci-senatori; La Lombardia (oltre 10 milioni), ne avrà UNO…
  9. Come si è visto, la riforma non abolisce il bicameralismo, anzi introduce meccanismi sgangherati, illogici, eterogenei, scoordinati: per queste e per altre ragioni, si prevedono milioni di ricorsi al TAR per qualsiasi cosa.
  10. Oggi abbiamo due procedimenti legislativi (ordinario e costituzionale): con la riforma, diventano 7 (secondo Azzariti, fautore del NO) e addirittura 10 secondo altri.
  11. I sindaci e i consiglieri regionali promossi senatori part time, svolgeranno funzione di revisione costituzionale, per la quale NESSUNO LI HA ELETTI.
  12. Il Presidente della Repubblica potrebbe essere eletto con i 3/5 DEI PARTECIPANTI, non dei votanti: così, dal sesto scrutinio in poi, il “Rappresentante dell’Unità Nazionale”, art. 87 della Costituzione, potrebbe essere eletto con 220 elettori su 366, con molto meno della maggioranza assoluta del Parlamento.
  13. Per le leggi di iniziativa popolare bastavano 50mila firme: in futuro ne serviranno 150mila.
  14. Il referendum costituzionale obbliga gli elettori a un Sì e un NO a scatola chiusa, su materia del tutto eterogenee fra loro: il nuovo sistema parlamentare, i nuovi rapporti Stato-regioni, l’abolizione del CNEL (!!)… Il tutto con la benedizione di un partito, il PD, che fra le altre cose, accusava i governi Berlusconi di avere inventato i famosi ‘decreti omnia’, decreti legge che andavano convertiti entro brevissimi termini, infilandoci dentro, oltre alla legge da approvare, una serie di altre normative, anche più importanti.

 

 

 

 

LE RAGIONI DI UN ‘NO’ – III° a cura di Cesare Stradaioli

“La sera del voto si saprà chi ha vinto le elezioni.”

Prima considerazione: lo si sapeva anche nella prima Repubblica; la DC, con i partiti cosiddetti ‘laici’ alleati. AVVENIVA ANCHE NELLA SECONDA, COL MATTARELLUM PRIMA E COL PORCELLUM DOPO e cioè fino a quando il sistema rimase bipolare, centrodestra contro centrosinistra: 1994 Berlusconi, 1996 Prodi, 2001 Berlusconi, 2006 Prodi, 2008 Berlusconi.

Questo non è accaduto nel 2013, solo perché nella corsa elettorale si era inserito il M5S e perché nessun partito e nessuna coalizione aveva raggiunto il 30%.

Dato che in Italia nessun partito raggiungerà il 40%, è pressoché inevitabile il ricorso alle coalizioni (che ricordano in maniera inquietante le correnti DC che facevano durare i governi mediamente 1 anno e mezzo).

Seconda considerazione: NON E’ DETTO.

Nel 2010, le elezioni in Gran Bretagna, patria del maggioritario perfetto che viene portato a esempio di stabilità e dove, per decenni, si è sempre saputo la sera stessa chi avrebbe vinto e chi avrebbe governato, hanno dato il risultato che portò i Tories al 36%, i laburisti al 29% e i Liberal di Clegg al 23%, costringendo di fatto Cameron (leader del partito di maggioranza e dunque primo ministro designato) a formare un governo di coalizione, il cosiddetto “hung Parliament”. Il che non avvenne subito, la sera stessa, ma a distanza di diversi giorni, dopo lunghe trattative e voltafaccia.

[Quella notte stessa su BBC1, un’anziana signora che aveva votato per i Liberal di Nick Clegg, si disse “profondamente contrariata e ingannata” dal fatto che Clegg dichiarasse che stava prendendo in considerazione l’ipotesi di fare coalizione con i Tories (cosa che, in effetti, fece), mentre prima delle elezioni aveva dichiarato maggiore ‘common ground’ con i Labour di Gordon Brown; “Se avessi voluto un governo Tory, avrei votato Tory,” concluse sdegnata.]

Considerata la realtà italiana, PD, M5S e Centrodestra, che si ripeta l’ammuina del 2013 è pressoché una certezza, più che eventualità.

