A proposito di Gran Bretagna – I –

E’ stato reso pubblico in data odierna a Londra il rapporto della Commissione di inchiesta, presieduta da Lord John Chilcot, a proposito della cosiddetta seconda guerra in Iraq, marzo 2003. Scopo dei lavori di detta Commissione era specificatamente quello di verificare le condizioni che portarono la Gran Bretagna al conflitto a fianco di Stati Uniti, Italia e Australia e se dette condizioni, debitamente accertate e valutate, potevano o meno definire inevitabile l’intervento inglese. Ebbene, dire che i risultati dei lavori di questa Commissione siano di condanna assoluta e senza appello riguardo all’opportunità del conflitto, con particolare riferimento alle decisioni prese dall’allora Primo Ministro Tony Blair, non rende a pieno la portata del tutto.

Qualcuno un giorno disse una frase apparentemente banale, nella sua scarsa utilità pratica: ci sono occasioni nelle quali dire “io l’avevo detto” non rende giustizia. Ebbene, l’utilità pratica sarà pure nulla, più che scarsa, se ci riferiamo a quello che è già successo: che, in una prospettiva futura, debitamente preceduta e corredata da una robusta autocritica, possa essere utile – e di molto – appare indiscutibile. Tuttavia, non sarà sbagliato fare qualche considerazione, anche sugli spaventosi esiti umani che questa guerra ha avuto (tutte ne hanno, ma questa in modo speciale, non fosse altro per il fatto che, a distanza di oltre 13 anni registra ancora, in apparente stato di non belligeranza, continui e sistematici attentati con decine, centinaia, migliaia di morti civili – per non parlare del fatto che è stata uno dei fattori che hanno contribuito a creare il personale armato del cosiddetto Isis).

E’ comprensibile, sotto certi aspetti, la cocente delusione di chi aveva creduto in Blair, nella sua personale via al labor, alla sua immagine di uomo deciso ma vicino alla gente, esuberante, rigoroso ma di grande spirito creativo, che senza dubbio aveva gettato uno stagno in quella morta gora che era la politica laburista britannica, uscita con le ossa rotte dal regime thatcheriano. Tony Blair si affacciò alla politica mondiale sbaragliando il campo alla sua destra e anche – e soprattutto, come molti capirono poi: qualcun altro l’aveva capito prima, vedi la frase ‘io l’avevo detto’ – alla sua sinistra, affiancandosi a Clnton, Jospin, Schröder e Prodi, insomma accomunandosi a quella scombiccherata (politicamente, s’intende) conventicola di capi di governo di centrosinistra la quale – va detto – aveva dato pochi anni prima il proprio placet e anche qualcosa di più valutabile sotto il profilo finanziario, alla distruzione della Jugoslavia.

Tony Blair e la sua politica sono stati un disastro. Un disastro per gli inglesi che non ritengono di votare conservatore, un disastro per la sinistra europea: i danni provocati dal blairismo sono, sotto il profilo politico, incalcolabili e, proprio in ragione di ciò che Blair rappresentava – o sosteneva lui! di rappresentare – per questa ragione ci vorranno generazioni di personale politico schierato a sinistra per porvi rimedio. Sempre che sia possibile e sempre che si cominci a farlo nel più breve tempo consentito, possibilmente partendo da l’altroieri.

Ma è stato un disastro anche per gli iracheni e, più in generale, per tutta la complessiva situazione politica mediorientale, atteso che la seconda guerra in Iraq non solo non ha portato uno straccio di democrazia da quelle parti – né era possibile e sarebbe anche ora che la si smettesse di credere che la democrazia sia esportabile ed edificabile alla stregua di una catena di McDonald’s – ma per di più ha contribuito a esasperare la situazione e, del resto, i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Peggio ancora, come risulta dai lavori della Commissione di cui sopra, non solo l’intervento inglese era inutile ed evitabile, ma la stessa conclusione va presa per la guerra in sé. Ma qui sarebbe necessario ragionare intorno alla figura di Saddam Hussein, dei suoi trascorsi, sinistramente simili a quelli di bin Laden, in punto di complicità e appoggio alle strategie belliche e politiche americane degli anni ’80 – e al possibile salvacondotto che, senza particolare scandalo (specie se paragonato alla gigantesca migrazione di massa e conseguente arruolamento – indovinate a favore di chi e contro chi – di centinaia, migliaia di ex SS, massacratori, autori di genocidi, all’esito della Seconda Guerra Mondiale, per cui non facciamo tanto le vergini vestali che l’Occidente proprio non ne ha né titolo né vocazione) poteva fare in modo che il Rais togliesse il disturbo quasi senza colpo ferire e goccia di sangue versare.

Dovrà venire il giorno in cui Bush, Chaney, Rumsfeld, Blair, Berlusconi e John Howard compariranno al cospetto di un tribunale internazionale che dovrà giudicare di reati attinenti a crimini di guerra e contro l’umanità: e se non dovesse essere un tribunale internazionale, sarà la Storia a esercitare ruolo di supplenza. Ma soprattutto dovrà essere la Sinistra, se mai dovesse esserne ricostruita una degna di tale nome, a scrivere quello che va scritto intorno alla figura di Tony Blair. Cominciando – eh, diamine, sì! – con “qualcuno l’aveva detto…”.

Cesare Stradaioli

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DAGLI AL POPULISTA!

Il nonno di cui porto nome e cognome era contemporaneo, quasi coetaneo, di Jorge Luis Borges: tenderei, però, a escludere che ne abbia mai letto anche solo una riga, impegnato come fu a combattere nella Grande Guerra e a sopravvivere a due disastri epocali post bellici. Malgrado ciò, per quanto in maniera più diretta e in forma meno ricercata sotto il profilo stilistico, giudicando quello o quell’altro politico dalla faccia che aveva, esprimeva senza saperlo il medesimo concetto che dobbiamo al grande scrittore argentino, secondo il quale dopo una certa età, ognuno è responsabile dei tratti del volto che porta in giro. Con la medesima inconsapevolezza, Cesare Stradaioli senior in merito alla capacità criminale si rifaceva (talvolta in maniera più cruda: era uno che non le mandava a dire e se chi conosce il sottoscrittto ritiene che alle volte sia un po’ troppo tranchant, avrebbe dovuto sentire il vecchio) anche a il suo/nostro omonimo Lombroso.

Ora, il fatto che un allevatore romagnolo ne esprimesse gli stessi concetti sia pure in maniera più vulgata, non può e non deve consentire di definire ‘populista’ un mancato premio Nobel e un emerito studioso della fisiognomica, solo perché determinate opinioni presentano tratti comuni, quanto meno nel significato più facilmente comprensibile ed esprimibile. Allo stesso modo, è scorretto (e anche alquanto disonesto) ammantare sotto la comoda coperta di ‘populista’, il voto in Gran Bretagna che porterà all’uscita della stessa dalla UE.

Se una parte maggioritaria dei votanti britannici ha optato per questa soluzione, che sicuramente avrà delle conseguenze al livello politico ed economico, la prima cosa da fare è domandarsi il perché. Le conseguenze di cui sopra sono, per certi versi, meno importanti; se nei prossimi anni l’Europa continuerà a rimanere sottomessa ai diktat di una congrega di persone che, non essendo state elette, non rispondono del proprio operato, fatalmente l’impianto stesso dell’Europa andrà in frantumi, specie dopo che verosimilmente altri Stati seguiranno l’esempio dell’UK. In tal caso, gli inglesi, per quanto guidati da persone più portate all’europeismo piuttosto che all’euroscetticismo, non avranno alcun interesse a tornare sui propri passi; se, per contro, nell’UE dovessimo avere – personalmente nutro forte scetticismo in proposito – un considerevole e non temporaneo incremento del tasso di democrazia e rappresentatività, allora niente e nessuno fra 5 o 10 anni (bazzeccole, nel quadro della Storia) impedirà alla Gran Bretagna di fare domanda di riammissione.

Quello che è intollerabile e non deve, in alcun modo essere tollerato, è che le motivazioni che fanno capo a principi quali sovranità, democrazia, uguaglianza, solidarietà, rappresentatività politica, vengano sviliti e sputtanati. Non deve essere consentito a mascalzoni quali Tony Blair, che dovrebbe essere processato per crimini di guerra invece di avere libertà di parola, definire populismo l’onesto e responsabile pensiero di milioni di cittadini, quali il sottoscritto, che nulla hanno in comune con gente come Nigel Farage o Matteo Salvini o il prossimo demagogo di destra olandese: non con loro, né con i loro ideali politici e sociali.

Non mi interessa perché Salvini blateri di sovranità – o meglio: lo so benissimo, il perché; del resto, si permette anche di definirsi ammiratore di Fabrizio de Andrè, e qui il grande Peppino De Filippo la chiuderebbe con il classico “e ho detto tutto”; non mi interessa perché ne parli Beppe Grillo; non mi importa di sapere cosa spinga Farage a utilizzare concetti politici che per assonanza sembrano i miei, miei e di milioni di altre persone. Ciò che realmente conta è che questi concetti sono di importanza fondamentale e non dobbiamo permettere che una stampa ignorante e puttana li metta tutti nello stesso calderone. Facendo passare in secondo piano – e per forza! Non facendolo, ne dovrebbe conseguire un esame di coscienza da mandare tutti, ma veramente tutti, a casa – la devastante ritirata della Sinistra in tutto il continente.

