QUESTO REFERENDUM NON S’AVEVA DA FARE

Voterò NO al referendum sulla riforma costituzionale, ma avrei preferito che non si tenesse. Il ricorso alla consultazione referendaria è argomento, di fatto e di diritto, alquanto scivoloso e zeppo di insidie. Tutti ricordiamo la per nulla celata avversione del PCI nei confronti del referendum, così come è nella memoria di chi abbia un po’ più di quarant’anni lo scontro senza esclusione di colpi – in tutti i sensi – fra i radicali, da sempre forti propugnatori della chiamata referendaria e i vertici (e non solo i vertici) dell’allora più forte partito comunista dell’ovest Europa.

Andrebbe rivisitata, l’ostilità verso questa forma di democrazia diretta, così come andrebbe meglio capito il perché i padri costituenti avessero posto non poche limitazioni alla sua indizione e al suo accesso: in fin dei conti, le stesse ragioni per le quali era stato disposto il ridimensionamento dell’esecutivo e il rafforzamento della prassi legislativa e cioè una barriera contro il populista di turno, il tribuno del momento, contro in definitiva un troppo ‘facile’ accesso al potere e, dunque, alla manipolazione del consenso popolare.

Deve essere ricordato che, ovviamente, non tutte le questioni che furono sottoposte a referendum nel nostro Paese – oltre a quelle che non superarono i vari sbarramenti tecnici – hanno avuto la medesima complessità o richiedono la stessa competenza minima. Tematiche quali il divorzio o l’aborto toccano immediatamente non solo le più intime corde dei cittadini, ma sono di agevole comprensione e consentono una valutazione personale di un considerevole livello, quanto meno in una notevole percentuale degli aventi diritto al voto. Già la questione del finanziamento pubblico dei partiti, a mio giudizio, presentava grossi ostacoli di comprensione e, perciò, consapevole valutazione personale; quanto al referendum – lo sciagurato, referendum – sul sistema proporzionale, i disastri che ne sono seguiti sono figli diretti di una disinformazione che, a dire la verità, poca fatica ha fatto nel condizionarne l’esito. Se una materia è di agevole comprensione, è chiaro che l’opera di disinformazione deve esser più attiva, più pervasiva, laddove quando si tratta di questioni più strettamente connesse alla tecnica (legislativa ed elettorale, in questo caso), basta poco per disinformare, per condizionare pesantemente l’elettore/votante. E mai si ricorda una stampa allineata all’esecutivo quale quella dei nostri giorni, neanche nei più bui anni democristiani: neppure Fanfani o De Gasperi avevano giornali e reti televisive così asservite come li ha Renzi.

Ora, è stato detto da più voci che la questione relativa alla permanenza o meno della Gran Bretagna nella UE non avrebbe dovuto essere oggetto di consultazione referendaria; a parte il fatto che ci sono serissimi dubbi che tale perplessità sarebbe stata manifestata se avesse vinto il ‘remain‘, anche coloro – come il sottoscritto – che hanno accolto in maniera meno isterica e più ponderata l’esito contrario che ne è sortito, devono dare atto del fatto che sì, in effetti si trattasse di materia delicata. Per quanto, però, la permanenza in un sistema economico, o la sua uscita, si manifestano in svariati modi nella vita di tutti i giorni, a cominciare dal bilancio di ogni singola famiglia o attività lavorativa, per arrivare a questioni più complicate di sovranità e di autodeterminazione: con il che, va detto che il referendum britannico poteva anche non essere tenuto, ma che vi sia stato non costituisce un vulnus di particolare gravità.

Tutt’altro discorso va fatto in merito al referendum che si terrà in Italia sulla riforma costituzionale e su quella elettorale. Si tratta di questioni strettamente connesse alla tecnica legislativa e a principi di altissimo ordine costituzionale: mi sia concesso esprimere la più forte perplessità in merito al fatto che queste tematiche siano effettivamente comprese da chi è ammesso al voto. Credo anche che sia necessario fare mente a quanto soleva ripetere Adorno a proposito della libertà di voto: che non è la libertà di votare A, votare B o votare C, quanto piuttosto e soprattutto SAPERE che cosa è A, cosa è B e cosa è C. Lo sanno, i cittadini italiani che saranno chiamati, se lo vorranno, a esprimere la loro opinione su due questioni, una – quella elettorale – di grandissima importanza, e l’altra – quella costituzionale – di portata epocale, su cosa decideranno? E come, decideranno? Qual è il grado di consapevolezza e di conoscenza e di riflessione, non dico di tutto il corpo elettorale, ma almeno di una sua apprezzabile percentuale? Io credo che sia piuttosto basso e, pertanto, facilmente guidabile dall’esecutivo renziano e dai poteri mediatici che lo sostengono.

Io credo che il referendum sia una trappola, nella quale sono cadute come direbbe Shakespeare, con armi e bagagli, eminenti e stimate personalità del mondo giuridico, della cultura, della società civile. Il mio timore è che l’esito referendario – che con tutta probabilità vedrà la vittoria del Sì con una percentuale intorno al 65% – costituirà in realtà un referendum sulla figura di Matteo Renzi e su TUTTO il suo operato, passato, presente e futuro, nonché naturalmente di coloro che stanno dietro questa figura di giovane futurista in ritardo di un secolo che, in altri tempi, avremmo definito pittoresca e caricaturale (agli albori delle loro carriere politiche fu detto e scritto lo stesso di Mussolini e Berlusconi, ogni tanto andrebbe ricordato agli alzatori di spalle e sopracciglia in servizio permanente effettivo).

D’altronde, chiedo pazienza, ma con sconforto rilevo che a pochissimi sia sembrato strano (e dunque fortemente sospetto di fregatura) che la medesima figura politica che si era strenuamente battuta per avere una riforma costituzionale, avesse poi essa stessa proposto una consultazione referendaria. Qualcuno ha ricordato il caso di De Gaulle, che fece una cosa analoga in merito al Senato: iniziativa che, nelle previsioni, avrebbe dovuto risolversi a suo favore  e che, per contro, gli fu fatale. Varrebbe la pena di riflettere con distacco sulla brillante intuizione teorica delle prime Brigate Rosse in merito al cosiddetto neogollismo e le derive autoritarie e antidemocratiche che ne potevano seguire – poi prevalsero le armi da fuoco ed è andata come è andata: non di meno, le analisi avevano fondamento. Ma a parte ciò, sembra evidente il disegno renziano: senza alcuna ragione politica (le riforme sono state approvate dal Parlamento – e qui DEVE essere chiara e forte la critica nei confronti della cosiddetta minoranza del PD – per quanto a colpi di fiducia, sicché detta riforma, dal punto di vista formale era del tutto regolare, a parte il fatto gravissimo che fu votata da un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, ma questo è un altro discorso), il presidente del Consiglio sottopone al parere popolare una riforma.

Se questo non è un modo per surrettiziamente chiedere e ottenere il consenso sulla propria figura, certo gli somiglia assai.

Non si doveva arrivare al referendum; gli oppositori a questa porcheria costituzionale ed elettorale, dentro e fuori il Parlamento, dovevano spendersi meglio e soprattutto PRIMA che diventassero legge dello Stato. Ma tant’è. Il referendum ci sarà e con tutta probabilità lo vincerà Matteo Renzi. Tuttavia, si può sempre provare a fare in modo che le cose vadano in maniera diversa e contraria al sua mantra preferito (lo era anche di Margaret Thatcher) che non c’è alternativa. Per dirla con Gianni Clerici, anche se stai giocando contro il numero 1 al mondo, tu butta la pallina oltre la rete: non è detto che torni indietro. Perciò, su questo sito nei prossimi giorni apparirà una serie di articoli che proveranno a mettere in risalto gli aspetti negativi di questa riforma, provando a diffondere un po’ di controinformazione da questa postazione intitolata a un uomo che sarebbe andato letteralmente di porta in porta, per farlo.