Sicché il propagandato vantaggio del nuovo sistema elettorale di conoscere la sera stessa chi vince e chi governa è pura retorica.

IL PREMIO DI MAGGIORANZA.

In nessun Paese europeo esiste un vero e proprio premio di maggioranza.

Solo un Paese europeo è dotato di sistema elettorale che garantisce per certo la maggioranza assoluta a un partito o a una coalizione: l’Ungheria di Orbàn…

LA QUESTIONE DELLA GOVERNABILITA’.

A parte la facile considerazione che l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, ma anche la Russia di Putin o la Turchia di Erdogan erano e sono Paesi governabilissimi e di assoluta stabilità e continuità (a meno che forze esterne non li cannoneggino, con l’ONU che dorme sonni beati), è un principio elementare di Dottrine Politiche che la governabilità è frutto di accordi e mediazioni politiche e non può essere pre-stabilita per legge elettorale, quale che essa sia.

LA QUESTIONE DELLA LEGITTIMITA’ PARLAMENTARE DOPO LA CONSULTA

Uno dei mantra ripetuti dai sostenitori della riforma RBV è che questo Parlamento non è stato delegittimato dalla Corte Costituzionale sul Porcellum, quindi ha tutto il diritto di continuare a legiferare senza limiti né vincoli (Maria Elena Boschi).

NON E’ COSì.

La sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del cosiddetto Porcellum, col quale è stato eletto l’attuale Parlamento nel 2013 (ALL’INTERNO DEL QUALE C’ERANO I 101 CHE HANNO ‘TROMBATO’ ROMANO PRODI, CONTRIBUENDO ALLA SCANDALOSA RIELEZIONE DI NAPOLITANO).

Nel fare questo, la Consulta, in base a un sacrosanto principio di continuità istituzionale, non poteva il giorno dopo mandare a casa i parlamentari, poiché il Paese si sarebbe trovato senza l’organo legislativo, cosa inusitata e di fatto (questa sì!) non governabile in alcun modo.

In sostanza, il Parlamento eletto col Porcellum poteva e doveva gestire solo compiti correnti al momento e, eventualmente, l’emergenza.

Principi di fair play istituzionale – e di buona educazione, se non altro – non potevano e non possono consentire a nessun Parlamento eletto in maniera illegittima, di porre mano alla Costituzione e al sistema elettorale; le medesime ragioni (per non parlare di un minimo di contatto con i cittadini elettori – e anche quelli NON ANCORA elettori, sui quali ricadono tutte le riforme) avrebbe dovuto consigliare (prima di tutto al nuovo capo dello Stato dell’epoca) di attendere nuove elezioni col Mattarellum (che tornava in vigore, non essendo stato abrogato bensì sostituito) per poi procedere SUBITO A UNA NUOVA LEGGE ELETTORALE che avrebbe dovuto portare a ulteriori e definitive (si spera, per 5 anni) elezioni che avrebbero dovuto portare a un Parlamento più legittimo.

Ci si poteva anche tenere il Mattarellum e con quello, eventualmente, decidere SE toccare o meno la Costituzione.

PIU’ GOVERNABILITA’ CON SOLO LA CAMERA CHE PUO’ VOTARE LA SFIDUCIA

Si tratta di un’altra bufala.

In 70 anni, dei 63 governi che si sono succeduti, SOLO DUE sono stati sfiduciati – quelli a guida Romano Prodi, per cui, di cosa stiamo parlando?

E a proposito di fiducia al governo: è stato detto (spesso a ragione) che in molti casi i vari parlamentari non hanno sfiduciato un governo pur ritenendola cosa giusta, per il fatto di non avere ancora maturato, al momento della fatale decisione, il periodo grazie al quale avrebbero percepito il vitalizio.

Ora, poiché questa considerazione è purtroppo fondatissima, non sarebbe meglio attribuire il vitalizio AUTOMATICAMENTE ai parlamentari, fin dal primo giorno?