Se una, dieci, cento ex “Stalingado”, d’Italia o d’Inghilterra o di Francia o di quello che volete, da anni votano a destra, votano Lega, votano incerti rappresentanti M5S, invece di prendercela con i leader che si aggiudicano questi voti, sarebbe necessaria una sana autocritica con tanto di analisi politica che non guardi in faccia a nessuno. Mi rendo conto che parlare di analisi è come parlare di leggere o di praticare le buone maniere, tutte cose che da più parti si cerca di mettere via in armadio, insieme ai vestiti che non si porteranno mai più, ma tant’è, questa è la democrazia e deve andare bene sempre, non solo quando si vince o viene votato chi o cosa ci garba. Ieri, su Repubblica, veniva dato spazio – oscenamente, aggiungo – al deliro di un lettore che, all’esito del referendum britannico, poneva in dubbio la validità del suffragio universale. Ora, se sia più vergognoso dare spazio a simili pensieri o a quello del noto politologo Giorgio Chiellini (che a tempo perso, oltre a essere terzino della Juventus e della nazionale, viene anche richiesto del suo augusto parere in merito al destino dell’UE), è roba da poco: ben più indecente è lasciare che le istanze, le esigenze, i sogni, il destino di decine di milioni di cittadini vengano dati in gestione alle forze più retrive, che si appropriano delle parole d’ordine e delle sigle già patrimonio della Sinistra (non è una novità: basti pensare, tanto per dirne una, al Fronte della Gioventù, che fu pensato da Eugenio Curiel e non dai fascisti), per acchiappare i consensi di intere fasce sociali che dalla Sinistra di sentono e, di fatto, sono state abbandonate.

La Sinistra commette da decenni il gravissimo errore politico di inseguire la pancia della cittadinanza e, nel far questo, opta – o, almeno, ci prova – per politiche dementi e devastanti, quali per esempio l’abbassamento delle tasse, che è da sempre storico e granitico patrimonio della destra, invece di farle pagare a chi le evade. Salvini non segue la massa: quelli come lui creano la paura, lo sconforto, il nemico: non ascoltano le angosce delle persone, le creano, le alimentano e POI vanno a incassare la rendita elettorale, vestendosi di concetti che gli sono culturalmente estranei, come sovranità, democrazia eccetera: ma siccome sono ignoranti ma non stupidi, hanno imparato a maneggiarli. Non occorre essere democratici dentro o avere letto qualcosa sulla rappresentatività politica, basta parlarne a bocca spalancata e a reti unificate ed è fatta.

Tutto questo è accaduto sulla base di un rigido ed indiscutibile principio della fisica, secondo il quale poiché sulla Terra il vuoto in natura non esiste, se viene abbandonato uno spazio, subito detto spazio verrà occupato da qualcosa d’altro: vale per la politica in genere, come per il territorio. Ti ritiri da stazioni, parchi pubblici, aree commerciali dopo la chiusura? Verranno seduta stante occupati dalla criminalità spicciola od organizzata, pronta a gestire disperazione, prostituzione, emarginazione, tossicodipendenza, disgrazie varie. E più ti ritiri dal territorio, più la gente ne avrà paura e si rinchiuderà in casa. E più voterà per quello che grida più forte, che fa la faccia più feroce, che spaccia per soluzioni facili e radicali delle scelte demagogiche e irrealizzabili, quando non apertamente razziste. Proviamo solo a pensare a quante piazze, quante agorà politiche e culturali, quanti campielli con libri e caffè sono stati abbandonati dalla Sinistra degli ultimi decenni.

Bisogna riprendersi le idee. Bisogna ridare loro dignità e perseguirle, senza paura, senza lasciarsi intrappolare da frasi fatte e dal malefico ‘sentichiparlismo’ che da secoli affligge questo povero popolo italiano: cioè a dire, badare al contenuto dei discorsi e non sempre e necessariamente a chi li dice. Il discorso sui tratti del viso e sulla responsabilità di chi li porta, appartiene a Borges, non a mio nonno Cesare, al quale – per quanto caro mi sia stato – non posso attribuire un pensiero che altri hanno elaborato prima e meglio di lui, in modo più compiuto, consapevole e articolato.

Passata la buriana del referendum britannico, dopo una salutare dose di sonno e di calmanti, la Sinistra dovrebbe prima di tutto liberarsi dalle frasi fatte, che spesso nascondono – per calcolo o per semplice bieca ignoranza – le peggiori falsità. Basterà ricordare, a mo’ di chiusa, che quando la Gran Bretagna rifiutò di aderire alla moneta unica, eminenti esperti di economia e finanza preconizzarono per Londra un futuro disastroso. Si è visto com’è andata ed è stupefacente come il clamoroso filotto di previsioni del tutto sbagliate, che da almeno vent’anni prendono economisti e rappresentanti politici alle volte eletti e alle volte non, non riesca a fare presa sull’opinione pubblica, evidentemente imbesuita dalla televisione al punto tale da non rendersi conto dei guai causati da decisioni prese sulla loro fiducia e alle loro spalle, nemmeno quando se li trovano davanti alla porta di casa. Personalmente, ho una precisa opinione su chi sia stato, di tale imbesuimento, quanto meno corresponsabile, se non utile idiota.

Cesare Stradaioli

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E adesso, poveri uomini e donne?

Oltre alle varie altre cose che non è, l’Italia non è un Paese per chi detesta ripetersi; in più, non bastasse l’obbligo a esprimere più volte lo stesso concetto – come se non fosse stato ascoltato con sufficiente attenzione, cosa che avviene pressoché sempre – il fatto di ripeterlo fa correre il serio rischio di passare per tromboni, cioè quelli che proprio ripetono le cose, come se non avessero memoria di averle appena dette.

Perciò, riproviamoci. Chi se ne importa del pensiero politico di Beppe Grillo. Chi se ne importa anche delle opinioni su questa o quell’altra questione, espresse dai principali rappresentanti del M5S: certo, è ovvio che, una volta chiamati a governare questa o quella realtà locale o statale, le scelte che fanno, di volta in volta (o che non fanno) hanno il loro bel significato. Non di meno, rimane sempre di fondamentale importanza, per chi da Sinistra preferisce le analisi e le sintesi alle affermazioni viscerali e spontanee, prendere in esame 1) chi è l’elettore del M5S, 2) perché vota il M5S e 3) cosa si può e si deve fare per intercettare questo voto che, lo sanno perfino i grillini, nella maggiore percentuale è un voto di protesta, più contro che a favore.

Invece di distribuire patenti di qualunquismo e di antipolitica – l’antipolitica, caso mai, è il Pd, ogni qual volta, per bocca di questo o di quel rappresentante (di maggioranza come di opposizione interna), di questo o quell’alleato, ripete il mantra “Non c’è alternativa”, laddove proprio il prefissarsi di cercarla e finalmente trovarla, un’alternativa, è il cuore della politica nel suo senso più nobile – invece di offendere e schernire, senza rendersi conto che nel fare questo si esacerba e si esaspera ancora di più il voto ‘contro’, di protesta, di insofferenza, ebbene invece di fare tutto ciò, sarebbe il caso di guardare in faccia la realtà. Piaccia o non, il M5S c’è, esiste, comincia a radicarsi sul territorio (ivi comprese le fisiologiche cadute di governo), presenta volti nuovi e giovani: ed è singolare per quanto odioso – bisogna dirlo – che proprio dal Pd renziano provengano dileggi verso la gioventù e la novità (leggi: inesperienza), quando le stesse parole d’ordine hanno portato al potere e al governo un ceto politico che ha fatto piazza pulita non tanto delle persone, quanto di concetti (evidentemente ‘vecchi’) quali contrattazione, bilanciamento dei poteri, trattativa, ascolto e così via.

Ora, il tratto dilettantesco e inetto – ma, suvvia, tanto tanto giovane e nuovo! – della classe dirigente che fa capo a Matteo Renzi, si è manifestato in tutto il proprio splendore all’esito delle recenti elezioni amministrative. Non è stata la prima volta e non sarà l’ultima. Ostilità, invece di curiosità; saccenza, invece di autocritica; aria di sufficienza, invece di capacità di imparare e comprendere. Il voto M5S a Torino è arrivato in buona parte dalla destra? Ohibò, e ci voleva il dottor Stranamore per capirlo? Dopo 23 anni la sinistra cede il governo della città: invece di stracciarsi le vesti e dire che Fassino non se lo meritava, farsi qualche domanda? Mandare al macero Ignazio Marino e poi dolersi della sconfitta a Roma, cos’è, indicatore di lungimiranza? Che Milano fino a ieri avesse Pisapia e ora, sotto le insegne dello stesso partito, il signor Expo, che ancora non ne ha reso pubblico integralmente il bilancio e che fino all’altroieri era uomo di destra (lo è ancora oggi, cosa poco significativa per coloro che sostengono che destra e sinistra siano concetti del passato), cos’è, evoluzione della specie?

E’ in atto, a livello mondiale, una mutazione politica e quindi di voto, che dovrebbe incuriosire, far dubitare delle proprie scelte, rivedere metodi e concetti, provare a sedersi venti ore di fila (anche a muso duro, ben s’intende) con i sindacati tanto per cambiare, invece di passare gli “happy hour” con Confindustria e Confcommercio, che per carità, saranno e sono certamente interlocutori istituzionali, ma diamine, un governo di centrosinistra non è il Presidente della Repubblica, il quale ha il dovere dell’equanimità e dell’equidistanza! Un governo di centrosinistra ha un preciso elettorato, con precise esigenze e precisi diritti di avere un futuro. Negli Usa Bernie Sanders si è rivelato tutt’altro che una meteora e il prossimo candidato democratico alla Casa Bianca dovrà tenerne conto; in Gran Bretagna il referendum sulla cosiddetta ‘brexit’ è molto di più di uno sfogatoio populista; in Francia e in Spagna i movimenti non solo studenteschi ma di lavoratori – di qualsiasi ceto – rappresentano un malessere che ormai ha doppiato il non arrivare a fine mese, il non poter mettere su casa, il dover tagliare vacanze e spese extra: non è più neanche solo un semplice malessere, si tratta di una vera e propria patologia, grave e ormai endemica. Della tragedia socio-economica che si sta consumando in Grecia e dell’umiliante svendita operata da Tsipras non si parla più, allo stesso modo in cui non si parla più di un conoscente affetto da un male incurabile. La svolta conservatrice in Sudamerica, pure, ci fa vedere la presenza di storici mutamenti: politici di destra e liberisti puri (sono rimasti solo lì), sono andati al potere non per mezzo di un golpe, triste stimma sudamericano, bensì con libere elezioni e vorrà pur dire qualcosa.