Anche lui, buttando la pallina oltre la rete, come ha fatto per tutta la sua vita politica e sindacale.

Cesare Stradaioli

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LO STATO, PRIMA DI TUTTO

Il capo di vestiario denominato ‘burquini’ viene fatto indossare alle donne o viene da esse indossato per un’unica semplice ragione: l’esibizione del corpo femminine non va bene in quanto peccaminoso. Questo, nessun altro, è il motivo per il quale ne viene prescritto l’uso. E’ perfettamente inutile, e perfino disonesto, fare finta che si tratti di altro, che vi siano altre ragioni, altre spiegazioni. Dato che non conosco l’islam al punto da poterne compiutamente discutere, non potendo affermare con certezza che sia un preciso precetto di questa religione, posso limitarmi a dire che lo è, oppure che ne è un’interpretazione: comunque sia, senza tanto menare il torrone, questa è l’unica ragione per la quale in piscina o in spiaggia, ovunque altre compaiono in costume da bagno, alcune donne di religione musulmana portano quell’orrendo capo di vestiario.

Mi è capitato di udire testimonianze di donne non musulmane le quali, recatesi in determinati luoghi di qualche Paese arabo, hanno dovuto (per rispetto, per convenienza, per quello che si vuole) coprirsi integralmente per prendere il sole e fare il bagno: a quanto pare, il prima (sole cocente e caldo insopportabile), il durante (pare di affondare in acqua sotto il peso di un pesantissimo sudario) e il dopo (bollire all’interno di una sorta di opprimente serra appiccicata addosso), sono momenti terrificanti. Poco importa: fosse anche un’esperienza paradisiaca, non cambierebbe il senso della questione. Rimane il fatto che il divieto di esporre il corpo femminile (e, voglio essere chiaro sul punto, la mia indignazione si estende anche alla copertura dei capelli, anch’essi forieri di pensieri peccaminosi – le cristiane della regione mediterranea e quelle europee fino a qualche decennio fa ne sanno qualcosa, non facciamo finta di non saperlo: ovunque, alla fine di guerre finite le donne accusate di collaborazionismo o di avere concesso favori sessuali all’invasore venivano rasate, al solo scopo di annullarne o umiliarne la femminilità, mica per ragioni di profilassi anti pulci), non ha altro nome che segregazione e mancanza di rispetto della donna.

Altro discorso sarebbe, a titolo di esempio, se una comunità intera imponesse al proprio interno che il corpo di tutti, maschi o femmine, adulti o bambini, fosse coperto per ragioni etico-religiose, di igiene, di usanza, di quello che vi pare: sarebbe comunque un concetto di impronta oscurantista, ma almeno varrebbe per tutti. Sappiamo benissimo, però, che a pochi metri da una sventurata insalamata in un abito (nero o scuro, oltre a tutto, tanto per aumentarne la temperatura all’interno), c’è un uomo – padre, marito, compagno, fratello, figlio, nonno, zio – bello spaparanzato al sole con pancia e gambe all’aria (che, quelle sì, magari, da un punto di vista esclusivamente estetico, andrebbero severamente burkinizzate) a grattarsi i gioielli di famiglia fra un bagno e l’altro. Per cui, per cortesia, evitiamo le cineserie e le ipocrisie.

Mi riesce impossibile comprendere, poi, l’accostamento che qui e là viene fatto – anche da donne e la cosa non manca mai di sorprendermi e non dovrebbe più, considerata la non più verde età – con le prime, timide apparizioni del bikini, nel dopoguerra. Non comprendo come si possa solo lontanamente mettere sul medesimo piano un’imposizione e una scelta, a parte la ridicola confusione fra un’aspirazione a liberare, anche psicologicamente, il corpo della donna e quella di rinchiuderlo. Cosa temono, coloro i/le quali avvicinano le due situazioni? Perché lo fanno? Seriamente pensano che ragazze e donne appartenenti a famiglie musulmane praticanti LIBERAMENTE portino il velo o il burkini? Decenni di studi psicanalitici per arrivare a un punto fermo, scientificamente indiscutibile quanto la nascita del sole a est e cioè che i primi cinque anni della vita di ciascuno di noi – salvo rare eccezioni dovute a miracoli o sventure – sono quello che noi saremo, sono uno stigma che ci portiamo dietro, sono un patrimonio dal quale non potremo liberarci mai e invece, di colpo, apprendiamo che TUTTE le donne musulmane sono completamente scevre da imposizioni, educazione, precetti religiosi e, pertanto, sono naturalmente libere di scegliersi l’uomo, il compagno o l’abbigliamento da mare o da piscina?

Perché questa posizione? Perché tanta palese ottusità? Perché tanta resistenza ai principi laici dello Stato? Perché ostinarsi a vedere solo lo sbirro che impone alla donna col burkini di toglierselo e non intravvedere, per contro, la garanzia di rispetto dei principi dello Stato laico che vieta ogni ostentazione religiosa? Mi dispiace sinceramente per quella donna costretta in pubblico a togliersi il burkini, perché indubbiamente PER LEI, quella è un’umiliazione, per non parlare del rischio di prendersi parole (o altro), una volta tornata a casa: ma la legge, i principi dello Stato valgono erga omnes e non possiamo farne ogni volta un caso personale e la sua sofferenza e quella di qualche altro centinaio di donne, saranno o dovrebbero essere la libertà per i prossimi milioni che verranno. Perché non indignarsi, per puro principio di ragionevolezza, contro chi paragona il vestiario di una suora a quello di una musulmana al mare, quando è evidente che la prima appartiene a un ordine religioso il quale (come, per fare un altro esempio, una divisa militare: ovvia e accettata se portata da chi ne ha scelto la vita, mentre è inaccettabile e perfino ridicola se la veste – la ostenta! – un civile) vede il vestiario quale elemento fondamentale anche di riconoscimento e non certo di ostentazione?

Nel frattempo, la Sinistra perde un’altra occasione di essere tale. Davvero, la Sinistra europea sembra persa in un perenne avvitamento che ancora non le ha fatto raggiungere un fondo sul quale adagiarsi e dal quale, magari, ripartire verso la superficie. Incerta, ondivaga, malsicura, pelosa, balbettante, bugiarda, ipocrita, cerchiobottista, liquida come prospettava uno sciagurato figuro quale Veltroni, perfino ignorante, anche in questo campo si appresta a lasciare spazio alla Destra. Dopo avere sbeffeggiato l’ecologia, gravissimo errore storico e ce ne accorgiamo ogni volta che crolla una palazzina o muore qualcuno all’ILVA, dopo aver sostenuto l’industrializzazione a tutti i costi, dopo la governabilità a tutti i costi, dopo le revisioni storiche (per anni le foibe sono state stupidamente negate e così, prima o poi doveva succedere, quando è stato impossibile negarne l’esistenza – per inciso: in zona, la gente si infoiba da qualche secolo, non hanno cominciato i partigiani titini – è stato consentito di riscrivere la storia della resistenza a personaggi come Giampaolo Pansa, perfino dando voce a Storace o Gasparri), dopo mille altre tematiche, anche questa infingarda e supina accettazione del relativismo, che viene immediatamente cavalcata da Lega e xenofobie varie in Europa, costituirà una regressione culturale, perfino antropologica di un ceto politico di sinistra (non merita la maiuscola), senza passato, senza presente e senza futuro.

Cesare Stradaioli

SIMILITUDINI

E’ necessario parlare la stessa lingua, per capirsi. Per comprendere convergenze e divergenze, altrimenti il tutto si risolve in un battibecco capace di un frastuono simile a milioni di piume che si scontrano fra loro. Bisogna, però, che coloro i quali in buona fede e onestà politica sostengono Presidente del Consiglio, la piantino di qualificare i suoi detrattori tutti allo stesso modo, come visionari, gufi, vecchi arnesi, dinosauri della politica, nostalgici di chissà che cosa. E, per converso, bisogna che i detrattori stessi siano più precisi e definiti nelle loro critiche. Più che altro, bisognerebbe che i sostenitori di Renzi facessero credito di intelligenza politica e di senso della memoria, a coloro che lo usano come paragone di tristi figure del passato, recente e non.