In questo modo, invece di avere ancora in carica governi che meriterebbero di andare a casa, invece di avere un tot di parlamentari comunque ricattabili (e che in ogni caso e proprio per questo il vitalizio lo percepiranno), avremmo qualche parlamentare che decide secondo la propria convinzione politica e non pensando al vitalizio e qualche governo migliore.

IL SENATO E’ ABOLITO.

Come si è visto, NO.

LE RAGIONI DI UN ‘NO’ – II° a cura di Cesare Stradaioli

IL SENATO (artt. 55 e seguenti della riforma)

Non vota più la fiducia al governo e non esercita più funzione di indirizzo politico, legislativo ordinario e neppure di controllo sull’operato dell’esecutivo.

Scompare la limitazione di età dei 40 anni.

Scompaiono i senatori eletti in rappresentanza dei cittadini italiani all’estero.

I senatori scendono da 315 a 100 e il numero sarà così composto: 74 saranno consiglieri regionali scelti dai Consigli regionali di appartenenza, 21 saranno sindaci eletti dai Consigli regionali, 5 saranno nominati dal Presidente della Repubblica (la loro nomina non è chiara e il loro mandato è di 7 anni, non rinnovabile.

Scompaiono i senatori a vita e quindi non si comprende questa particolare attribuzione al Presidente: non si trova da nessuna parte la ragione di natura istituzionale e giuridica, in base alla quale il Presidente nomina dei senatori. La nomina a vita aveva un senso specifico e, a parte lo scandaloso caso di Mario Monti (ma si potrebbe fare riferimento alla nomina di Andreotti e di Emilio Colombo), strettamente connessa a precisi requisiti.

In pratica, il Presidente della Repubblica nomina, a suo insindacabile giudizio, 5 rappresentanti del senato, che possono interloquire su questioni di rango costituzionale.

Mantiene la funzione legislativa su leggi costituzionali e su quelle attinenti alla materia della sua elezione.

Può decidere – su richiesta di 1/3 dei suoi componenti – di esaminare e proporre modifiche da tutte le altre leggi approvati dalla Camera.

RAPPORTI STATO REGIONI

Con l’articolo 117 le competenze in materia regionale quali grandi reti di trasporto e navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, politiche sociali e istruzione e formazione professionale tornano allo Stato, con la cosiddetta ‘clausola di supremazia statale’.

L’ITER DELLA FORMAZIONE DELLE LEGGI (artt. 70 e seguenti)

Secondo il professor Azzariti, con la riforma RBV i procedimenti di approvazione delle leggi sono 7:

  • bicamerale paritario
  • monocamerale con intervento eventuale del senato
  • non paritario rafforzato
  • non paritario, con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo
  • disegni di legge a ‘data certa’
  • conversione dei decreti legge
  • leggi di revisione costituzionale
  • approvazione di leggi elettorali, con preventivo scrutinio da parte della Corte Costituzionale

Secondo una diversa classificazione, sono 10:

  • procedimento di tipo bicamerale paritario
  • procedimento monocamerale
  • procedimento monocamerale ‘rinforzato’ (per le leggi approvate nella forma della suddetta ‘clausola di supremazia statale’)
  • procedimento relativo ai disegni di legge sul bilancio
  • procedimento abbreviato per ragioni di urgenza
  • procedimento [ATTENZIONE NON DISEGNO DI LEGGE] a ‘data certa’
  • procedimento di approvazione delle leggi di conversione dei decreti legge
  • procedimento conseguente alla richiesta del senato di cui sopra
  • procedimento relativo alle proposte di legge di iniziativa popolare
  • procedimento riguardante la disciplina dell’elezione dei membri del senato

GIUDIZIO PREVENTIVO DI COSTITUZIONALITA’

1/3 dei senatori o 1/4 dei deputati può chiedere che venga sottoposta alla Corte Costituzionale, che ne giudichi preventivamente la costituzionalità, una legge prima della promulgazione (il presidente della Corte, portavoce di tutti i giudici, si è dichiarato contrario).

Non è specificato se, una volta che una legge abbia superato il giudizio preventivo di costituzionalità, la stessa possa essere nuovamente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale: in mancanza di indicazioni, si direbbe di sì, ma anche se si dovesse ritenere di no, in ogni caso è previsto un inevitabile ricorso alla Corte stessa, la quale però dovrebbe valutare una legge già dichiarata conforme alla Carta Costituzionale.

ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Partecipano deputati e senatori (scompaiono i 59 delegati regionali).

Prime 3 votazioni: quorum ai 2/3.

Dal quarto al sesto scrutinio: 60%, contro l’attuale 50%.

Dal sesto scrutinio in poi: 3/5 DEI VOTANTI, in luogo del 50% degli aventi diritto

Può sciogliere solo la Camera.

LE PROVINCE

Ai sensi dell’art. 114, non avranno più ‘copertura costituzionale’.

NON VENGONO ABOLITE, ma saranno regolate da leggi ordinarie; la domanda, inevitabile, è: dove sta il tanto sbandierato risparmio?

LE RAGIONI DI UN ‘NO’ – I° – a cura di Cesare Stradaioli

Anzitutto, considerazioni sulla lingua nella quale è scritta la Costituzione e il linguaggio utilizzato nella riforma Renzi-Boschi-Verdini (da adesso in poi, RBV).

Secondo Meuccio Ruini (socialista, presidente del Consiglio di Stato, presidente del Senato e Senatore a vita), “la Costituzione si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita” – dichiarazione di apertura dei lavori dell’Assemblea Costituente.

Il nuovo articolo 70, in luogo di 9 parole ne conta 439; l’articolo 71 ne aveva 44, ne ha 171; l’articolo 72, ne aveva 190, ne ha 431.

Non è questione di lana caprina.

La scrittura delle leggi è elemento fondamentale di democrazia, partecipazione e rappresentatività. Da molti decenni le leggi italiane, soprattutto quelle penali, sono scritte in pessimo italiano, di frequente pare che i vari redattori – per ovvie ragioni, quasi mai una legge è scritta da una sola persona – scrivano ognuno per conto proprio senza giungere a una definitiva omogeneizzazione del testo. Il quale testo, spesso è lungo, prolisso, ripetitivo, impreciso, astruso.

Però, le leggi ordinarie, si possono cambiare con una certa facilità. Andrebbero comunque scritte bene, dovrebbero comunque essere organiche al contesto in cui si integrano, però per definizione esse hanno una vita non particolarmente lunga, specie quelle più esposte ai cambiamenti sociali e culturali.

Le leggi ordinarie, inoltre, dovrebbero essere brevi per quanto possibile, anche per facilitarne la comprensione da parte dei cittadini e la loro interpretazione e applicazione da parte delle istituzioni: tuttavia, in determinate materie, una certa complessità è fisiologicamente inevitabile.

La Costituzione non può, NON DEVE essere pensata per essere cambiata ogni decennio. La Carta Costituzionale, per sua definizione, o è ‘definitiva’ (intendendosi con questo termine una durata che, quanto meno, vada oltre le 3-4 generazioni), oppure non è: e in questo senso, DEVE essere anche essere sintetica, in quanto non è deputata a regolare innumerevoli atti, circostanze, comportamenti, decisioni, metodiche di giudizio, scelte legislative, quanto piuttosto deve contenere quelli che si chiamano lineamenti fondamentali della vita della Repubblica. Statuizioni di base, certe, solide, lungimiranti – per quanto possono esserlo le cose fatte dall’uomo.

La riforma RBV è un coacervo di interminabili commi, non di rado disorganici fra loro, ma soprattutto pretenziosi, in quanto pensati e scritti (male) per regole complicate e sconclusionate, che se fossero scritte meglio comunque si adatterebbero di più, per l’appunto, a essere leggi ordinarie o ‘leggi quadro’, più complesse.

In una definizione: è una riforma dettata dalla più retriva forma di interventismo politico da quattro soldi, ignorante, chiassoso, magniloquente, approssimativo e vagamente (ma neanche tanto) autoritario.

E, infine, oltre a essere stata votata da un Parlamento che non poteva farlo, è stata buttata sul tavolo da gioco, invece di essere discussa, sviscerata, esaminata: è stata trattata come una legge ordinaria, che si fa in omaggio al principio che chi vince governa e quindi può e deve scontentare molti.