E mentre nel resto del mondo si avvertono segni di cambiamento, nel nostro pollaio non ci si occupa più di operai dato che l’industria arretra; e al futuro dei loro figli cosa si offre? Il Job’s Act, vale a dire la stabilizzazione della precarietà. Totò direbbe ‘e poi dicono che uno si butta a sinistra’, ma oggi varrebbe anche la destra. Da noi ci sono ministri e rappresentanti politici che susciterebbero un minimo di simpatia per la loro impreparazione e dabbenaggine, se non fosse per la loro arroganza – tipico atteggiamento di chi non sa accettare le critiche, mancando totalmente di capacità dialettica – che provoca sentimenti tutt’affatto diversi. E lo si dica fuori dai piatti, perché è il momento: spiace che nel Pd la più gran parte di questa arroganza mista a disprezzo, mista a inanità politica, mista a tronfia autoreferenzialità, venga espressa da donne. Parrebbe quasi che fossero state scelte a bella posta da una congrega di misogini, messe lì a starnazzare al fine di dimostrare che, vedete, le donne sono così: solerti, lavoratrici, si dedicano al compito affidato, ma a governare, a prendere decisioni, a esporre in pubblico le proprie opinioni e i propri progetti senza dare l’idea dell’isterismo sotto traccia nel tono di voce e nel respiro affannoso, proprio non sono capaci.

Un soggetto politico seriamente di Sinistra dovrebbe avere la capacità di analizzare e capire: niente di particolarmente rivoluzionario, sarebbe l’abc della politica. I sommovimenti che vengono sbrigativamente definiti populisti, il distacco dal voto, la scarsa partecipazione a qualsiasi forma di decisione collettiva, la crescente impermeabilità a ogni denuncia di corruttela o malgoverno, sono tutti segnali che provengono da una società formata da persone rese sole, indifese, senza tutela, ognuno per sé e dio contro tutti, messe l’una contro l’altra e tutte insieme singolarmente contro l’immigrato; il lavoro, che è uno dei pilastri – culturali, prima di tutto – su cui si basa la nostra Costituzione, è svilito, svenduto a un tanto a ticket (qualcuno si alzi e provi solo a dire che vent’anni fa, non un secolo, avrebbe lontanamente immaginato lavoro retribuito a mezzo acquisto di tagliandi in tabaccheria); il solco fra adulti e giovani, fisiologico almeno fino a un certo punto, sta diventando (se non lo è già) un burrone non più valicabile e anche qui si sprecano i giudizi sprezzanti nei confronti di persone che dovrebbero amare una società iniqua che non piace neanche a noi che abbiamo contribuito a crearla. Tutto questo messo insieme rappresenta l’estrinsecazione di una gigantesca schizofrenia sociale che DEVE, in un modo o nell’altro essere ricomposta.

Bisogna (ri)cominciare a fare analisi, impiegare tempo nel cercare di capire dove si è sbagliato e dove sono riusciti gli altri. Se un domani Checco Zalone fondasse un partito e nel giro di cinque anni prendesse dieci milioni di voti, invece di coprire di insulti lui e quelli che ne rappresentano le idee, bisognerebbe capire come e perché ci fosse riuscito. Nello specifico, le elezioni amministrative ci hanno ricordato per l’ennesima volta la necessità di un ceto politico più preparato: magari meno appariscente e declamante, che sia più vicino alle persone e alle esigenze di una collettività ansiosa e disillusa. E siccome le situazioni e le svolte politiche non vivono da sole, isolate dal resto del mondo, il pensiero deve immediatamente andare all’Unione Europea, probabilmente il meno democratico consesso politico-economico che l’Occidente abbia visto in secoli di storia; perché, sembra proprio avere ragione Gianni Vattimo, intervistato ieri subito dopo il voto della sua Torino, secondo il quale, a prescindere dalla preferenza espressa, un sindaco varrà l’altro, fino a quando esisterà quel cancro della rappresentatività politica che passa sotto il nome di vincolo di bilancio.

E questo concetto, sì, andrebbe ripetuto fino alla nausea.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI GIUGNO Consigliato dagli Amici di Filippo

Slavoj Zizek non è uno che le manda a dire e per solito non fa sconti a nessuno. Il che ha contribuito a far sì che spesso i suoi interventi suscitino polemiche e scambi di opinioni non sempre all’acqua di rose e di frequente fra altri interlocutori, pro o contro la sua tesi del momento. Succede, a non cedere mai su alcun terreno, rispetto ai propri principi. In questo ultimo lavoro, l’Autore non fa eccezione e ne ha per tutti.

Va detta una cosa, quale premessa: il titolo è, se non brutto, quanto meno poco appropriato, dato che l’originale (in inglese) suona più o meno ‘Contro il doppio ricatto’; ma il sottotitolo, del quale prego chiunque di non fare caso e tralasciarlo – Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini – è davvero non solo orribile in sé ma anche stolidamente equivoco. L’equiparazione balza agli occhi e non è un bel vedere.

Detto questo, il doppio ricatto di cui tratta il titolo sarebbe la morsa che, in questo frangente storico, stringe l’Occidente e segnatamente l’Europa: da un lato il delirio anti-immigrazione della peggiore destra più becera (potendo, vorremmo chiedergli se, a suo avviso, ne esiste una, che vada al di sopra del qualcosina per cento e che non sia né peggiore né becera), dall’altro la barbarie teonazista dell’Isis, sempre che la religione c’entri qualcosa con gli esecutori materiali degli attentati, considerato che la più gran parte di loro non parla e non legge in arabo, dunque quello che sa, o crede di sapere sui dettami del Corano, o l’ha letto nella propria lingua – violando così, integralista da strapazzo, uno dei principi base dell’Islam e cioè che il Corano non può essere tradotto – oppure gliel’ha raccontato qualcun altro e per cui lasciamo perdere. Nel mezzo, un pensiero di sinistra talmente debole e rachitico da non essere in grado di offrire altro che soluzioni tanto corrette politicamente quanto irrealistiche, con l’aggravante di saperlo benissimo, che realizzabili non lo sono neanche per sbaglio.

Viene, però, il sospetto che il doppio ricatto non veda l’Isis come una delle due ganasce che stanno stritolando l’Europa, quanto proprio il devastante – culturalmente e non solo, parlando – dualismo fra la soluzione proposta dai populisti contrari a ogni forma di immigrazione, che vorrebbero più muri e meno ponti e quella di coloro i quali propugnano ad minchiam (come avrebbe detto il mitico professor Scoglio) confini aperti per tutti, appunto con la piena consapevolezza che una cosa del genere, oltre a essere oggi come oggi praticamente impossibile, ove mai potesse miracolosamente attuarti, comporterebbe conseguenze che definire disastrose sarebbe usare un eufemismo. La buttano lì e poi continuano la cena cambiando canale per non vedere gli annegamenti e i bambini morti sulla spiaggia. Zizek parafrasa Stalin, sostenendo come entrambe le soluzioni siano le peggiori.

E’ chiaro come l’interesse critico e propositivo di Zizek si rivolga a sinistra, nell’ottica di dare un contributo alla formazione di un pensiero di sinistra che possa essere maggiormente profondo di quello che galleggia stancamente da oltre un ventennio, presso le cancellerie e le opposizioni: in tal senso, l’Autore individua una serie di tabù da superare senza esitazioni di sorta. Il primo è quello che esorta ad ‘ascoltare il mostro’, che finirebbe per conferire sempre e comunque dignità a pari livello intellettuale a qualsiasi istanza che il pensiero umano possa produrre, per quanto abietta; si tratta del cosiddetto ‘paradosso di Frankenstein’, altrimenti noto come ‘il paradosso di Hitler’, problema di non poco conto, dal momento che porsi semplicemente come interlocutore di taluno che, in ipotesi, sostenga che i neri sono scimmie, significa prendere in considerazione il concetto espresso.

Il secondo è il mantra della critica all’eurocentrismo, inteso come sinonimo di imperialismo culturale e razzismo; la contraddizione insita in questo tabù sarebbe costituita, secondo Zizek da una paurosa carenza di analisi che, se correttamente svolta, deve portare a prendere atto di come nel mondo globalizzato il capitalismo si sia perfettamente adattato a qualsiasi realtà sociale e religiosa, scendendo definitivamente a patti con il più prono relativismo. Il che porta a concludere come criticare nella sua totalità il pensiero occidentale, creatore e realizzatore di principi quali welfare, egualitarismo e diritti umani fondamentali, che potrebbero fungere da contrasto e opposizione allo sviluppo del mercato capitalistico globale, in un momento in cui, di fatto, toglie qualsiasi parvenza di democrazia agli sviluppi capitalistici nei paesi asiatici, non sarebbe altro che un clamoroso autogol.

Ma il tabù più radicato, per quanto più recente e maggiormente difficile da abbattere è quello della critica all’Islam, intesa come equiparazione <critica all’Islam=islamofobia>, che anche solo a leggerla rivela la propria palese scempiaggine, del tutto paragonabile a quella, altrettanto sciocca e odiosa <critica a Israele=antisionismo>. Dubita, l’Autore, che si possa parlare di Islam ‘moderato’, da contrapporre a quello integralista che ha dichiarato la Jihad al mondo infedele: tale dubbio, che sicuramente è l’istanza di questo lavoro che è destinata a suscitare maggiori dibattiti e scontri ideologici, si basa principalmente sulla constatazione secondo la quale se per Paese ‘moderato’ si intende l’Arabia Saudita con il suo portato di comportamenti che prevedono la pena di morte e le pesanti esclusioni delle donne dalla vita in sé – pubblica o privata che sia – per non parlare del suo profondamente radicato inserimento nel mercato globale, viene da chiedersi chi abbia bisogno di un Islam integralista.