E’ evidente che Renzi non possa essere assimilato a Berlusconi. Differiscono età, capacità imprenditoriale, legami pressoché certi con la mafia (anche se un giorno o l’altro dovremo sapere se e in che misura egli sia più o meno condizionato dalla massoneria toscana), sconfinate proprietà editoriali e sportive, oltre a una corte politico-affaristica di primissimo livello. Per non parlare del diverso contesto socio-politico. Detto questo, però, non è proprio possibile non sottolineare come, se l’apparenza, la visibilità mediatica, il formidabile potere degli annunci, l’asservimento quasi unanime di quasi tutta la stampa, la capacità affabulatoria, la assoluta mancanza di qualcuno che si alzi in piedi a sbugiardare la sistematica raffica di stupidaggini, disonestà, imprecisioni, presenzialismo, se tutto ciò nella società odierna popolata da un numero indefinito di persone che inseguono cartoni animati sullo smartphone e affetta da una endemica carenza di lettura di libri e articoli di stampa (i titoli vanno via come il pane e infatti se ne fa largo abuso), ha – come senz’altro ha – un peso determinante, allora chi ritenga di sostenere un politico che ne fa abbondantissimo uso, arrivando a occupare larghi settori della società italiana, non deve poi adontarsi per il paragone.

Renzi dice cose in buona parte diverse da quelle che diceva Berlusconi: più che altro nella forma, dal momento che per certi versi la sostanza è simile, ma non facciamo i difficili. Quello che gli viene contestato, che gli DEVE essere contestato, è il modo in cui parla, si esprime, rintuzza le critiche, irride gli avversari; è lo spregiudicato uso della propria persona, messa regolarmente in gioco, evocando la faccia che ci mette in ogni legge promulgata in maniera del tutto assimilabile al giuramento più volte fatto da Berlusconi sui propri figli; è l’ostentazione stessa del proprio corpo, inteso in senso strettamente fisico, tesa al sorriso, all’aspetto decisionista (come si dice “che pensi mì” in dialetto aretino?), al dinamismo più accennato che praticato, a evidenziare una somiglianza fra i due che ha del palese.

Non è consentito utilizzare l’annuncio – l’elenco berlusconiano degli annunci strombazzati su cose mai realizzate è sterminato, mentre quello renziano è più contenuto ma, perbacco, diamogli tempo: l’ex cavaliere ha pur sempre governato per 9 anni, Renzi per meno di un quarto – porsi al centro della scena oscurando quasi tutti, scagliarsi sempre e solo contro i sindacati, strizzare l’occhio alla Confindustria con l’ammicco del “fra di noi ci siamo capiti“, promuovere una legge sul lavoro di puro stampo thatcheriano, operare tagli lineari degni del Tremonti di una volta (quello odierno pare folgorato sulla via di Damasco, ma io una mano sulla Colt la terrei comunque: la fiducia va meritata e qualcuno, a causa del suo passato, se la deve anche strameritare), farsi vedere ogni volta che c’è una celebrazione, un trionfo sportivo, una ricorrenza e regolarmente appropriarsene (ultimamente mancava che Renzi si mettesse a petto nudo a mietere il grano o una barchetta di carta in testa a smazzare cemento con la cazzuola), utilizzare un linguaggio futurista di dispregio per tutto quello che è contrario, propagare la vulgata per la quale sembra che prima di lui il mondo non esistesse e se esisteva faceva schifo, dare dei lavativi a destra e a manca, insistere fino allo sfinimento sul “non c’è alternativa“, concetto che rappresenta quanto di più antipolitico si possa immaginare, martellare la scuola, la Costituzione, la ricerca scientifica e, infine, tacere regolarmente sulla criminalità organizzata e sul suo ruolo definitivamente di primo piano nella politica e nell’economia del nostro Paese, senza aspettarsi che prima o poi qualcuno faccia un paragone con Berlusconi.

Così, come i sostenitori di Renzi ci faranno la cortesia di non ritenerci tutti babbei e di darci il credito di essere perfettamente consapevoli – siamo mediamente in gran parte più in là negli anni e, stiano tranquilli lui e i suoi sostenitori, abbiamo letto qualche tonnellata di saggi storici più di loro – di NON trovarci in epoca fascista, di non essere nel 1922; ma ci ascoltino senza manifestare fastidio, quando ricordiamo loro che l’ascesa al potere di Mussolini non fu un colpo di stato come si può immaginare in un Paese del Terzo Mondo (l’Italia, a dire il vero, economicamente lo era, fortunatamente dal punto di vista del retaggio culturale era all’avanguardia), dove basta che un pugno di caporioni occupino il Palazzo e tutto cambia e che, per contro, fu preceduta da una sistematica erosione non tanto e non solo dei diritti politici, quanto piuttosto e soprattutto del dissenso, che allora veniva sì zittito con il manganello e l’olio di ricino, ma oggi in maniera molto più ‘democratica’ e accettabile, con il silenzio, l’accettazione di QUALSIASI notizia che riguardi corruttela, spoliazione dei diritti dei lavoratori, distruzione di scuola pubblica, paesaggio e cultura, da parte di un’opinione pubblica ormai mitridatizzata. L’allineamento dei mezzi di comunicazione (che, bisogna dirlo, ha dell’impressionante: neanche sotto la DC fanfaniana), provvede a pitturare ogni crepa del sistema sociale, ogni attacco, ogni passo indietro con la vulgata “massì, cosa vuoi che sia, che esagerazione, ma ti perdi dietro alle parole, siete i soliti catastrofisti, siete disfattisti“, determinando così una sinistra similitudine, anche sintattica, con le pallide e distaccate parole di una nazione che stava per subire l’iniziativa di un ceto politico e di potere in procinto di prendersi il Paese, sull’onda del disastro umano ed economico che stava patendo – derivante oggi dalla spaventosa crisi causata dalla bolla finanziaria del 2007, ieri dalla Prima Guerra Mondiale.

Pezzo per pezzo, passo dopo passo, alzata di spalle dopo alzata di spalle: così si consumò il trionfo del Fascismo; quietamente, in una lunga e indolore discesa, mentre venivano messi a tacere gli oppositori e le loro stesse eliminazioni – fisiche o culturale – tramite il bavaglio alla stampa. Oggi non si può mettere il bavaglio alla stampa, ma il bello è che neppure serve: anzi, ai mezzi di informazione viene dato sempre più spazio, sempre più di frequente si avverte uno spostamento di imitazioni a livello di comportamenti e soprattutto di linguaggio, dalla pubblicità alle notizie stesse (l’esempio più osceno, in mezzo a tante altre oscenità, si diede qualche anno fa: Umberto Bossi utilizzò il termine ‘quadra’, che come sostantivo in italiano non vuol dire un bel niente e, neanche il tempo che ne sparisse l’eco, commentatori televisivi e notisti della carta stampata presero a utilizzare quell’orrendo termine, facendone un neologismo). E ancora: il frastuono, l’allarmismo, la paura del diverso, del migrante, del rimanere senza lavoro, del non avere futuro, né i cinquantenni e neppure i giovani, l’avvilimento, lo scoramento, sbandierati, ripetuti, bombardati e ribombardati, coprono lo scivolamento verso un regime di quieta e ovattata uniformità. Del resto, l’idea stessa del Partito Nazione, oltre a ricordarci che moriremo democristiani, perché la DC è viva e lotta alacremente contro di noi, non può non evocare a chiunque abbia una qualche lettura di storia e di dottrine politiche, l’idea del Partito Fascista, con le sue corporazioni e, sì, con la sua particolare idea di Destra sociale – treni in orario, colonie per i bambini, la creazione dell’IRI (fu fatta per provvedere al salvataggio di alcune banche: ricorda per caso qualcosa?) e la sua natura etica e tendente a ricomprendere tutto il pensiero nazionale.