La Costituzione deve rispecchiare il maggior numero di istanze sociali del consorzio civile in cui si vive, e deve essere approvata pacatamente, senza colpi di mano o di fiducia, senza ricatti o pressioni.

Una Costituzione, come è stato più volte autorevolmente ribadito da Piero Calamandrei, è scritta quando si è sobri, per le volte in cui capita di essere ubriachi. –

LE RAGIONI DI UN ‘NO’ – introduzione

Comincia oggi la pubblicazione su questo sito di una serie di appunti, scritti allo scopo di illustrare al meglio le ragioni per votare NO al referendum costituzionale.

Come sempre, come avrebbe voluto Filippo, TUTTI i contributi sono necessari e benvenuti.

Cesare Stradaioli

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IL LIBRO DEL MESE DI SETTEMBRE Consigliato dagli Amici di Filippo

Che cos’è accaduto, si domanda Giorgio Ficara in questo suo ultimo lavoro; perché il romanziere italiano contemporaneo, con il suo idioletto planetario, indefinitamente traducibile e deducibile dall’informazione, ha rinunciato a se stesso, alla propria continuità e ai propri fondamenti? Non sarà perché scrive in “una specie” di inglese, modello bar-pizzeria-ristorante-specialitàpesce? Quello, per intenderci, ‘spanglish’, ‘chinesish’ (Gadda potrebbe definirlo mezzodiniente) astrattamente parlato – male – in tutti gli aeroporti del mondo?

Potrebbe essere una semplice questione di bellezza, se non fosse che la bruttezza – oltre a essere psicosomatica, come concludeva amaramente Gaber – non è altro che la non verità di certi libri, ritenuti tali da una specie di precomprensione mediatica. Secondo l’autore, certi libri sono ‘brutti’, non tanto e non solo in quanto portano in sé la rinuncia alla continuità con la lingua letteraria italiana, ma anche (e, forse, soprattutto) perché rispetto all’attuale pena del mondo scelgono un falsetto estetizzante, pigramente ricorsivo. Se i libri non rappresentano un accrescimento di umanità (anche e forse soprattutto tramita la tragedia, la disperazione, la miseria), per quale motivo dovremmo dirli ‘belli’?

Il ‘non italiano’ degli scrittori che potremmo definite “nuovi” – rispetto agli “ultimi” della vecchia catena – pare essere un’allucinata meraviglia di fronte al mondo globale; romanzi storici, polizieschi, sentimentali, borghesi si incalzano febbrilmente sui banchi dei librai, ostentando quel piccolo, opprimente e scivoloso “nuovo italiano”, che già Pasolini – ancora una volta, l’ennesima, profetico – sanzionava negli anni Sessanta.

Bisogna dire che Ficara non le manda a dire e, tanto per non fare nomi, indica Umberto Eco, con la sua indifferenza nei confronti della letteratura (testuale) che, secondo l’autore ha avuto del clownesco (noi avremmo usato il termine ‘giocoso’ e non si intenda che fosse meno irridente), il capostipite di questa generazione di scrittori resi euforici dall’abbondanza di merci nel serbatoio del mezzo linguistico. D’altra parte, le figure ‘giovanili’, le opere ‘giovanili’ sono divenute il fulcro di un mercato editoriale vorace e banale. Alla stregua delle quote ‘rosa’, le quote ‘giovani’ hanno dichiarato fuori corso la vecchia disciplina della ricerca linguistica (o, per lo meno, di una parvenza di struttura appena un po’ più complessa del “Lei disse” “Lui disse”), come se scrivere fosse un qualcosa di naturalmente contiguo al comunicare e la giovinezza, mai tanto strombazzata come oggi, a tutti i livelli, partendo da quello politico, la sola garanzia dell’eloquio più appropriato.