L’attacco al tabù della critica all’Islam mette in conto anche la constatazione, che pare non altrimenti confutabile stando alle cronache, per la quale le proteste delle banlieus in fiamme non contengono la benché minima istanza politica, mancando le proteste di qualsiasi tratto propositivo o di protesta per quanto rozza e abbozzata.

Spontaneo viene il chiedersi ‘Che fare?’, che opportunamente intitola l’ultimo capitolo e non pare, a livello di prospettive, un quesito tanto più leggero di quello che si pose a suo tempo Lenin, anche senza scomodare Massimo Cacciari, nel suo sostenere che il fenomeno dell’immigrazione di massa che stiamo osservando da anni, modificherà in maniera irreversibile le strutture sociali, politiche e culturali del vecchio continente. La domanda è particolarmente insidiosa e l’argomento non lo è da meno, anche perché Zizek prende per così dire la rincorsa da quanto è accaduto nella notte del recente ultimo dell’anno a Colonia; in materia, l’Autore la mette giù dura e, in cauda venenum, ci pone di fronte a una riflessione fastidiosa per quanto inevitabile. A proposito dei fatti di Colonia, secondo Zizek, pretendere di insegnare agli immigrati che i nostri costumi sessuali sono diversi dai loro è indice di straordinaria idiozia, in quanto essi lo sanno benissimo e con tutta probabilità fanno quello che fanno proprio in aperta sfida alla nostra sensibilità e ferirla. Invece di dire loro quello di cui sono perfettamente consci, andrebbe fatto quanto necessario per disinnescare quella tremenda bomba sociale che nasce dall’emarginazione o dal semplice assistenzialismo (metti diecimila adolescenti in una periferia, senza prospettive né culturali né di lavoro e di emancipazione sociale, con 400 euro al mese per sopravvivere e qualcuno provi a dire che non ne nasca rabbia, frustrazione, ribellione acefala).

E allora, in sintesi e in definitiva: centri di accoglienza nelle vicinanze dei luoghi di crisi e immigrazione; redistribuzione verso i luoghi di potenziale insediamento; formulazione chiara ed esplicita di un minimo di regole obbligatorie per tutti, al fine di rendere chiaro a chi intenda entrare in Europa che le leggi ci sono e vanno rispettate entro gli ampi confini della libertà sessuale e di culto e della tolleranza reciproca, con applicazione di precise sanzioni.

E’ ormai assodato in qualsiasi studio sociologico che colui il quale emigra per necessità, per prima cosa ha bisogno che gli vengano spiegate regole chiare alle quali attenersi e non semplicemente accolto e buttato in una discarica sociale quali centri di accoglienza, ex caserme e luoghi di totale estraniazione umana.

(Verrebbe da aggiungere qualcosa di preciso all’analisi di Zizek; l’altro mantra ‘aiutiamoli a casa loro’, andrebbe bene se questo aiuto PRIMA DI TUTTO consistesse nella totale e immediata cessazione della produzione e vendita di armi nei luoghi di guerra. Sarà un piccolo inizio, ma se mai si comincia mai si arriva.)

Quanto all’immigrazione, secondo l’Autore essa è il prezzo che paghiamo per la globalizzazione economica, che con la libera circolazione delle merci e la chiusura delle frontiere per gli esseri umani, ha creato una sorta di vero e proprio apartheid globale e non più solo ristretto a questo o quello Stato. Ed è qui che sembra voler arrivare Zizek: di quale emancipazione e progresso per i popoli del cosiddetto Terzo Mondo stiamo parlando, quando parliamo di mezzi di produzione installati in loco, fino a quando si spreme quello che si può spremere per poi, con altrettanta rapidità e ‘libertà economica’, delocalizzarli altrove al fine di reperire manodopera a sempre minor costo, per consentire a noi occidentali di risparmiare sugli acquisti?

La risposta al ‘Che fare?’, per quanto riguarda noi europei, è tanto semplice quanto difficile: garantire una dignitosa sopravvivenza a coloro che giungono in fuga dalla guerra, dalla miseria e dalla persecuzione politica o personale. Il futuro è fatto di progressive migrazioni e non solo verso l’Europa – ve ne sono di epocali anche all’interno dell’Africa, con il consueto corollario di insofferenze, persecuzioni, respingimenti – e sarà bene farsene al più presto una ragione: prima ci renderemo conto che un determinato livello di benessere economico appartiene al passato e non sarà né e breve né in lungo periodo riproducibile e meglio sarà.

Cesare Stradaioli

Slavoj Zizek – La nuova lotta di classe – Ponte alle Grazie – pagg. 142, €13

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NUOVE NORME VECCHIE STORTURE

Non diminuirà il numero di donne assassinate, solo perché verrà introdotta una legge contro il cosiddetto ‘femminicidio’; non verranno molestate meno donne, solo perché è in vigore una legge che sanziona il cosiddetto ‘stalking’; invece, vi saranno meno morti sulle strade a causa della guida in stato di alterazione da ebbrezza alcolica, grazie alla creazione della figura di reato del cosiddetto ‘omicidio stradale’. E si dica di queste tre fattispecie di reato – due già in vigore, una la cui approvazione viene acclamata a gran voce praticamente ogni giorno – che si tratta di provvedimenti del tutto superflui, rispetto a quanto contenuto nel complesso legislativo del codice penale e delle leggi speciali, frutto dell’isteria generata e alimentata da mass media e sfruttata al meglio da politici interessati a uno stato di permanente tensione sociale nel nostro Paese.

Qualche passo indietro, a mo’ di premessa postuma.

Durante una lezione, a suggello di una pacata contestazione sulla natura politica del codice Rocco e sulla sua attualità storica e culturale, il titolare della cattedra di Diritto Penale esclamò: “Il codice penale è fresco”; gli fece immediatamente eco, scimmiottandone l’accento regionale, una voce dalla platea studentesca: “Sì, com’a’ mozzarella!” Eravamo giovani e, almeno su questo, avevamo torto e lui ragione, come avremmo compreso in seguito tutti noi che intraprendemmo una carriera nella legge, chi avvocato chi magistrato.

Il codice intitolato al Guardasigilli mussoliniano ha precise radici e impronte che inequivocabilmente lo collocano esattamente nel periodo storico in cui fu pensato e promulgato: è inutile stare qui a ripercorrerne i tratti, che sono (una volta tanto in Italia) precisi, indiscutibili e oramai definitivamente indiscussi.

Ma quel complesso di norme, che conteneva sanzioni abrogate nel tempo, alcune delle quali sopravvissero – e non avrebbero dovuto – alla caduta del fascismo e all’introduzione della Repubblica, del voto alle donne e ad altre svolte epocali del genere, era stato concepito e scritto da autentici geni giuridici: al punto tale da poter affermare che buona parte delle riforme legislative penali viva vie succedutesi nei decenni, sia sostanzialmente inutile in quanto ripetitiva.

In questo modo è consentito dire che le tre ipotesi legislative di cui sopra, sono già esistenti nel codice penale, sia come previsione legislativa sia come sistema di aggravanti. Perché sanzionare con un nome diverso l’omicidio di un essere umano di sesso femminile? Perché dare un nome (‘stalking’ o femminicidio’ o ‘omicidio stradale’?)? Ovvio: per sottolinearne la particolarità.

Ma non c’è alcun bisogno di particolarità, se il fine vero è la prevenzione e non solo la repressione di un crimine – e comunque, anche sotto il profilo della sola repressione il discorso non cambia.

Viene assassinata una donna da l’ex compagno o marito lasciato? Magari con l’uso delle fiamme? Esiste nel codice penale l’articolo 575 che punisce l’omicidio; esistono le aggravanti della premeditazione (l’essersi procurati una latta di benzina e/o un alibi), dei futili motivi (la mancata accettazione della separazione), della crudeltà mentale (l’uso del fuoco) e della peculiarità dei rapporti domestici (art. 61 codice penale, numeri 1, 4 e 11) che portano, ognuna di queste singolarmente prese, dritti all’ergastolo, senza neanche passare per il VIA.

Qualcuno rende la vita impossibile a una donna, continuamente tempestandola di minacce, telefonate a raffica anche nel cuore della notte, gomme della macchina tagliate, promesse di omicidio/suicidio, agguati sotto casa e cose del genere? Esistono i reati di violenza privata e di minaccia i quali, conditi con le aggravanti di cui sopra, portano a pene esattamente uguali a quelle dello ‘stalking’ – anzi, volendo, anche più alte, il giudice ne ha il potere.

Allo stesso modo, non c’era necessità di qualificare meglio un omicidio commesso alla guida di un’automobile, mentre si è ubriachi o aggravare le pene per chi omette il soccorso stradale: vedi sopra.

Già che ci siamo, ci metto anche il reato di tortura, che proprio NON ha ragione di essere introdotto; vogliamo pensare al caso del povero Cucchi o al G8 di Genova e i fatti della scuola Diaz e della Caserma della Polizia Penitenziaria? Mi ripeto per l’ultima volta: a fronte dei reati di lesioni gravi e gravissime, che già adesso possono portare la pena fino a 12 anni, con le aggravanti di cui sopra eccetera eccetera… Per non parlare di quando casi come questi sfociano nell’omicidio, come nel caso di Stefano Cucchi e via andare.