Tutto questo non può che portare a degli accostamenti, al di là dell’epoca storica. Si dirà: poca roba, le similitudini e i paragoni lasciano il tempo che trovano, al cospetto della concreta attuazione della politica. E’ vero, ma fino a un certo punto. Perché in un Paese che vive uno spaventoso analfabetismo di ritorno, un abbrutimento culturale prima che economico (al quale abbrutimento dei costumi hanno contribuito TUTTI, da Berlusconi fino ai corifei renziani – in prima fila le donne, in una preoccupante nemesi), l’immagine purtroppo è tutto, la superficie è tutto, l’approssimazione è tutto, lo svacco è tutto, il pressappochismo è tutto, mentre milioni di persone non hanno neanche tempo per mettersi a piangere per le loro condizioni socio-economiche e figuriamoci se hanno forza e attenzione da dedicare all’analisi politica del renzismo al di là e oltre le facciate, che il Presidente del Consiglio butta a piena mani, già di prima mattina con i suoi tweet da quinta elementare, fino alle sistematiche inondazioni televisive. E questo uso dell’immagine, specie a noi italiani, a chi può far pensare? E soprattutto: il segretario di un partito di governo, al vertice del quale siede anche come Presidente del Consiglio dei Ministri e tutti i suoi sostenitori, invece di prendersela quando sentono dire che Renzi si comporta come e peggio di Berlusconi, dovrebbero provare a fare una seria autocritica.

C’è un problema: l’autocoscienza è pratica severa, che richiede onestà e indipendenza, personale e politica.

Cesare Stradaioli

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IL LIBRO DEL MESE DI AGOSTO Consigliato dagli amici di Filippo

 

Salvatore Settis è una delle voci più autorevoli che, negli ultimi decenni di afasia quasi totale della classe intellettuale italiana, si è levata a difesa di presidi quali l’ambiente, l’arte, il nostro patrimonio culturale, la rappresentanza politica dei cittadini. Tutti concetti ricompresi, valorizzati ed esaltati, insieme a tanti altri di uguale caratura, da quella che viene unanimemente riconosciuta in tutto il mondo come il documento politico-giuridico meglio scritto di sempre: la Costituzione della Repubblica Italiana. La quale, alla stregua del nostro immenso patrimonio culturale, si sa che esiste, ce l’abbiamo, ce l’hanno data 70 anni fa, se ne sta lì in un angolo dello spirito – qualcuno, i più acculturati, la tiene in bella mostra nella propria libreria personale – ed è e rimane un’opera, più che incompiuta (ché, di suo è compiuta e completa sotto ogni profilo, ciò che la rende pregevole anche sotto il profilo tecnico giuridico, oltre che linguistico), inapplicata.

Classico esempio di pratica italiana, è bellissima, chiara, di agevole lettura, copra praticamente ogni aspetto della vita pubblica e privata di cittadini e istituzioni … e finisce lì, nel suo essere splendida e in buona parte irrealizzata, perché anche la Gioconda è indescrivibile, però bisogna starle dietro, curarla, prestare attenzione, spiegarla, illustrarla, renderla umanamente fruibile, che arricchisca lo spirito; a lasciarla lì, non servirebbe a niente – e, a dirla tutta, abbiamo seri dubbi che sia utile, la Gioconda, oltre che alle agenzie turistiche e ai botteghini del Louvre. Insomma, le cose in Italia si promettono, si stanziano, si scrivono perfino e con tanto di decreti attuativi che, come dice il nome stesso, tendono all’attuazione, piuttosto che all’inanità. Intanto si dice e si programma: sul da farsi, vedremo e come dicevano molti dei nostri padri di un tempo, ‘vedremo’ significava ‘no’.

Alla promulgazione del non più nuovo codice di procedura intitolato a Giuliano Vassalli, comparve una vignetta di Altan, puntuta e precisa come al solito, nella quale comparivano un ministro – si suppone della Giustizia – e un suo collaboratore, il quale guarda con occhio perso il Ministro che al telefono dice: “Lo so che bisogna applicare il codice! Ma, dio bono, saranno più di mille pagine…”. Stessa vignetta, stessi personaggi, basterebbe sostituire la parola codice con Costituzione, e la terribile ferocia del messaggio rimarrebbe la stessa, attuale e avvilente. Lo sanno tutti, lo dicono tutti, che bisogna applicare la Costituzione, che la Costituzione è un’opera d’arte giuridica: sarebbe preferibile che avesse più critici e che fosse più puntualmente resa concreta nell’essere applicata.

In questa raccolta di articoli comparsi in più testate, periodiche e quotidiane, con la sua consueta e colorita vis dialettica, Settis ci mette in guardia: l’attacco alla diligenza non è cominciato con il governo Renzi; data da ben prima e, quale che potrà essere l’esito del referendum sulla riforma del Senato, fosse anche una sconfitta per i cosiddetti Ricostituenti, le cose non finiranno certamente lì.

Dalla cementificazione alla scuola non più tanto pubblica, dai diritti civili ai perniciosi effetti della globalizzazione, dall’arroganza dei mercati finanziari ai beni culturali, passando per l’ignoranza di chi pensa le riforme e quella ancora più becera di chi le scrive, l’Autore disegna un quadro a dir poco preoccupante dello stato delle cose nel nostro Paese.

Si dirà che non ve n’era di gran bisogno, che moltissime delle cose di cui scrive Settis siano note e più volte trattate. Sarà pur vero: e però, il modo migliore per evitare di sentirsi ripetere determinate problematiche è quello di affrontarle e risolverle una volta per tutte, cosa che da noi non succede che raramente e non di rado, quando succede è peggio che non fosse successo. E comunque l’aspetto interessante del libro di Settis è non solo e non tanto l’elenco puntuale e impietoso di guasti e nefandezze, con tanto di nomi e cognomi, italiani e non, quanto piuttosto lo spirito che innerva questa raccolta di scritti; non barricadero e di mera tenuta delle posizioni: aggressivo, invece, insistente. L’Autore non si limita a denunciare: siamo pieni di denunce, ne abbiamo ricolmi gli scaffali delle Procure e degli Istituti universitari. Non si limita a indignarsi: l’indignazione senza analisi e azione è e rimane un puro esercizio accademico.

E, parlando di accademia: si sentiva, eccome, il bisogno di un accademico, di uno studioso avvezzo a parlare e dialogare in lingue diverse e che non si limiti al bello e al culto dell’estetica e di come vorremmo che fosse il mondo ma, ahimè, i classici ci insegnano che c’è quello che c’è e non quello che ci piacerebbe che ci fosse (Umberto Eco, tanto per non fare nomi, splendido contenitore umano di nomi, dati e ragionamenti, per il quale questo è il migliore dei mondi possibile e avesse provato una volta ad andare a dirlo al rimanente 95% dell’umanità che, sarebbe da metterci una cifra sopra, non la pensava così). Si sentiva il bisogno di qualcuno che individuasse non solo i guasti, non solo i guastatori ma anche il come e dove riparare, mettendo al centro di tutti i ragionamenti sia la salvaguardia ma, cosa più importante, anche la completa attuazione di un documento che non è solo una Costituzione, ma rappresenta anche a 70 anni di distanza, a fronte di nuovi e più agguerriti attacchi alla democrazia, all’uguaglianza, alla dignità del lavoro, dello studio, della cultura, un vero e proprio Risorgimento sociale e civile che va preservato e rinfrescato, non con modifiche scalcagnate per quanto eterodirette, ma con la sua piena attuazione. Ogni cosa umana ha un suo sviluppo e una sua fine e la Costituzione della Repubblica Italiana non sfugge a questa logica che sta nell’ordine naturale delle cose: la si superi solo quando avrà avuto piena attuazione, pare dirci l’Autore, diversamente quello che verrà dopo non sarà una continuità bensì una cesura, che non promette niente di positivo per la dignità umana, che non può e non deve essere misurata a percentuali di PIL.