Stranamente, ma solo all’apparenza – a osservarli da vicino la cosa appare più logica – non sono votati alla scrittura di quello che Elsa Morante definiva “l’ultimo romanzo possibile”, quanto piuttosto a scrivere l’ultimo di una serie infinita e disponibile. Il problema vero sembra essere la libertà di espressione, il che parrebbe un’eresia, se vista e ascoltata da lontano; facendosi più vicini, si può concordare con l’assunto secondo il quale oggi si può scrivere di tutto, è consentito scrivere tutto di tutto, ma la libertà creativa (come qualsiasi altra rappresentazione della libertà) richiede un autocontrollo critico. Tolstoj soleva ripetere che il romanziere è un cuoco che va al mercato e guidato unicamente dagli effluvi e dalla vista, sceglie il menu del giorno.

A parziale comprensione quasi empatica, l’Autore butta lì che non vorrebbe trovarsi nei panni del romanziere italiano contemporaneo: in quanto figlio di una letteratura ‘alta’ – ché, secondo Ficara, in Italia quella ‘bassa’ non esiste, a differenza del cosiddetto entertainment di stampo britannico), ha troppi padri con i quali confrontarsi, una lingua troppo colta da inseguire continuamente e nel fare questo, si direbbe fatalmente, la scimmiotta, non essendone all’altezza e non è neanche detto che dovrebbe per forza esserlo. Di grandi padri, Ficara ne cita diversi, ma si può sintetizzare l’intero riferimento a tre nomi: La Capria, Gadda e Montale.

“Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’unità d’Italia”, scriveva il primo e al di là della costruzione davvero impeccabile della frase di cui sopra, è impossibile non rimanere colpiti dal superego che l’ha dettata, ma d’altra parte se non si mira alto si prendono solo nuvole basse che assomigliano più a foschia. Per questo è arduo con concordare con lui e da qui nascono le aspettative.

Più rude e diretto, Gadda ce l’aveva con l’italiano perfettino – da salotto di zia Giulia direbbe Antonino Scalone – “una sorta di immortale monolingua, di fatto intrasmissibile e incomprensibile”: “se il Foscolo, che scriveva ‘t’amerò eternamente’ alla Stolzberg e alla Mocenni, si fosse invece sbattuto un frittatino alla svelta, ci saremmo risparmiati tutta la sua ‘splendidezza’, la lindura dei versi suoi e di tutti i poeti monolinguisti del severo Ottocento” scriveva ne “La battaglia dei topi e delle rane”;  con tanti saluti agli scrittori contemporanei che hanno avuto un’educazione classica, dalla quale sono convinti di pescare a piene mani per distinguersi dagli altri, e invece non si accorgono, ancora una volta di scimmiottare una scrittura che non c’è più, che non può esserci più e alla quale, però, non sono in grado di dare continuità.

Quanto a Montale, osservava come il pubblico della poesia e della critica sia scomparso, nel nostro Paese; poeti e critici vagano come sonnambuli che la gente comune scansa, incredula, mentre la poesia stessa difficilmente potrebbe sopravvivere, nel mondo dell’informazione e scriveva queste righe sessanta anni or sono. Sessant’anni dopo, a margine di un film americano viene citata una frase che si dice carpita da un dialogo in un bar, a proposito della crisi economica e alla difficoltà di accettare i dati di fatto: la realtà è come la poesia e la poesia alla gente sta sulle palle; tragico contrappunto alla domanda che il premio Nobel si poneva, come era potuto accadere che la poesia fosse diventato un gesto che non ci riguarda. E se fosse, conclude sul punto l’Autore, per il fatto che semplicemente non ci sono poeti o quelli che ci sono non sono all’altezza?

L’amara considerazione che apre il libro – ma potrebbe benissimo chiuderlo e non muterebbe il contenuto del lavoro di Ficara – intorno al fatto che nel banco dell’ortolano il carciofo e il tarocco di origine protetta fanno bella mostra di sé, mentre in libreria si trova pochissima letteratura ‘biologica’ porta alla conclusione per la quale una lingua e una nazione esistono solo se esiste continuità letteraria e si interrompono entrambe là dove si interrompe la letteratura.