Sono tutte sanzioni già previste in un codice scritto più di 80 anni fa. Un altro esempio e poi basta? Aggiungete – non c’è bisogno di una legge, per analogia può farlo il giudice – a tutte le norme che nel codice penale parlano di ‘corrispondenza’ (lettere e telegrammi, all’epoca) il termine ‘flusso telematico’ e avrete, 80 anni dopo, le STESSE sanzioni, senza bisogno di una ennesima, ulteriore legge inutile che va a fare contente le case editrici dei codici.

Non moriranno assassinate meno donne; non verranno molestate meno donne. Morirà meno gente sulle strade. Perché togliere la vita a un passante dopo essersi messi alla guida in stato di ebbrezza, VIENE PERCEPITO COME REATO, allo stesso modo in cui fare bancarotta, sotto sotto viene percepito come reato; rubare, picchiare, truffare, sono comportamenti che, pur se commessi con preciso intento criminale, anche il più incallito dei criminali SA, lo sente, che sono contro la legge, contro la società: tant’è che molti di questi fatti sono commessi proprio in odio alla società e alle leggi. Lo vedremo fra qualche tempo, leggendo le statistiche: personalmente, sono pronto a scommettere una – ragionevole – cifra che a furia di irrogare condanne draconiane, il numero dei morti per strada a causa dell’alcol diminuirà, proprio perché il cittadino ordinario, quello che sbadatamente sta attento a smettere di bere a cena quando arriva il secondo, ma poi al momento di pagare il conto davanti alla cassa accetta il limoncello che gli offre il gestore del ristorante, sale in auto e succede quello che succede, lo sa benissimo che uccidere è cosa che non si deve fare.

Ma per la più gran parte di quei poveri disgraziati – e in questo frangente uso il termine come largamente peggiorativo di ‘assassini’ – che uccidono, violentano, seviziano o molestano l’ex moglie o l’ex compagna, il gesto estremo rappresenta l’incapacità non solo e non tanto di accettare la libera volontà di un’altra persona, ma anche la scarsissima percezione che si tratti di un crimine.

Consideriamo, dalle cronache, che la maggior parte di questi uomini vanno dai 20 ai 35 anni. Il che significa che i più in là negli anni, erano poco più che bambinetti quando incominciarono a vedere omicidi sotto forma di manga giapponesi e a essere tempestati di supereroi (maschi) col mascellone volitivo, accompagnati da donnette fragili e senza voce in capitolo; a sentire Sgarbi o Ferrara e gentaglia simile vomitare insulti, minacciare fisicamente, offendere, parlare sulla voce degli altri, sputacchiare frasi disgustose quando non apertamente senza costrutto, urlate al solo scopo di zittire l’interlocutore; a vedere il mondo degli adulti degli anni ’80 e ’90 riprodurre le figure femminili come tappezzeria o come puttane – o entrambe le figure – con i maschi, giovani, meno giovani, giovanissimi, resi avvezzi a non dover chiedere mai, a prendersi quello che vogliono, a farsi le proprie personali regole in barba alla convivenza civile e alla buona educazione come minimo sindacale e, come logica conseguenza, semplicemente non concepire che gli si dica di no, a cominciare dai genitori che fanno i fratelli maggiori.

Ora, è chiaro che se una persona cresce con questo bel bagaglio culturale ed educativo, è ben arduo poi pretendere che concepisca come illecito il fare quello che gli è sempre stato consentito, se non addirittura consigliato o imposto e cioè prendere/non accettare.

Quanto agli altri, se si escludono quelli con un certo grado di istruzione (e anche lì, bisogna stare molto ma molto attenti a generalizzare: abbiamo fior di professionisti, che hanno fatto il classico e citano l’Ariosto a memoria, che poi sparano alla moglie che vuole andarsene, anche chi ha studi in lingua greca e latina può essere stato educato a non essere mai contraddetto), dobbiamo rilevare livelli culturali da far cadere le braccia, più consoni a un Paese che non aveva ancora frigorifero e gabinetto in tutte le case.

Naturalmente il giudizio assoluto non può essere preso in considerazione alla lettera; nessuno può sostenere che ogni singolo uomo o ragazzo che ha ucciso o molestato l’ex moglie o fidanzata sia talmente bestia da non capire quello che fa. Un reato di impulso è, pur sempre, quello che è: un fatto commesso d’impulso. Ma la differenza con gli altri reati, incluso l’omicidio alla guida di un veicolo, è che l’impulso è situato un po’ più in avanti; la percezione della gravità di quello che si è fatto è spostata più oltre, proprio perché l’uso e l’abuso della figura femminile è stato il loro pane quotidiano. In questo coadiuvati da una società scema e imbesuita dalla televisione e da vent’anni di berlusconismo, che nelle persone dei familiari, fino all’altroieri parlando dell’omicida in carcere, dicevano “E’ un bravo ragazzo, l’amava così tanto…”

Prevenzione. Questa è la parola chiave. Poi, purtroppo, ci vuole anche la repressione. Ma l’intervento repressivo, per sua logica, si realizza DOPO il fatto. E invece servono, serviranno decenni di igiene sociale, di rieducazione, di riscoperta dei veri valori umani, che vengono prima dei pareggi di bilancio: perché vivere in una società che ha i conti in ordine e poi le pubblicità nelle quali ragazzine infoiate leccano un gelato come se stessero leccando qualcosa d’altro, con l’ammiccamento da troie che piace tanto ai maschi che QUESTO pensano delle donne in genere, è un gran brutto vivere.

Cesare Stradaioli

Governabilità vs Rappresentatività

Immaginiamo, ognuno di noi, di essere un elettore austriaco.

Io sono di destra, ma rinnego il nazismo e non sono razzista.

Io non sono di sinistra.

Io sono di sinistra.

Io sono di centro, ma non ho particolari simpatie per il Partito dei Verdi, del quale non condivido il dilettantismo politico e la scarsa capacità organizzativa e di mediazione politica.

Io sono di centro.

Giorni fa, l’Austria ha scelto il Presidente della Repubblica: in lizza, fino – letteralmente – all’ultima manciata di voti, oltre a tutto sono stati decisivi quelli degli austriaci residenti all’estero (due paroline sul voto all’estero, più sotto), un razzista non necessariamente nazista ma comunque di destra fortemente pronunciata e un rappresentante dei Verdi.

Ha vinto quest’ultimo e tantissime anime belle europee hanno tirato un sospiro di sollievo. Indubbiamente, avesse vinto l’antagonista, la politica austriaca e, di conseguenza, europea, ne avrebbe risentito.

Ma il problema sta altrove: qualcuno ha fortemente voluto il bipolarismo, indicando in questa soluzione l’unica che garantisca governabilità. E’ vero: ridurre tutte le istanze sociopolitiche a due soli raggruppamenti (quando non addirittura a due sole persone fisiche), semplifica il tutto e garantisce stabilità.

Ma tutti coloro, ognuno di noi che ha immaginato di essere uno di quelli di cui sopra, che NON sono decisamente schierati a destra e che NON simpatizzano per il Partito dei Verdi, sono rappresentati?

In altre e definitive parole: è vero o non è vero che la ricerca spasmodica – fatta per lo più dai solerti difensori dei mercati, unico regolatore politico di questi anni cupi – della governabilità, della stabilità, garantisce la rappresentatività (se non proprio a tutti, per lo meno a una decente percentuale di elettori)?

Proviamo, ognuno di noi, a dare una risposta.

P.S. Le due paroline.

Dieci anni fa, quando per la prima volta votarono gli italiani residenti all’estero, c’era una volta un rappresentante politico di una delle due sezioni in cui era divisa l’Argentina. Politicamente schieratosi in campagna elettorale per il centro sinistra, fu eletto senatore.

L’esecutivo guidato da Romano Prodi cadde dopo due anni, furono indette nuove elezioni, Berlusconi tornò al governo e quel rappresentante sudamericano venne eletto come senatore nel centro destra.

Richiesto di spiegare come mai avesse cambiato schieramento politico in maniera così repentina, rispose più o meno così: “I miei elettori italiani in Sudamerica mi hanno mandato a Roma per stare al governo, mica per stare all’opposizione.”

Non ci fu UN SOLO commentatore politico che disse ‘bah’ (ma anche: guarda quel mascalzone e che grande bischerata è la legge che fa votare chi risiede all’estero e decide anche per me che qui ci vivo…).

E poi dicono che uno si butta a sinistra…

Cesare Stradaioli

Il grande affabulatore

E’ stato migliore di molti, quasi tutti gli altri. Non un gran che, come complimento, considerato il livello.

Oppure: luci e ombre; si è circondato di persone di livello morale superiore, come Adele Faccio, Mauro Mellini, Franco De Cataldo, ma anche di personaggi a dir poco discutibili, opportunisti ed equivoci, quando non vere e proprie canaglie – cercate voi qualche nome, ce ne sono dappertutto, nel panorama politico nostrano.

Marco Pannella era un italiano medio. Forse medio-alto: chiacchierone, affabulatore, confusionario, dispersivo, disorganico; allo stesso tempo era generoso, disinteressato, colto e soprattutto internazionalista. Di questa ultima qualità gli va dato atto senza riserve.

Ora che la voce di Marco Pannella si è spenta, nel mezzo del frastuono provocato dalle lodi e dagli attestati di stima, mendaci per la più parte, si distingue la solita vulgata intorno alla cultura liberale classica di impronta britannica, ovviamente superiore al pensiero politico italiano, che andrebbe magnificamente combinata con l’imperativo non violento che ha sempre caratterizzato la sessantennale parabola politica del leader radicale: anzi, secondo alcuni geni da retrobottega, sarebbe, come si dice, ‘la morte sua’, uno splendido mix di non violenza ghandiana e di understatement inglese. Che immagine meravigliosa; a costoro andrebbe fatto presente come il pensiero liberale inglese abbia solide e ben radicate fondamenta nell’esercizio sistematico, secolare e disciplinatissimo dell’arte della guerra e della conquista armi alla mano, come possono testimoniare decine di regioni sparse in tutto il mondo, in vari momenti assoggettate al tallone dell’Impero Britannico. Altro che non violenza.