Davvero commendevole, alla fine, l’appendice che riproduce gli articoli attuali della Costituzione e quelli che ne costituiscono la modifica ai sensi della legge Renzi-Boschi.

Cesare Stradaioli

Salvatore Settis – COSTITUZIONE! Perché attuarla è meglio che cambiarla – Einaudi – pagg. 314, €19

IL LIBRO DEL MESE DI LUGLIO Consigliato dagli Amici di Filippo

 

Non si può nascondere una certa sorpresa nel leggere le riflessioni esposte da Giulio Tremonti nel suo ultimo lavoro. Va detto preliminarmente per coloro i quali – e, certo, non saranno pochi – arricciassero il naso, che il nome di Tremonti figura tutt’ora nel Consiglio scientifico di ‘Limes’, non esattamente una testata allineata ai governi dei cui dicasteri economici l’Autore è stato più volte responsabile. Si dica anche questo, di Tremonti (non che sia una chissà che particolare scoperta; basta averlo sentito parlare anche in una sola occasione): il Nostro tradisce una perniciosa tendenza sia all’essere profeta di se stesso, sia all’autocelebrazione e al narcisismo, ma siccome noi siamo quelli che preferiscono analizzare ciò che uno dice, scrive e fa, piuttosto che anteporvi una specie di scrutinio di legittimità a prendere la parla, siamo qui, curiosi come sempre.

E’ furioso, il mondo attuale: la crisi della finanza mondiale, il fenomeno delle migrazioni di massa, il ceto medio letteralmente privato del lavoro che tradizionalmente gli spettava – o riteneva che gli spettasse – nuove forme di guerre coloniali e, infine, la rete che erode le fondamenta della democrazia risolvendosi, da strumento di libertà di espressione a megafono per i tribuni.

L’Europa Unita assomiglia a quel quartetto d’archi che suona musica classica sul ponte del Titanic, con chiacchiere infinite sull’ultima legge comunitaria che regola le dimensioni dei caloriferi o la percentuale di latte nell’ultimo tipo di mozzarella prodotta, il tutto mentre il referendum britannico – il libro è stato dato alle stampe pochi giorni prima della consultazione popolare – minaccia di dare una seria svegliata alla congrega mista di eletti senza nessun potere e di non eletti che di potere ne hanno a strafottere.

In merito a cosa ne sia stato e cosa ne sarà delle previsioni sull’Europa Unita che, anche alla luce del recente referendum britannico, vede all’orizzonte profilarsi altre possibili situazioni di espressione di malcontento e distacco dalle istituzioni continentali, si intravede una scansione che ha dell’impressionante: popoli che temono il fenomeno dell’immigrazione e il terrorismo fondamentalista; governi che temono l’espressione di volontà dei popoli (non è consentito decidere quale consultazione popolare vada bene e quale non, e raramente come dopo il referendum britannico si sono sentiti alti lai di aperto disprezzo della volontà popolare); infine, il fenomeno del terrorismo fondamentalista che non teme nessuno. Alla luce di ciò, almeno due sono i fronti di crisi indicati da Tremonti.

Il primo riguarda il fenomeno dell’immigrazione. E in questo senso, l’Autore si mette decisamente di traverso rispetto alla formazione politica dalla quale ha spiccato il balzo verso l’esecutivo: muraglie di separazione e vallate di isolamento, alla lunga porteranno disastri per tutti. Nel momento in cui Tremonti menziona la povertà, a fianco delle guerre e dei conflitti entici, quali ragioni che spingono l’essere umano a lasciare la propria terra per affrontare la migrazione (che, è bene ricordarlo, vede nella traversata del Mediterraneo solo l’ultima tappa di un tragitto che spesso ha dell’allucinante: basti pensare alla distanza che separa la costa libica dalla quale partono i barconi, da una località qualsiasi del Sud Sudan o della Mauritania – qualcosa che va dai 4.300 ai 7.000 chilometri), esprime un concetto che fornisce interessanti spunti di discussione e di confronto, unitamente al concetto subito dopo trattato, quello del fallimento della cosiddetta esportazione di democrazia.

Il secondo fronte è quello aperto dalla degenerazione della finanza, una nuova superpotenza che non ha esercito, non ha confini: soprattutto non riconosce regole che non siano le proprie e persegue pressoché indisturbata il proprio obbiettivo totalitario, in forza di quel deserto che è stato spianato sulla pelle della società civile dal pensiero neoliberista. Si tratta di un fenomeno – se può essere chiamato così – che sfugge di mano dal controllo della politica e, pare, anche da quello dei suoi feticisti. L’Autore intravvede in ciò un passaggio di potere: dalla politica, ai banchieri e, infine, ai cosiddetti tribuni. Davvero suona strano, per quanto interessante, leggere di Giulio Tremonti che fustiga un mondo che vive solo se pedala incessantemente, inseguendo una crescita spasmodica e che ripone una fiducia al limite dell’idiota sulla possibilità che una sorta di stregoneria possa rimediare ai guasti causati dalla finanza globale.

L’estrema volatilità e la sistematica incertezza che pervade – oltre un ragionevole livello che si potrebbe definire fisiologico – l’economia condizionata dalla finanza, fa sì che gli indici macro e microeconomici non indichino niente di più attendibile di quello che potrebbe predire un oracolo. Prossima tappa, stando all’Autore: un mondo a tasso zero o sottozero o negativo in cui, tra l’altro, rischiano di saltare le polizze assicurative e i fondi previdenziali e assistenziali, soprattutto a partire da quelli del Centro e Nord Europa.

Viene da chiedersi: non sarà che tutto questo, molto più semplicemente di quanto ci affanniamo a spiegare in modo diverso, non significhi altro che in Occidente, sotto il profilo economico e di welfare, niente sarà più lo stesso? L’Autore non si sbilancia su questo, ma si spinge a fornire qualche suggerimento, con un ‘se’ come presupposto (ed è un gran bel presupposto): se fosse finalmente ridotto l’attuale strapotere della finanza, e se l’Europa finalmente agisse in forme meno divise e divisive, solo a queste condizioni potrebbe essere riformato anche l’euro. Farlo sulla base attuale, con la quale ci dobbiamo confrontare adesso, sarebbe una procedura suicida, che ci porterebbe dalla cosiddetta ‘tirannia’ politica esercitata dall’Europa a quell’altra, ben più sostanziale, esercitata dalla finanza.

E, per dirla con Leporello, madamine dalle belle speranze, il catalogo è questo:

  • un maggiore e non ossessivo grado di flessibilità nei bilanci pubblici;
  • un diverso, attivo e non passivo – come è stato finora – cambio dell’euro con le altre valute;
  • una diversa logica nell’utilizzo dei fondi europei, attualmente regolati in forme che sono espressione della più ottusa forma di burocrazia europea.

L’Autore ha sempre mostrato una certa propensione allo splendido isolamento: con questo ultimo lavoro sembra avere reciso parecchi legami, quasi come se avesse messo in pratica quanto dice il colonnello Kurz in “Apocalypse, now” quando invita l’uomo che è stato mandato a porre fine al suo comando, a prendere in considerazione l’assoluta libertà: “dalle opinioni altrui e anche dalle proprie.”

Cesare Stradaioli

Giulio Tremonti – Mundus Furiosus – Mondadori – pagg. 136, €17

Amici e complici

Al netto di quello che, prima o poi andrà chiarito, nel misterioso simil golpe avvenuto in Turchia e le conseguenze che si susseguono una all’altra, giorno dopo giorno, è ovvio che sia preoccupante che in un Paese che avrebbe intenzione di entrare a fare parte della UE, che – non dimentichiamolo – sta ospitando centinaia di migliaia di profughi siriani e che – non dimentichiamo neppure questo – vanta il quinto esercito al mondo, si parli di reintroduzione della pena di morte, che dovrebbe essere addirittura applicata in via retroattiva, se riferita a coloro che dovessero essere ritenuti colpevoli di insurrezione armata; muove a preoccupazione anche il vedere uomini seminudi, prigionieri inginocchiati e incatenati, ammassati dentro palestre che ricordano sinistramente gli stadi cileni dopo il golpe del 1973.