Cesare Stradaioli

Giorgio Ficara – LETTERE NON ITALIANE – Bompiani – pagg. 325, €13

 

INQUILINI ABUSIVI

Insisto sulla necessità di un linguaggio comune. Poiché ci troviamo a vivere in un periodo sociale in cui è necessario continuamente spiegare, specificare, precisare – se dico che non sono d’accordo con te, non significa che io nutra dei dubbi sulla tua onestà intellettuale o sulla moralità tua e del ramo femminile della tua famiglia, né che io ritenga che la tua formazione culturale sia deficitaria, né che tu viva una forma di schizofrenia che ti porta a predicare bene in pubblico e a razzolare male in privato, né che tu sia sul libro paga di questo o quel potere forte, né infine che sia opportuno che tu cambi lavoro, anzi, già che ci siamo che tu rimanga in silenzio e che ti astenga in futuro all’esprimere opinioni che sono invariabilmente sbagliate se non ridicole – dico subito che avere un linguaggio comune non può in alcun modo significare automaticamente concordanza, in tutto, in parte o per nulla, di idee .

Bisogna intendersi sulle parole e sui termini che vengono usati, altrimenti dovremo rassegnarci a un futuro fatto non tanto da sistematica guerra ideologica, quanto piuttosto da un confuso scontro di termini sotto forma di armi che non possono ferire, né dalle quali si può esserlo, poiché non vengono reciprocamente riconosciute come tali. Cioè a dire, usare e ascoltare giudizi che godono di legittimità solo se provengono da fonti da noi stessi riconosciute.

Ora, la vulgata comune di molti sostenitori interni ed esterni del governo Renzi, è che l’opposizione del PD ritenga il segretario-presidente del consiglio una sorta di usurpatore; una volta messo sul tavolo un simile assunto (che ovviamente viene dato per vero, senza neppure scomodarsi di chiederne conto agli interessati, magari per avere una conferma di questa percezione o forse una clamorosa smentita), il passo successivo è fare notare come la carica di segretario sia stata frutto delle primarie e non di un colpo di mano e che il mandato presidenziale a formare un esecutivo ne sia stata logica conseguenza politica. Nessuna usurpazione, dunque; si rassegnino, la sinistra PD e tutti coloro che non condividono la sua politica e i suoi metodi: salvo complicazioni, il mandato di Renzi a governare durerà fino alla fine fisiologica della legislatura corrente.

Non posso – né, soprattutto, voglio, prendere le difese della cosiddetta sinistra parlamentare del PD; sulla quale pesano enormi responsabilità politiche gravissime per il comportamento tenuto, quanto meno dal 2012 in poi (anno dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, forse l’iniziativa politica più nefasta dal dopoguerra), fino all’atteggiamento ridicolo se non fosse gravissimo che la spinge a subordinare il Sì al referendum a che venga cambiata la legge elettorale; è gravissimo, questo atteggiamento, perché se si ritiene che la riforma costituzionale sia sbagliata, si voti contro a prescindere, dato che non diventa migliore se solo si cancella il cosiddetto “Italicum” e, allo stesso modo, se si pensa di votare Sì, è necessario essere convinti della sua giustezza e utilità, con il che modificare o meno il sistema elettorale è questione tutt’affatto diversa.

Detto ciò, e non avendo in dotazione la formidabile memoria cartacea, virtuale e mentale di Marco Travaglio, sono sicuro di ricordare piuttosto bene – e come me, tantissime altre persone – quante volte e su quante tematiche Matteo Renzi si sia espresso in una certa maniera, dalla prima sua campagna per le primarie, dalla quale uscì sconfitto da Pierluigi Bersani, fino ai primi mesi di governo quale presidente del consiglio, per poi dire, fare e comportarsi in maniera del tutto diversa, opposta e aspramente conflittuale – quando non arrogante e maleducata – nei confronti di coloro che gli ricordavano quanto sostenuto in precedenza. L’articolo 18, il lavoro, la scuola, la trasparenza politica, la necessità di rinnovamento, una chiusura senza se e senza ma agli apparentamenti politici trasversali, una severa critica al ricorso bulimico alla fiducia da parte dei precedenti esecutivi, soprattutto quelli berlusconiani, dialogo a tutto campo con le parti sociali, la lotta alla corruzione, l’ambiente, la tutela della cultura, la rivendicazione della sovranità nazionale nell’ambito europeo e via dicendo.