Ma, a parte tutto, a parte certi scivoloni come l’adesione acefala e incondizionata a qualsiasi porcata commessa da Israele a danno dei palestinesi – la cattiva coscienza del cinismo romano è durissima a morire – oggi appare di un’evidenza perfino abbagliante la somiglianza (da valutare tenuto conto del cambiamento – in peggio – dei tempi, dei costumi e degli usi di questo disgraziato Paese) fra il movimento che faceva riferimento a Pannella e al Partito Radicale degli anni ’70 e ’80 e quel coacervo (neanche il PR era ‘sta cosa gran solida e omogenea) di idee e istanze che costituisce il nerbo del M5S. Ora, i soliti pensatori da tre palle a un soldo hanno immediatamente messo le mani avanti, sostenendo (a ragione) le profonde diversità fra Pannella e Grillo. Sempre il solito errore. Sempre il solito vezzo. Sempre vittime della sciagurata personalizzazione della politica, che ha avuto origine con quello stramaledetto referendum promosso da Segni del 1993, che ha portato alla stortura, prima intellettuale che politica, di guardare al leader piuttosto che al bacino elettorale che lo sostiene.

Cioè a dire: che ce ne frega di Beppe Grillo? Beppe Grillo è UNO. Che ce ne frega dei principali esponenti politici del M5S? Essi sono, a dirla tanta, una decina. Quello che conta, che ci DEVE importare, è il come e il perché esiste il M5S: chi e perché ci sta dietro, chi e perché lo vota, come sia stato possibile che nel giro di pochi anni, dal niente, sia sorta una formazione politica e istituzionale che doveva sgonfiarsi nel giro di mezza giornata e che invece conta e continua a contare ragionevolmente su un 25-28% delle preferenze. Che, unico fra tutti i partiti, ancora riesce a operare una qualche forma di mobilitazione delle coscienze. Come faceva il Partito Radicale nel suo massimo fulgore.

Perché non bastano i soldi, per fondare e soprattutto mantenere e fare crescere un partito; Casaleggio di disponibilità finanziarie ne aveva e ancora ne dispongono coloro che proseguiranno nel suo giudizio. Ma ricordiamo che, oltre alle sconfinate risorse finanziarie, Berlusconi cominciò la campagna elettorale nel 1980 con l’andata in onda della prima puntata di “Dallas” – ormai se ne sono resi conto anche i bambini – e da lì in poi si è messa in marcia la sua tremenda macchina da guerra, fatta anche di pubblicità, sport e presentatori pagliacci.

Le similitudini fra l’afflato radicale e quello che muove il M5S sono numerose e attraversano l’intero Paese e non sarà un caso che il declino, ormai quasi irreversibile, del concetto stesso di Partito Radicale, sia pure transnazionale, sia pure divenuto ‘liquido’ anch’esso, sia coinciso con la nascita, improvvisa e furibonda, del partito di Grillo e Casaleggio.

La più curiosa – verrebbe da dire sinistra, perfino avvilente – di queste similitudini è rappresentata dal fatto che oggi i rappresentanti grillini, unitamente ai loro elettori, sono quotidianamente sbeffeggiati e presi (metaforicamente) a sberle dagli esponenti di un partito che pretende di essere l’erede di quell’altro partito, il PCI, che Pannella e i radicali li sbeffeggiava e neanche tanto metaforicamente li prendeva a schiaffi. Stessa intolleranza. Stesso modo squadristico di trattare il dissenso, il parere contrario, il disturbatore del manovratore. Stesso uso dannunziano di dileggiare l’antagonista, specie se presenta radici comuni, perché siamo pur sempre nel Paese che ‘dagli amici mi guardi iddio…’. Stessa cecità, stessa incapacità di capire il disagio, il non essere sempre per forza d’accordo, stessa insofferenza verso chi scuote, magari anche in malo modo e non sempre con le parole e i gesti più confacenti.

Oggi un determinato ceto politico – dirigente, più che politico – è intento ad architettare il Partito della Nazione e spara ad alzo zero contro chi vi si oppone, M5S fra i primi: allo steso modo in cui venivano trattati tutti coloro (Marco Pannella e il Partito Radicale inclusi) che si opponevano con forza al compromesso storico DC-PCI e come possa sfuggire una simile, nefasta similitudine, è mistero che dovrebbe essere spiegato con la cecità ovvero con la complicità. Vedete un po’ voi.

Mi preme sottolineare uno dei grandi temi – questo sì, civilissimo e tremendamente urgente ancora adesso, centomila volte più urgente delle fecondazioni assistite e delle coppie di fatto – assiduamente coltivato da Marco Pannella: la condizione delle carceri italiane e di chi le abita, agenti e personale civile inclusi. Se il dibattito sul Diritto Penitenziario e su tutti i temi attinenti all’universo detentivo ha fatto dei passi in avanti, lo si deve quasi esclusivamente a Marco Pannella e al Partito Radicale – ché la sinistra, in un passato neppure tanto lontano, ha spesso e volentieri trattato l’argomento alla stregua della nettezza urbana.

E su questo mi permetto un piccolo ma significativo ricordo personale: poteva essere verso la fine del 1991.

Mi trovavo, insieme a tanti altri, a presidiare l’esterno dell’aula bunker della Casa Circondariale di Padova, all’interno della quale si teneva uno dei tanti processi correlati al 7 aprile: avevo, personalmente, il dubbio privilegio di poter accedere all’area riservata agli avvocati. Poco prima di entrare, vediamo avvicinarsi l’imponente figura di Marco Pannella, il quale con la solita voce tonante dice: “Sono venuto a vedere questo cesso“, buttando l’occhio sulla attigua, nuovissima Casa di Reclusione. “Beh,” gli risponde con un mezzo sorriso Sandro Scarso, all’epoca una delle figure più rappresentative dell’area culturale dell’Autonomia, “… visto che ci consideri degli stronzi…” “Anche gli stronzi hanno diritto a scontare una pena in maniera umana, in un luogo umano,” ribatte Pannella, dandogli una pacca sulla spalla.

Viviamo in un Paese cinico e profondamente servile. Per quante contraddizioni ne abbiano attraversato la vita politica, per quanto si possa essere stati di opinioni diverse, talvolta profondamente divergenti, con un occhio a quello che è stato e, facendosi forza, anche con uno rivolto al futuro, penso che sia consentito ricordare Marco Pannella, questa volta sì, anche con affetto.

Cesare Stradaioli

 

Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato…

La vicenda del marciatore Alex Schwazer, già medaglia d’oro, poi inquisito e condannato per doping dalla giustizia sportiva è fortemente emblematica della mentalità schizofrenica del popolo italiano.

Scontata la squalifica, il marciatore ha chiesto e – sembra – ottenuto di rientrare nella rosa dei possibili partecipanti alle Olimpiadi in Brasile. La presa di posizione di alcuni atleti, fortemente contrari alla sua riammissione come rappresentante italiano in una così importante competizione sportiva ha suscitato vivacissime risposte.

La personale opinione di chi scrive è che il signor Schwazer ha espiato la squalifica sportiva ed è un libero cittadino, per di più incensurato. Ha sbagliato, ha ammesso (in maniera a volte un po’ pelosa e omertosa, va detto) le proprie responsabilità e la vicenda è chiusa.

La SUA, vicenda, come cittadino Alex Schwazer, è chiusa: quella di possibile rappresentante della nazionale olimpica, dovrebbe esserlo ugualmente. I sostenitori del suo ritorno affermano come sia profondamente ingiusto continuare a fargli pagare quanto ha già pagato, che ognuno ha diritto a rifarsi una vita e – solita, immancabile ciliegina sulla torta – non è il caso di fare i moralisti.

A prescindere dal fatto, sempre eminentemente personale, che essere moralisti dovrebbe costituire un obbligo, sostenere che Schwazer abbia il diritto di non essere trattato come un appestato, ma NON abbia il diritto di essere quello che era, e cioè rappresentante italiano alle Olimpiadi, non lede minimamente la sua dignità di cittadino e il suo diritto di rifarsi una vita senza continuamente sentirsi rifnacciare quello che è stato e cioè disonesto e truffatore, oltre che drogato.

Alex Schwazer ha diritto di essere lasciato in pace. Ha il diritto di non vedersi rimproverato in eterno l’errore che ha commesso. Ha il diritto di essere trattato come un cittadino qualsiasi, dato che anche un condannato (e lui non lo è stato, sotto il profilo penale – avrebbe dovuto esserlo, secondo me, in quanto truffatore, ma la cosa è finita e basta) che ha espiato la sua condanna e ha regolato i propri conti con la giustizia ha il diritto di essere dimenticato e di non essere discriminato. Il tutto, nel l’ambito dei diritti di un cittadino.

Ma Alex Schwzaer NON ha il diritto, costituzionalmente tutelato, di essere olimpionico, come non ce l’ha chi scrive, come non ce l’ha NESSUNO. Riprenda a marciare dove e come più gli pare, gli piace e gli fa comodo, PRIVATAMENTE, in competizioni dove rappresenti solo sé stesso e, eventualmente, lo sponsor che gli paga la divisa e la prestazione singola o l’intera stagione. Ma NON ha il diritto di pretendere di essere rappresentante degli italiani nella massima e più famosa e più antica competizione che, ormai da decenni, non è più solo sportiva.