Ma è davvero indecente l’ipocrisia delle cancellerie europee e della stampa (quasi) tutta, cantanti in coro e tenendosi per mano, quando si rivolgono ai cittadini, parlando di barbarie e di metodi inaccettabili.

Scusate, perché forse l’UE non ha da sempre, sia come unione sia come singoli Stati, un partner commerciale servito e riverito, che prevede la pena di morte in 37 dei suoi 50 Stati? Che ha aperto, gestito e mai chiuso, abominii come Abu Ghraib e soprattutto Guantanamo?

Neanche una parolina, per questi amichetti?
Cesare Stradaioli

Varie ed eventuali – parte prima

Sul voto segreto in Parlamento.

Com’è noto, si tratta di una pratica introdotta a tutela dell’indipendenza del rappresentante parlamentare, alla stessa stregua dell’immunità. Modalità di voto concepita quando si reputava – giustamente – necessario fare in modo che, quanto meno per determinate votazioni aventi a oggetto questioni gravi, di coscienza o politiche, ovvero soggette a pesanti influenze da parte del gruppo politico di appartenenza, l’espressione di ogni singolo voto non fosse riferibile a questo o quel parlamentare, in modo tale da consentirgli di partecipare al voto in piena libertà decisionale, senza subire pressioni o ritorsioni.

Questo, quando – come scrivevamo pochi giorni or sono – probabilmente più erano i gentiluomini che non i mascalzoni, a sedere sui banchi di Camera e Senato: ora, certamente il rapporto numerico si è invertito in maniera esponenziale, anche sotto il profilo delle condanne passate in giudicato; il che paradossalmente, invece di portare all’abolizione di un sistema di voto che presenta, quale altra faccia che ogni medaglia ha, problemi di chiarezza in punto di rappresentatività politica degli elettori (sarà pure giusto che io sappia come vota il parlamentare che ho contribuito a eleggere e, più in generale e fuori dall’orticello dei miei interessi, come vota il mio partito di riferimento), ci pone il dubbio se non sia il caso di mantenerlo, questo voto segreto. Magari per fare in modo che un parlamentare un po’ poco coraggioso e potenzialmente ricattabile, possa manifestare il proprio voto, tutelato dal segreto dell’urna. Come a dire, meglio un codardo che ogni tanto alza la testa, piuttosto che un peone sempre pronto all’obbedienza. Sarebbe meglio nessuno dei due, ma non si può avere tutto dalla vita.

Quanto accaduto ieri in Senato – che esiste ancora: in Italia si nascerà anche poco, ma dal punto di vista istituzionale morire è a termine indefinito, più che a credito, come scriveva Céline – non aiuta né, peraltro, conferisce dignità alla questione. Fuori dai denti: nello specifico, la vicenda giudiziaria di un ottuagenario ormai fuori dal Parlamento, la questione sarebbe di poco conto, se non avesse a che fare con la dibattuta questione delle intercettazioni di parlamentari e la loro utilizzabilità; ma poco ci importa se l’aiutino è arrivato dal M5S ovvero dal PD – e non sarebbe la prima volta, per cui Serracchiani, Orfini, Rosato e compagnia cantante dovrebbero di tanto in tanto praticare la nobile arte del silenzio. Quello che, a mio giudizio rileva, in quanto proiettanti oltre che nel passato anche nel futuro, è il motivo per il quale questo o quel senatore non fosse presente in aula al momento del voto.

Tanto per dire della capacità della Destra di mobilitarsi (il che spiega le sue ripetute vittorie, qui e altrove): ha partecipato al voto anche il senatore avvocato Niccolò Ghedini, detentore del record delle assenze presso la Camera di appartenenza, evidentemente più spesso impegnato in altre cose – come, per esempio, pagato dai contribuenti per fare il senatore, trascorrere innumerevoli giornate in tribunale, sottratte per l’appunto al proprio impegno di lavoro parlamentare, in collegio col senatore avvocato Piero Longo (idem) a difendere Silvio Berlusconi, all’epoca pure lui pagato per fare il parlamentare. NON hanno partecipato al voto, per esempio, il senatore del Pd Esposito – quello che ha accettato dall’allora sindaco di Roma Ignazio Marino l’incarico di l’assessore ai trasporti, per poi 45 giorni dopo partecipare all’accoltellamento politico di chi l’aveva indicato come persona adatta per quel delicato compito.

E dove si trovava, il senatore Esposito (a proposito: un Pro-TAV della prima ora, pienamente allineato con l’ex Presidente della Repubblica che non nomino e l’ex Procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, secondo entrambi i quali, i contestatori del TAV sono TUTTI, per definizione, terroristi)? In missione parlamentare? Impegnato in un importante convegno internazionale? A casa con il mal di pancia? No: si trovava impegnato in un dibattito televisivo.

E dove si trovava la senatrice Camilla Fabbri? A un’assemblea di Confindustria.

Era proprio necessario che il senatore Esposito fosse in televisione (dove, peraltro ci va spesso, a differenza per l’appunto di quanto fa Ghedini in Senato: gli uscieri di Palazzo Madama avranno preteso l’esibizione del tesserino, non riconoscendolo), invece che a votare? Non poteva andarci un’altra volta?

E la senatrice Fabbri, doveva proprio andarci, a questa assemblea? Non poteva PRIMA partecipare al voto e POI andare all’assemblea? O viceversa? E se ci è andata – come è ipotizzabile e, perdonate, anche auspicabile (cos’altro ci va a fare un senatore, a un’assemblea privata?) – solo per portare i saluti del parlamento o poco più, non ci poteva mandare un suo segretario? Dopo tutto, avrebbe giustificato in maniera apprezzabile la propria assenza.

Il voto segreto non è il problema. Il problema è la coscienza del singolo parlamentare. Il problema è: come possiamo, noi cittadini, essere certi della capacità, dello spirito di servizio, della serietà del compito che assume ogni singolo candidato, dal momento in cui sono state smantellate le scuole di partito e da quando chiunque – per il solo fatto di essere incensurato, il che non può mai essere sufficiente – è in grado di diventare parlamentare, con tutte le responsabilità, istituzionali, personali, di coscienza, che ciò implica, senza un minimo di esperienza pubblica, di studio, di formazione? Pretendiamo, ovviamente, che un medico, un insegnate, un avvocato siano dotati di laurea: da uno che partecipa niente di meno che alla decisione sui destini non di un singolo paziente o cliente o studente o anche solo diecimila di loro, ma su quello di milioni di cittadini da oggi al futuro, per le più svariate e alle volte fondamentali questioni, non si pretende altro che onestà e incensuratezza.

Troppo poco: non basta. E si vede – non si vedesse… ma si vede, parafrasando un celebre tormentone comico, che qui vira in tragico.

Cesare Stradaioli

Gentiluomini, gentildonne e prostituzione in saldo

Di nuovo sull’articolo 67 della Carta Costituzionale.

Il quale così recita – repetita iuvant: “OGNI MEMBRO DEL PARLAMENTO RAPPRESENTA LA NAZIONE ED ESERCITA LE SUE FUNZIONI SENZA VINCOLO DI MANDATO.”

Analizzando la frase nel particolare, abbiamo deputati e senatori (la qualifica di questi ultimi è rimessa al referendum di ottobre), che si danno per eletti, in quanto membri del Parlamento; abbiamo il fatto che rappresentino la Nazione in quanto eletti e che la rappresentino nell’esercizio delle loro funzioni.