Si dice che solo i cretini non cambino mai opinione; di sicuro lo fanno quasi tutti i mascalzoni e poi è sempre una questione da regolarsi con la propria coscienza, disponendone di una ancora in grado di funzionare. Resta il fatto che sappiamo tutti benissimo com’è andata a finire, tanto per dirne solo qualcuno, con l’articolo 18 che non si tocca, col dialogo con le parti sociali, che al momento continua a registrare amorosi sensi con Confindustria e cannonate ad alzo zero verso il sindacato (la CGIL, in modo particolare), col rinnovamento che ha visto totale appoggio a Ignazio Marino per lasciarlo poco dopo in balia di un pestaggio politico mai visto né sentito prima, mentre il presidente del consiglio guardava dall’altra parte come se si stesse trattando della giunta dell’ultima delle comunità montane e non dell’amministrazione della capitale dello Stato, con un governo che ha fatto ricorso al voto di fiducia in percentuale doppia rispetto a quelli di centrodestra e ci si può fermare qui.

Cambiare idea si può e in certi casi si deve: ma quando si rivestono cariche istituzionali, la volta che si cambia idea si deve anche avere la forza, il coraggio e l’onestà politica di farsi da parte: se uno si spende mettendoci la faccia, come ama ripetere Renzi, cercando in tutti i modi di convincere gli elettori di questo e di quello e se poi su questo e quello si cambia opinione, se poi si va in direzione ostinata e contraria (e sbruffona, da dannunzianesimo fuori tempo massimo) e si ha la consapevolezza e la trasparenza intellettuale che se gli elettori avessero saputo allora ciò che adesso si pensa di questo e di quello, non avrebbero dato il loro sostegno, ebbene l’uomo politico degno dell’aggettivo fa un passo indietro; lascio la poltrona e proverò a essere utile al partito in tanti altri modi. Si usa fare così, in certi Paesi che di frequente – e, spesso, ad minchiam, per citare il compianto professor Scoglio – vengono citati come esempio di maturità politica.

Altrimenti, sì, si diventa usurpatori; non per come si è stati scelti, ma per il modo in cui si oltrepassa in maniera spudorata il limite del compromesso – al quale, nella vita reale, molti programmi politici devono adattarsi e il M5S comincia a saperne qualcosa – per tracimare verso tutt’altra parte, con tutt’altri alleati, in favore di tutt’altre istanze politiche e sociali.

Si diventa abusivi, se le parole hanno e devono ancora avere un terreno comune nel quale capirsi e utilizzarle – abuso: uso illecito di qualcosa, Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana.

Matteo Renzi esercita il proprio doppio ruolo di segretario del PD e di presidente del consiglio in modo illecito, dal momento che la direzione politica del partito e del governo è da tempo indirizzata in maniera radicalmente diversa da quelli che erano i suoi programmi come candidato segretario e i suoi obbiettivi quando divenne capo dell’esecutivo. Pertanto, è da qualificarsi abusivo e questo, s badi bene, al netto delle fanfaronate, delle bugie, degli atteggiamenti da Gianburrasca, dei motteggi offensivi – cose che, sempre nei Paesi di cui sopra, non sono accettate.

In merito a tutto ciò, non sono per nulla interessato alle opinioni dei rappresentanti politici del PD, dentro e fuori il Parlamento, favorevoli a Renzi o suoi oppositori: troverei molto più utile e politicamente costruttivo sapere cosa ne pensano la base, gli elettori, tutti coloro che da Sinistra – anche moderata – ritengono di avere il PD come punto di riferimento. Perché l’aria che tira, al di là delle sfibranti dispute su Renzi e la sua corte dei miracoli e a partire dal ritorno di Vasco Errani alla vita politica attiva, è quella di un imminente regolamento dei conti, che considero potenzialmente più deflagrante dell’esito referendario, vincenti o perdenti i NO: fin dai tempi del PCI, le menti politicamente più avanzate nascevano e spesso si formavano altrove, ma quando il braccio di ferro si fa in Emilia Romagna, le conseguenze riguardano tutta la Sinistra, tutto il Paese. Tutti noi. Anche per questo, è necessario un linguaggio comune.

Cesare Stradaioli