La schizofrenia italiota, invece, come sempre lascia lo spazio alla pancia: da un lato, pretende pene esemplari per corrotti (un po’ meno per i corruttori: la campagna della “Casta”, made in Stella & Rizzo, che tanta fortuna editoriale ha avuto, è riuscita nel miracoloso intento di convincere un intero popolo che in un caso di corruzione esista solo il corrotto e non anche il – privato – corruttore, allo stesso modo in cui si scandalizza per l’esistenza delle puttane e non dice mezza parola sui clienti), esulta selvaggiamente alla squalifica di Maradona per uso di cocaina (che anche uno studente di Medicina al primo anno sa che non ha alcun influsso positivo nella prestazione sportiva, anzi, esattamente il contrario), e poi pensa che un truffatore come Schwazer, che assumendo il doping scaracchia in faccia non solo agli sportivi, non solo al proprio e altrui sponsor, ma anche e soprattutto agli altri atleti, quelli puliti, che si fanno il mazzo e sputano sangue sudore e lacrime per partecipare a una competizione, abbia il diritto di tornare a rappresentare il proprio Paese, come se niente fosse successo, confondendo nella propria diarrea giustizialista un tanto al chilo ed estremamente selettiva, il diritto a ricominciare una vita dignitosa da cittadino qualsiasi con la pretesa che venga dimenticato un gesto che offende la morale: dimenticando, come fa con i politici, che quando si assume una carica, anche solo onorifica come quella di rappresentante olimpico, ci si mette in una condizione nella quale è richiesto molto più che essere onesti, ma anche un maggiore impegno a questa benedetta onestà.

E’ la schizofrenia di questo Paese che impedisce ormai perfino di indignarsi per la quotidianità con la quale si scoprono pubbliche e private corruttele e complicità con la criminalità organizzata: in questo quadro, figuramoci se qualcuno non dava del ‘moralista’ a chi pretende che Schwazer se ne stia buono e tranquillino, magari a riflettere sul fatto che se una vicenda del genere gli fosse capitata in Austria o in Germania, Paesi che sicuramente gli sono molto ma molto più affini del Paese che pretende di rappresentare nuovamente, non se la sarebbe cavata così a buon mercato.

In quei Paesi sarebbe stato non solo squalificato a vita nello sport, ma sarebbe con tutta probabilità andato incontro a una condanna penale – il signor Uli Hoeness, già stella del Bayern e vicepresidente della stessa società calcistica, per una truffetta di medio valore si è preso tre anni di galera che sta finendo di scontare in questi mesi e NESSUNO, dove si parla la lingua che viene meglio a Schwazer, ha fatto un plissé.

Va da sé come al signor Hoeness non passi neanche per l’anticamera del cervello di chiedere di essere nuovamente tesserato per la Federazione calcistica tedesca.

Alex Schwazer ha diritto al perdono. Non all’oblio. Ma in questo povero Paese, dove come si dice c’è sempre una porta della sagrestia aperta per chiunque, in modo da poter sgattaiolare, l’oblio è pratica costante. Fino al prossimo malaffare.

Cesare Stradaioli

 

IL LIBRO DEL MESE DI MAGGIO Consigliato dagli Amici di Filippo

L’altro titolo della più recente pubblicazione di Gian Enrico Rusconi, profondo conoscitore della cultura e della politica tedesca, potrebbe essere tratto da una della varie citazioni ivi contenute: “Germania: troppo piccola per il mondo, troppo grande per l’Europa.”

E’ interessante l’accostamento fatto fra il Reich che ha visto come protagonista Otto von Bismarck, il ‘Cancelliere di ferro’ e la Germania di adesso, che a Berlino come capo del governo vede una donna ritenuta non meno dura e intransigente del suo illustre e lontano – ma non così lontano – predecessore.

Secondo l’Autore, la Germania di Bismarck e quella attuale vivono, sia pure in contesti storici e politici inevitabilmente non confrontabili, una specie di comune sentire, definibile come riluttanza all’esercizio dell’egemonia. Il fondatore del primo Reich come ‘potenza di centro’ e i politici più vicini ad Angela Merkel – per non dire della cancelliera stessa la quale, comunque, per costume proprio rifugge dalle dichiarazioni ‘forti’ – hanno in comune da un lato un’evidente insofferenza nei confronti del concetto stesso di egemonia e, più in generale, dell’idea di un’Europa “tedesca”, dall’altro una forte preoccupazione tesa alla conservazione (all’epoca, l’Impero: oggi, la forza economica tedesca).

Vi è poi un terzo fattore che lega la Germania bismarckiana e quella che, di fatto, anche se all’apparenza pare sempre fare un passo in avanti e due indietro, oggi è indiscusso leader continentale: il rapporto con la Russia. Nell’intento di fare del Reich un punto di equilibrio europeo, Bismarck teneva in alta considerazione il mantenimento di un rapporto privilegiato con Mosca: non a caso – nella Storia niente avviene per caso – l’abbandono da parte della Germania guglielmina dei legami politici con la Russia fu considerato unanimemente come uno dei più importanti fattori che avrebbero portato nel 1914 alla guerra.

Passati numerosi decenni, l’avvento della Rivoluzione d’Ottobre e la chiusura dell’esperienza sovietica, due guerre mondiali, più una lunga guerra fredda e, infine, la divisione prima e la riunificazione poi della Germania, come in un bizzarro gioco dell’oca pare di essere tornati al punto di partenza: siamo ancora noi europei a dipendere dalle relazioni fra Berlino e Mosca. Qualcuno sostiene come le rispettive diversità di prospettiva, personali e perfino di gestione del potere al proprio interno, intercorrenti fra Bismarck/Merkel da un lato e lo Zar Alessandro II/Putin dall’altro, non siano in definitiva così profonde.

Per quanto attiene all’oggetto dello studio di Rusconi, in effetti l’anima luterana e prussiana di Bismarck e quella della cancelliera nata nell’allora DDR – che, come noto, sosteneva e menava vanto non solo di albergare la lingua tedesca nel suo migliore e più appropriato essere (scritto e parlato) ma anche – più velatamente e per evidenti ragioni di opportunità – di mantenere duro e puro lo spirito della grande Prussia, presentano profondi tratti comuni.

La riluttanza bismarckiana potrebbe derivare – l’Autore non ne fa un esplicito riferimento ma lo si può trarre da tutta una serie di considerazioni – da una sorta di schizofrenia politica, che vide l’ultraconservatore Cancelliere dare luogo e attuazione a una politica che oggi chiameremmo di welfare (e fra i più avanzati se non il più avanzato) costituita da un sistema di assicurazioni e tutele contro malattie e infortuni sul lavoro, assistenza per invalidità e vecchiaia che, al di là dell’evidente intento strumentale di mantenere un deciso consenso popolare, costituì, fu e rimase uno dei più elogiati complessi di iniziative sociali interne. Come se la classe operaia fosse da ritenere destinataria dell’assistenza dello Stato e, allo stesso tempo, virtuale sua nemica.

E’ stupefacente, per rimanere nelle sconcertanti similitudini, leggere nelle memorie di Bismarck chiari riferimenti al problema della Serbia e dei rapporti, allora come ora, tesissimi fra Russia e Turchia: come se il tempo, per certi versi e certi aspetti, si fosse fermato o addirittura riavvolto come un nastro registrato.

Di certo, la rivoluzione tedesca bismarckiana fu una rivoluzione ‘dall’alto’, mentre quella definita ‘democratica’ del 1989, ben al di là e oltre degli intenti di riunificazione, fu prima di tutto connotata da un desiderio di libertà, non fosse altro per il fatto che Bismarck fu colui che immaginò e realizzò la sua rivoluzione, mentre Helmut Kohl – che dagli eventi della DDR del 1989 culminati con la caduta del Muro fu colto di sorpresa (in buona compagnia, peraltro) – fu gestore, abile non c’è che dire, degli avvenimenti che riportarono la capitale nella Berlino non più divisa. Per non parlare del fatto che senza il decisivo contributo di Gorbaciov (che aveva in mente di dare impulso alla riforma del sistema sovietico e che, per contro, contribuì al crollo di quel sistema e alla fine della propria parabola politica), il tutto non sarebbe avvenuto, certamente non in quei tempi e in quei termini e per di più alla presenza – se così si può dire – di un’Europa politicamente debole, sia nel 1870 sia oltre cento anni dopo.

La schizofrenia, però, rimane. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, sembra tornare in auge un trionfalismo tedesco che presenta diversi tratti in comune con quello del 1870: e ancora una volta troviamo un ceto politico per nulla incline, quanto meno a parole, a raccogliere oneri e onori di un’egemonia che tutto e tutti insistono continuamente a voler loro conferire. Joschka Fisher, già ministro nel governo Schroeder, parla di risveglio improvviso nel quale, senza averne minimamente la voglia, i tedeschi si sono trovati ad avere un ruolo di leader. L’Autore cita un politologo quale Hans Kundani il quale arriva a ipotizzare uno scenario in cui “nel lungo periodo crescerà la pressione che porterà gli Stati debitori a unirsi in un’alleanza antitedesca … proprio come temono i tedeschi…”, facendo aperto riferimento a un parallelo con la situazione del 1871: la paura dell’accerchiamento che oggi sarebbe non tanto geopolitico, quanto economico. Questione che per la Germania, con 80 milioni di abitanti e un considerevole numero di attuali e futuri pensionati – ai quali, è bene ricordarlo, molto è stato e sarà chiesto, durante la vita lavorativa, proprio in vista di una ‘ricompensa’ costituita da una pensione indenne da svalutazione (terrore dei tedeschi, altro che memoria dei disastri della Repubblica di Weimar!) – definire drammatica sarebbe usare un gentile eufemismo.

Quanto a Wolfgang Streeck, altro eminente autore citato da Rusconi, sia pure con alcune riserve, la sua analisi poggia le basi sull’azzardo (per non dire fallimento) dell’euro e sulla sovraindustrializzazione che tradizionalmente caratterizza l’economia tedesca e tutto ciò riporta alla stessa problematica di una nazione che è, contemporaneamente, vulnerabile in quanto riluttante ed è specularmente riluttante – e cioè insicura – proprio in quanto vulnerabile e pare proprio che non se ne esca.

