IL LIBRO DEL MESE DI APRILE Consigliato dagli Amici di Filippo

Bisogna dire una cosa, di Fofi: considerata la forte radicalità che connota quasi tutte le sue opinioni, che si tratti di cinema, politica o letteratura (che lui difficilmente scinderebbe fra loro) – e non ci si faccia ingannare dal tono di questi ultimi decenni, solo apparentemente più sommesso e conciliante delle sberle che volavano ai tempi di “Capire con il cinema” e, ancora prima, dei “Quaderni Piacentini” o di “Linea d’ombra” – con le quali si può essere d’accordo, in parte, per niente, il Nostro non ha mai fatto sconti a nessuno e certo non ha cominciato a farli con questo libricino che, a dispetto dello spessore, è ricco e denso di pensieri, giudizi, distanze e vicinanze.

Ed è diviso in due parti: la prima contiene una serie di valutazioni e comparazioni fra l’anarchia, l’anarchismo e l’arte – segnatamente, il cinema; la seconda è una carrellata di nomi e titoli del cinema francese, tedesco, americano, inglese, italiano ed extra, una specie di ricerca dell’anarchico che sta dietro la macchina da presa.

Il regista ha o deve avere i connotati dell’anarchico? Forse e sì, sono rispettivamente le risposte; che potrebbero anche essere, dipende da chi e magari li avesse.

Dicevamo del non fare sconti: in realtà, pure con qualche tratto di pacatezza che parrebbe tipico dell’età – e anche di un certo autocompiacimento monacale: il distacco, il pauperismo, l’isolamento, tutte cose che dovrebbero aiutare ad avere una maggiore obbiettività – e anche di una certa, legittima stanchezza nel ripetere le cose, Fofi continua ad averne per pochi e per tutti. Non necessariamente un anarchico è una figura positiva, pure se è evidente che il cuore dell’Autore batta per questa forma di opposizione (‘passione’ è una parola che ricorre spesso nei suoi scritti, esplicita o fra le righe), essendo il cinema popolato da anarchici consolatori e non poco compromessi con quelli che ci mettono i soldi per fare i film, dato che, come si dice nella sua amata Sicilia, senza sordi nun si canta missa.

Della prima parte del libro sono rimarchevoli i ricordi delle figure che hanno ispirato la sua vita e la sua crescita personale e politica, come Colin Ward, Elsa Morante, ovviamente Danilo Dolci e Giorgio Capitini, Kracaurer, Virginia Woolf, gli amati Julien Beck e Judith Malina; memorabile è il passaggio in cui rammenta i suoi confronti/scontri con Pasolini, del quale condivideva gran parte delle idee, ma al quale rimproverava l’eccessivo rimpianto per un mondo che si stava perdendo, nel quale i bambini letteralmente morivano di fame ed è mirabile la citazione della propria madre, che amava ripetere come avrebbe sempre detto un’orazione per quello che aveva inventato i cessi in casa – “Pasolini,” scrive Fofi “il cesso in casa l’aveva avuto da sempre).

Gli strali, che non mancano mai, sono per i soliti: Craxi, Berlusconi, ovviamente Renzi e un po’ meno ovviamente – ma non per chi conosce lo spirito di questo ferocissimo maestro – per l’insopportabile buonismo di Roberto Benigni (e chi scrive rivendica il diritto a un applauso per se stesso, avendone detto molto tempo fa, anche in polemica con Filippo). Ma qui, con questi nomi, è un po’ come sparare sulla Croce Rossa – che, detto per inciso, in merito a certi personaggi ‘salvati’ dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, una qualche raffica se la meriterebbe pure: Fofi spara ad alzo zero e a palle incatenate anche sull’industria culturale, che a suo dire oggi darebbe lavoro (non molto pulito) a oltre un milione di persone, nel suo essere diventato quello che è sotto gli occhi di chi vuole vedere, vale a dire un pletorico carrozzone propagandistico al soldo della politica in sella pro tempore.

Tanto, forse un po’ troppo compatimento per i diplomati al DAMS, per i trentenni-quarantenni di adesso, codardi un po’ per vocazione e un po’ per l’essere rimasti senza padri culturali, drogati e guidati per mano dalla televisione e dal mercato; una presa di distanza – postuma, dato che il libro era già uscito – anche per Umberto Eco, in un’intervista a RadioTre in occasione dell’uscita di questo libro, subito dopo la scomparsa dello scrittore-linguista: “Con Eco siamo anche stati amici, almeno a periodi: ma lui è sempre stato convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili” (e su questa chiusa l’applauso va dritto a Fofi il quale, infrangendo l’obbligo di etichetta già stigmatizzato da Pirandello, che sosteneva come i morti fossero ‘i pensionati della memoria’, si mette di traverso, misurando la distanza intercorrente fra un intellettuale evidentemente compiacente – se non traditore, diciamo le cose come stanno e non traditore nel senso che intendeva Julien Benda, tutt’altra cosa – e l’Autore e molti altri a sinistra, che non credono affatto che in questa vita meglio di così non si possa avere e che non ci sia alternativa a qualcosa che è già ‘migliore possibile’ di suo).