Il fatto di svolgerle senza vincolo di mandato è un concetto lungamente discusso, anche in ragione di una certa indeterminatezza di cosa si intendesse col termine ‘vincolo’, posto che sul concetto di mandato non vi è mai stato dubbio di sorta. La questione non è di poco conto, dal momento che, a interpretare la lettera dell’articolo 67 nel massimo dell’apertura mentale, si potrebbe arrivare a dire che un parlamentare possa operare nell’ambito delle sue funzioni, seguendo intenti e perseguendo fini del tutto diversi da quelli con i quali ha convinto un certo numero di elettori a dargli la fiducia e mandarlo a Roma – o tenendocelo, trovandosi il tizio già lì.

Il che può essere fatto sostanzialmente in due modi: o remando contro, come si dice, all’interno del partito nelle cui fila è stato eletto, ovvero cambiando partito o gruppo parlamentare. Nel primo modo si rischia l’espulsione dal partito ma non da Parlamento; in realtà, allo scopo di evitare sgradevoli prese di posizione (o di subirle) c’è sempre il voto segreto a tutelare le male/benefatte, anche se poi alla lunga, oppure in occasioni di una certa importanza, prima o poi chi vota contro si viene a sapere chi sia stato. Ora, è ben vero che ufficialmente i 101 che hanno costituito la carica che ha affondato Prodi prima dell’indecente rielezione dell’altrettanto indecente Presidente che preferiamo non nominare, non hanno nome, anche se il loro ispiratore è Presidente del Consiglio da oltre due sciagurati anni: è altrettanto vero che, ufficiosamente, nomi e cognomi sono ben noti nei corridoi di Montecitorio e delle segreterie ma non traspaiono né traspariranno mai, allo stesso modo in cui i segreti del PCUS, sempre all’interno di determinati corridoi, non erano altro che segreti di Pulcinella, se vi è una versione sovietica della maschera partenopea.

Vi è un secondo modo: cambiare casacca. Ed ecco l’importanza dell’articolo 67, strettamente correlata all’esigenza non più procrastinabile della sua riforma. L’aggettivo riferito alla necessità e urgenza è uno dei più abusati, nella terra dei cachi e delle deroghe, pertanto siamo consapevoli di scrivere in merito a bei propositi. I quali, perbacco, in un modo o nell’altro devono pure esserlo.

E’ evidente che l’articolo 67 fu scritto in un’atmosfera da gentlemen’s agreement; sia chiaro, i filibustieri c’erano anche quella volta: non pochi, fra gli estensori di quella meraviglia giuridico-linguistica che è la nostra Costituzione, pochissimi anni dopo dettero corpo alla cosiddetta ‘legge truffa’. Diciamo che di filibustieri ce n’erano meno; diciamo che, nel periodo di gestazione della Costituzione, all’esito di infiniti scontri e diatribe, si giunse a una serie di accordi fra gentiluomini. Sarebbe preferibile parlare di accordi di pace – i quali, notoriamente, difficilmente si fanno fra alleati, essendo concettualmente più logico fare accordi col nemico – ma la sostanza non cambia, solo considerando la distanza intergalattica che, sotto il profilo culturale e politico, si misurava, per dire, fra un Arturo Carlo Jemolo e un Concetto Marchesi. Come che sia, il patto era questo: si entra in Parlamento all’interno di un partito e, se nel corso del tempo si decide di non essere più d’accordo né col partito né con le proprie idee iniziali, ci si dimette, per lasciare il posto al primo dei non eletti, col quale il dimissionario condivideva almeno all’epoca una profonda comunanza di idee e intenti. Ma se si ritiene di non doversi dimettere, ebbene ciò era rimesso alla coscienza del singolo, il quale in tutta onestà ritiene, in diversa collocazione anche sul dove prendere posto, di poter servire lo Stato (quando ancora il termine ‘servitore dello Stato’ non aveva indotto Altan a creare una vignetta all’interno della quale un ‘servitore dello Stato’ si augurava di essere destinatario di lascito testamentario alla morte del padrone, a ricompensa per l’appunto dei suoi servigi), intento che nobilmente andava oltre la diversità partitica.

Ecco, dunque, chiarito cosa significasse essere scevri da vincoli di mandato. Tu, elettore, non hai eletto me, bensì la mia onestà.

Bei tempi. Oggi, mentre il mondo si trova alle prese con attentati e colpi di Stato (staranno mica tornando i mitici anni ’70…), prosegue imperterrito un golpe strisciante, iniziato parecchi anni fa e tutt’ora perdurante sotto l’usbergo di governi diversi (anche qui ci sarebbe da discutere: magari un’altra volta), costituito dal massiccio, costante, impunito cambio di casacca di parlamentari che si contano a centinaia, travaso del quale hanno beneficiato tutti (e due), da Berlusconi a Renzi, e magnificamente acclarato in questi giorni dal transfuga sottosegretario Zanetti, del quale, in tutta onestà – ahi, che parolona – non ci importa un accidente né da dove è andato e dove è andato, né del perché (siamo grandicelli, e anche considerevolmente più vecchi e più esperti di vita di lui e non c’è bisogno che ci facciano un disegnino per sapere le ragioni di questa farsa del cambio di partito).

Non ci sono più i gentiluomini di una volta. Ed è anche e soprattutto colpa – sia chiaro – di chi li manda in Parlamento. Sta di fatto che sarebbe ora di ritoccare la Costituzione, introducendo il vincolo di mandato, ovvero un meccanismo che ponga fine all’osceno balletto, degno di locali per scambisti, di parlamentari che si muovono come truppe cammellate al servizio di questa o quella maggioranza. Sarebbe una modifica che non solo non toccherebbe l’impianto della Costituzione, i suoi gangli vitali, ma interverrebbe dove veramente serve: cos’è più importante? Abolire il bicameralismo perfetto o sapere che non vi saranno più trasfusioni di sangue infetto in Parlamento? Dovendo scegliere – sempre brutto essere messi di fronte a un aut aut, ma la vita è dura per tutti – noi non avremmo dubbi.

Cesare Stradaioli

Siamo pronti ad ascoltare

Diversi anni or sono, durante una delle interminabili pause giudiziarie che allignano nella giornata tipo di un qualsiasi palazzo di giustizia, mi trovavo a conversare con un insegnante palestinese con passaporto israeliano, che avevo conosciuto in quanto era anche interprete di varie lingue per il Tribunale. Prendendo bonariamente in giro le rispettive radici culturali (eravamo due laici estremamente scettici sul concetto di religione, pure se lui osservava il Ramadan – fa molto bene al fisico, dovreste provarlo anche voi, ripeteva), alla mia battuta relativa alla promessa delle settanta ragazze che attendono il martire islamico di turno, lui rispondeva: “E voi cristiani, che credete che il vostro dio sia nato da donna vergine?”

All’indomani del massacro di Nizza, credo che sia giunto il momento – non più procrastinabile – di esigere dai cittadini e soprattutto dai rappresentanti di culto islamici, una presa di posizione, come si dice nella vulgata abusata, senza ‘se’ e senza ‘ma’.

L’esempio dello scambio di battute con un cittadino – anche italiano, stavo scordando di ricordarlo, tanto lo consideravo e lo considero scontato e invece non lo è per nulla – dette per scherzare sulla religione, vuole significare quello che dovrebbe essere generale e cioè un sostanziale disinteresse QUI E ORA per questa o quella regola, questo o quel principio, questa o quella promessa per l’aldilà che connotano molte delle espressioni religiose, le principali sostanzialmente. Se a qualcuno piace credere nel paradiso e nell’inferno, o ritiene che la pratica della castità o dell’astemia siano benefiche, oppure ancora che un bel domani rivedrà le persone care scomparse prematuramente (memorabile, non trovo altri aggettivi, Aldo Busi quando ricorda l’episodio della sua amata madre la quale, dopo avere aperto la porta di casa a una coppia di testimoni di Geova, e avendo udito uno dei due dire di stare serena, che un giorno avrebbe nuovamente incontrato il marito – per nulla rimpianto, né come coniuge né come padre – aveva risposto, sbattendo loro la porta in faccia “Ci mancherebbe altro!”) o che a qualcun altro vada di seguire determinati dettami prescritti dal proprio credo, ebbene penso che potremmo e dovremmo lasciare il tutto circoscritto alla coscienza del singolo.