Come 140 e più anni fa, Berlino è sotto osservazione, vive in stato di perenne assedio, sempre sotto controllo, magari anche in ragione di un senso di colpa tutt’ora marcato, in passato per le guerre provocate – e perse: male gliene incoglie ai vinti, lo diceva nel 390 a. C. un condottiero nato nell’attuale Francia, solo un tedesco può coglierne l’ironia – e oggi per il dominio monetario ed economico. D’altra parte, per quanto Wolfgang Scheuble, il potentissimo ministro finanziario dell’esecutivo Merkel vada ripetendo come il concetto di “Europa tedesca” sia una totale insensatezza, è un dato di fatto sotto gli occhi di tutta l’opinione pubblica non solo europea, che non più tardi di 12 mesi fa, Tsipras e il suo ministro delle finanze di allora Yanis Varoufakis (del quale oggi, purtroppo per la Grecia e per la democrazia, si rivelano fondati ammonimenti e profezie), non trattavano la situazione greca con il Commissario europeo agli Affari economici e monetari, il francese Pierre Moscovici, né con quello inglese alla Stabilità finanziaria, Jonathan Hill, bensì con Scheuble stesso – in persona personalmente, come direbbe un personaggio creato da Andrea Camilleri: con le conseguenze che sono di nuovo sotto gli occhi di tutti.

La sofferenza della Germania, è la conclusione di Rusconi, è la sofferenza dell’Europa e, per logica conseguenza, anche dell’Italia. E’ una considerazione amara per quanto inconfutabile, però qualcuno l’aveva anche detto: che tutta la fuffa ideologica dietro la riunificazione tedesca, il crollo del Muro, l’abbattimento delle frontiere per le merci (non per le persone), la sterminata prateria consegnata al mercato e a un direttorio europeo costituito da persone non elette… E siamo in uno di quei casi in cui dire ‘L’avevo detto’ non rende giustizia neanche per sbaglio.

Cesare Stradaioli

Gian Enrico Rusconi.

Egemonia vulnerabile – La Germania e la sindrome Bismarck – Il Mulino – pagg. 170, €14

Garantista sarà lei!

 

Fino a non molti anni addietro, il termine ‘garantista’ veniva usato più spesso con una certa nota di dispregio nei confronti del destinatario. Intendeva definire una persona in qualche modo legata più alla forma che alla sostanza e caratterizzata da una grande fiducia in coloro che amministrano la giustizia, ponendo tale fiducia proprio nell’algido rispetto delle regole. Non è neanche a dire che un simile uso del termine fosse pretto patrimonio della Sinistra, o di una certa Sinistra. In certi ambienti e in determinati periodi storici, sentirsi dare del garantista era quasi più infamante o irridente che passare per socialdemocratico.

Il punto è che, ora come allora, definire garantista chi si occupi di diritto – magistrato, giudicante o inquirente, avvocato, giurista – è un po’ come definire amante della letteratura uno scrittore, o dare del musicofilo a un pianista classico: verrebbe da commentare “e ci mancherebbe anche…”. Insomma, un pratico del diritto, maggiormente proprio un pratico, per definizione non può non essere garantista: o è garantista oppure è un magistrato infedele o un avvocato indegno della toga.

Il problema di certa Sinistra, di quella Sinistra, è che un tema quale quello delle garanzie processuali, già di suo in buona parte lasciato come patrimonio alla Destra – negli anni ’70 e ’80 non pochi militanti e simpatizzanti della Sinistra antagonista e non solo si resero conto, sul proprio destino giudiziario, di quanto fosse preferibile essere perseguiti e giudicati da un magistrato conservatore piuttosto che da uno di Sinistra: Pietro Calogero e il 7 Aprile, tanto per non fare nomi – con l’avvento dell’era berlusconiana fu consegnato totalmente alla Destra peggiore e più becera (e financo eversiva) che ne fece carne di porco, spacciando per rispetto delle garanzie le peggiori e più sfrontate leggi a favore di determinate persone e categorie sociali.

Ora, chi scrive ebbe modo, oltre dieci anni fa, di esprimere severi giudizi nei confronti di giornalisti come Marco Travaglio, magistrati come Piercamillo Davigo o Giancarlo Caselli e, più in generale, della rivista “MicroMega”, in ragione delle loro posizioni fortemente – e quasi sempre a senso unico – critiche rispetto all’esercizio dell’attività difensiva e, maggiormente in maniera specifica, la professione dell’avvocato. Alcune cose cambiano, altre non e così pure le persone: Giancarlo Caselli è rimasto lo stesso, manifestando questa sua impostazione, per esempio, nel dare dei terroristi (spalleggiato in questo da un indegno ex Capo dello Stato che preferiamo neanche nominare) in toto e senza nessuna differenziazione, all’intera categoria di coloro, rappresentanti istituzionali e semplici cittadini, che da anni manifestano contro il TAV. Forcaioli una volta, forcaioli per sempre.

Altri, come Marco Travaglio, hanno aggiustato il tiro e, va detto con onestà, hanno contribuito non poco a convincere molti – compreso il sottoscritto – a cambiare idea su alcune tematiche: in questo aiutato da una situazione di corruttela che nel nostro Paese non solo non fa più notizia da oltre un decennio, ma addirittura viene trattata con un certo fastidio, al punto tale da indignare anche i più mansueti.

Poi, ci sono magistrati come Davigo. Il quale, come è stato correttamente detto, è uno che non ci mette venti minuti a dire buonasera. Ora, Davigo è un po’ un Antonio Ingroia di Destra: già dai tempi del pool “Mani Pulite” si distingueva dalla generalista definizione di ‘toga rossa’ che veniva appioppata con una certa ragione a qualcuno (Gherardo Colombo, Gerardo D’Ambrosio) e del tutto a vanvera ad altri (come Antonio Di Pietro). Davigo è come Ingroia, perché è una persona pericolosa: principalmente per un determinato ambiente politico e istituzionale, oltre che imprenditoriale. Ma non solo: lo è anche per una certa tendenza a travalicare certi limiti che la propria funzione impone.

Di Ingroia, assieme al lodevolissimo impegno nella lotta contro la mafia e, soprattutto a giudizio di chi scrive, in merito alla famigerata ‘trattativa Stato-mafia”, che ha interessato l’ex Presidente di cui sopra, deve necessariamente essere ricordato (con il suo Procuratore Capo, per l’appunto Giancarlo Caselli) anche il clamoroso fallimento del processo conto Andreotti: fallimento non tanto per l’esito giudiziario (di più non era possibile ottenere e poi, in fin dei conti e alla faccia degli analfabeti o dei collusi, il senatore a vita – qualcuno l’ha pure elevato a questa carica, accidenti! – è stato salvato dalla prescrizione, alla quale non ha rinunciato e avrebbe potuto e dovuto farlo, considerando la considerazione politica di cui godeva), quanto sotto il profilo culturale, per il modo in cui era stata impostata e pubblicizzata l’indagine.

Ma, a un certo punto della sua vita, Ingroia ha deciso di entrare in politica: così facendo, a buon diritto si è sentito libero, come deve sentirsi libero un giornalista come Travaglio, di dire e scrivere tutto quello che pensa, fermo restando lo speculare dovere di assumersene le conseguenti responsabilità. Travaglio pensa quello che pensa di politici e amministratori pubblici corrotti? Guai se si risparmiasse una sola parola, anche perché è uomo dotatissimo sotto il profilo della memoria e della disponibilità di atti; lo stesso valeva – finché tento, con sfortuna, la carriera politica – Ingroia.

Piercamillo Davigo non può. Non può dire una cosa che moltissimi di noi, le persone ragionevoli, oneste e responsabili, pensano e cioè che, rispetto a “Mani Pulite” i politici che rubano (non ha MAI detto che tutti i politici rubano) hanno perso la vergogna nel farlo: lo possiamo dire noi, che siamo semplici cittadini, operatori dell’informazione, eletti.

Lui no. Perché è un magistrato, per di più presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Lui, come tutti i magistrati in servizio, deve esprimersi solo attraverso le indagini, se inquirente, o i processi, se requirente. Per il semplice fatto che l’enorme potere (e la Magistratura è un Potere) di cui dispone, non deve lasciare trasparire nessuna opinione.

Garantismo è anche questo. E’ rispetto delle regole e rispetto dei ruoli e delle funzioni. I magistrati, in realtà, non dovrebbero neppure rilasciare interviste: certamente dovrebbe essere loro concesso di attivarsi e tutelare se stessi e la loro categoria affinché mascalzoni istituzionali che parlano di pallottole per i giudici o di magistrati golpisti o da sottoporre a perizie psichiatriche, ma anche e soprattutto TUTTI (e sottolineo TUTTI) coloro i quali parlano, giudicano, esprimono pareri su sentenze di cui non solo non conoscono le motivazioni, ma neppure le indagini e i dibattimenti che le hanno precedute, siano perseguiti a norma di legge o, quanto meno, debitamente stroncati e sputtanati in ragione delle stupidaggini o delle offese che profferiscono.

Condivido quasi tutto quello che ha detto Davigo e non c’è da stupirsi per la canizza che ha scatenato: non sono d’accordo che l’abbia espresso. Purtroppo, ogni tanto gli scappa qualcosa che non andrebbe detto e, fatalmente, quando si dicono cose interessanti e giuste, ma le si inframezza anche da una sola sciocchezza, finisce che quello che rimane è proprio la sciocchezza ed è un peccato, oltre che una cosa profondamente ingiusta.

C’è un modo, per evitare che il pensiero di un magistrato venga stravolto, confuso, decontestualizzato e strumentalizzato come meglio conviene dalla peggiore feccia politicante: non rilasciare interviste. C’est plus facile.

Cesare Stradaioli