Ma. Quando la cosa degenera, partendo dal divieto alle donne di fare questo o quest’altro, dagli obblighi (e correlative proibizioni) in merito al vestiario e ai centimetri di pelle da esibire, fino a giungere all’uccisione di civili in nome della fedeltà o infedeltà alle parole di questo dio o di quest’altro profeta, allora i discorsi e il nostro approccio devono essere radicali. E questa radicalità pretende delle prese di posizione.

Si dirà – è già stato detto – che il singolo musulmano o il singolo rappresentante religioso islamico non rispondono di azioni quale quella di ieri in Francia: dal punto di vista penale non v’è dubbio. Il punto è altrove. La fede in una divinità, tanto quanto quella in una squadra di calcio o l’identificazione in un gruppo politico, crea appartenenza e in questo senso, se è sbagliato (oltre che idiota) accomunare tutti i credenti alle nefandezze commesse da qualcuno di loro – che, poi, accertata la sostanziale ignoranza in materia religiosa di qualche assassino sopravvissuto al massacro, anche sul concetto di ‘credente’ andrebbe messo qualche trattino sulle ‘t’ – è altrettanto inaccettabile che il singolo musulmano ignori o finga di ignorare ciò che viene quotidianamente commesso in nome dell’islam o di Maometto, dalle violenze consumate in casa, in su e che pretenda di non avere niente da dire in proposito.

Ugualmente inaccettabile, per dire, era giustamente considerato il fatto che un cittadino bianco sudafricano all’epoca dell’apartheid avesse chiesto di essere lasciato in pace a proposito della discriminazione razziale praticata nel suo Stato di appartenenza, idem per un cittadino tedesco all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, o che i cristiani pretendessero di non avere nulla da chiedersi o da emendare a proposito di tutti i massacri perpetrati in nome di dio e sarebbe ora inaccettabile che un cittadino americano si adontasse se gli venisse chiesto di dire qualcosa sui massacri che avvengono a casa sua, in omaggio al principio della libera circolazione delle armi. In altre parole, una presa di posizione è necessaria, sotto tutti i punti di vista. Lo è a chi la chiede, per capire fin dove arrivino la comprensione e la presa di distanze da parte di chi viene accomunato, in ragione della medesima religione (asseritamente) professata da chi si macchia di reati: uso il termine specifico, in quanto obbligare una figlia o una moglie a vestirsi in un certo modo costituisce, come minimo, reato di violenza privata e personalmente non transigo sul fatto che l’obbligo del burqua vada insanabilmente contro le norme di ordine pubblico della Repubblica Italiana; ma una presa di posizione è necessaria anche per colui al quale essa viene chiesta: a meno che a questo o quel cittadino, di qualsiasi nazionalità, ma facciamo che sia italiano o, visto quanto accaduto ieri, francese, non importi nulla che la fede religiosa che ha il diritto di professare liberamente e con tutela da parte dello Stato, venga sporcata da gesti criminali giustificati da (ri)letture ignoranti o interessate di una pagina o un’altra di un testo religioso al quale il singolo credente fa riferimento.

A parte il fatto che, in questo secondo caso, se non importa al singolo credente, importa A ME, siamo parte della stessa società, che lui dica una cosa invece di un’altra o, semplicemente stia zitto – e rivendico il diritto di chiederglielo – l’ipotesi di una rilettura interessata di determinati passi di una religione si è fatta, nel tempo, ben più di un’ipotesi. Solo la più profonda ingenuità può portare a ritenere che l’ondata di attentati che contraddistingue il nostro tempo presente sia unicamente da attribuirsi a un pugno di poveri disgraziati. Non sono altro che disgraziati, infatti, dei giovani che tolgono la vita altrui e la propria in nome di precetti e disposizioni che vengono loro impartiti da altri: i quali, a loro volta, fanno parte di una micidiale e miserabile filiera che prende le mosse da luoghi e persone che sono ben noti a chi pratichi di professione lo spionaggio e l’intelligence – e che non pretenda stupidity da noi, beninteso. Ma questo, come direbbe qualcun altro, è discorso diverso e – mi duole per Gino Strada, persona che ammiro senza remore – di puro carattere militare. Nel frattempo, e magari anche in previsione di scenari futuri con simili sembianze (non guerra fra religioni ma una religione in guerra), è tempo che i musulmani che non credono sia buona cosa portare la morte in nome della Jihad, che non ritengono opportuno imporre (o vietare) alle donne qualsiasi QUALSIASI forma di vestito, trucco, atteggiamento, approccio culturale e che, pertanto, siano consci e consapevoli che le leggi dello Stato male si conciliano con il relativismo e che, infine, vadano rispettate tanto quanto le rispettano tutti coloro che non credono in alcuna religione o, comunque, una religione diversa dalla loro, si facciano sentire.

Ma non da quelli che non sono musulmani. Non dai connazionali delle vittime della follia religiosa. Quanto meno, non solo da loro: si facciano sentire fra di loro, si facciano sentire da coloro i quali propalano concetti quali, ad esempio, il fatto che il Corano sia stato direttamente dettato dalla divinità in persona (che, diciamocelo fuori dai denti, se un cattolico integralista venisse a dirci che la Bibbia l’ha scritta dio e che è vero che Gedeone fermò il sole, come minimo si prenderebbe una badilata di letame in faccia), che si inventano pene quali la lapidazione per gli adulteri (pare che non sia vero, vedi un po’), che quello che sanno intorno all’islam lo sanno per sentito dire. Si alzino in piedi, alzino la loro voce, perché a dirla tutta io non so che farmene delle manifestazioni di solidarietà con le vittime, che provengano dal Presidente della Repubblica, dal Papa o da un qualsiasi Imam: dove ci sono vittime ci sono assassini e dove ci sono assassini, c’è qualcuno che li arma (anche noi europei) e quel qualcuno che li arma ha precisi intenti e precise strategie e io, come tanti altri, non solo non dispongo che di due guance, ma non intendo offrire neppure la prima, figuriamoci la seconda e sia detto questo, forte e chiaro, in nome di tre principi, intorno ai quali non esiste mediazione di alcun genere: libertà, uguaglianza, fraternità.

In linea generale, non è obbligatorio che questi principi piacciano a tutti e che li si condivida: all’interno dell’entità statuale dove vivo io, lo è, eccome.

Cesare Stradaioli

A proposito di Gran Bretagna – II –

Diciamo che la pesante svalutazione della sterlina, iniziata appena resi noti i risultati del referendum sulla cosiddetta ‘brexit’ e tutt’ora in corso, danneggi l’economia britannica: diamolo per accertato e vero. Diciamo, quindi, che le conseguenze dannose che andrà a subire l’economia britannica, prendono le mosse da quel referendum, vinto dai populisti, secondo la stampa allineata e coperta la quale, a voci unanimi e mani strette con pressoché l’intera classe politica europea, li addita come responsabili dei disastri a venire.

Dunque: la maggioranza dei britannici vota EXIT. Subito dopo, una manovra speculativa, operante su tutte le piazze finanziarie mondiali, mette in crisi la valuta britannica. Cioè a dire: la svalutazione della sterlina non è provocata da una crisi economica, non da un andamento negativo della bilancia commerciale con l’estero, non dalla disoccupazione, non dagli scioperi (potrebbe sentirsi dire anche questo), insomma, non da risultati di natura economica. La crisi britannica nasce dalla speculazione in atto contro la sterlina, che a sua volta provocherà una crisi economica che farà pentire gli inglesi della scelta referendaria fatta.

Si pone impellente una domanda: CHI HA DANNEGGIATO L’ECONOMIA BRITANNICA?

O       Coloro che hanno votato per l’uscita dall’UE

O       Una masnada di criminali chiamati speculatori finanziari

Barrate la casella che ritenete più confacente al vero.

Cesate Stradaioli