Segue, nella seconda parte, una carrellata su una serie di autori (Goffredo Fofi, anche in questo conservando una certa propria peculiarità, non parla MAI degli attori, solo dei registi). E quindi ecco Charlie Chaplin, preponderante figura di anarchico, strettamente legato tuttavia ai padroni del vapore – o, meglio, degli studios – ovvero il pensiero anarchico del rifiuto del lavoro: anche se altri, uno per tutti – perché UNO sono – Stan Laurel e Oliver Hardy), hanno rappresentato, a opinione di molti, anche di chi scrive, la più grande e devastante forza distruttiva della proprietà privata di tutta la storia del cinema; ecco Jean Vigo, protagonista dell’ondata culturale degli anni ’20, Robert Bresson, con il suo ‘no’ estremo, forte, che non scende a compromessi, Bresson che non distrae, non consola, soprattutto esige rispetto da chi lo guarda e lo analizza; ecco Luis Bunuel, l’entomologo, pieno tuttavia di empatia e di comprensione per le debolezze umane, la personificazione del surrealismo come guida alla legge del desiderio e alla ferocia dell’Angelo Sterminatore; ecco Jean Luc Godard, il distante, narciso, irritante, troppo ‘onnivoro’ per essere un anarchico a tutto tondo; ecco Orson Welles, il visionario, regista che ‘fa ombra’, forte anche del suo impatto fisico, un altro che per non essere quasi mai sceso a patti, si è visto rimaneggiare moltissimi film e la sua stessa carriera; ecco Sam Peckinpah, questo sì un bell’anarchico, nichilista, distruttivo dei suoi personaggi (si pensi all’universo surreale de Il Mucchio Selvaggio, fortemente maschile, pieno di pulsioni di morte – nel massacro finale, gli uomini d’onore sanno bene di andare incontro alla fine e ci vanno sorridendo, fieri e tronfi) e anche di se stesso, mentre Robert Altman, nato come anarchico, si arrende al mercato; per arrivare a quel genio del ‘fai da te’, Roger Corman, grande scopritore di talenti, al ghignante John Cassavetes, anarchico nella vita e crudo esploratore dell’animo umano e dei rapporti di coppia – dopo di lui, secondo Fofi, nel cinema USA cambia tutto.

Ecco gli inglesi, gli ‘angry young men’ – verrebbe da chiamarli ‘prigionieri della monarchia’, come li chiamano con disprezzo in Australia, per come si avverte nella loro filmografia la sofferenza del vivere in un posto al quale non sentono di appartenere e che, in realtà, faceva ben poco per farla sentire, l’appartenenza.

Ed ecco il cinema tedesco, con il sopravvalutato Wenders – standing ovation: non c’è altro da dire di uno che resuscita Fritz, ignaro (o arrogante) che un personaggio simile non gli appartiene più, dopo che ha deciso di farlo morire nel meraviglioso finale ne “Lo Stato delle Cose”, ma ecco anche il potente e glaciale Werner Herzog, folle ma molto poco anarchico, eppure vitalissimo narratore di anarchici, irregolari, pazzi, vittime o portatori di superego da campionato del mondo. Ed ecco, soprattutto, l’anarchico più grande, genuino, sincero, commovente, sfrenatamente passionale: Rainer Werner Fassbinder, capace nella sua ars longa e vita brevis di raccontare una profonda interiorità, sempre stando attendo a non scivolare sulle interiora, anche se le vicinanze alla pancia sono state gran parte della sua opera (d’altronde, cos’altro poteva fare uno che sosteneva come il polso di una città lo si tasta al meglio nelle scritte dei cessi pubblici maschili?): il regista del melo mai autocompiaciuto, fine a se stesso, in grado di apprendere la lezione di Brecht, inscenando una capacità quasi bulimica di analizzare il contesto sociale ed economico della società tedesca, passando però non attraverso i rapporti di classe bensì quelli di potere, giocando sui simboli e sugli splendidi personaggi femminili che ha saputo mettere nelle sue scene piene di specchi.

Ed ecco il cinema italiano: passiamo alla recensione successiva…

Cesare Stradaioli

Goffredo Fofi – Il cinema del no – Elèuthera Editore – Pagg. 100, €10

1 Comment

Di che Europa parliamo, quando parliamo di Europa?

Di quale Europa parliamo?

Quella che sanziona gli ‘aiuti di Stato’, cioè che considera una cosa negativa l’intervento pubblico?

Quella che apre procedure di infrazione in merito a punti percentuali di debito pubblico, in base a parametri individuati da un gruppo di persone che non sono state elette e quindi non devono rispondere ad alcun elettorato, pur godendo di un potere sconfinato?

O di quella, Ungheria e Austria, che alza muri e NESSUNO dalle istituzioni europee batte ciglio?

Cesare Stradaioli

 

Chi vuol esser Pasquale, sia…

Quando non perde le staffe – cosa che succede sempre meno, forse l’età aiuta – Massimo Cacciari esprime concetti per solito chiari e di frequente condivisibili. Il più recente che è capitato di vedere risale al giorno dopo gli attentati di Bruxelles: a domanda se dobbiamo considerarci in guerra, l’ex sindaco ha ribattuto che se qualcuno mi dichiara guerra e mi spara, è un po’ ridicolo che io insista a dire che la guerra non mi risulta.

In effetti, come dargli torto? Siamo in guerra con quella non meglio identificata entità meta-statuale chiamata Isis o Daesh? Che qualcuno, in suo nome uccida cittadini europei, per poi vedere rivendicata l’azione, mi sembra un dato di fatto inequivocabile. In quale modo l’Europa, come continente e ogni singolo stato, può dire di non essere in guerra, senza assomigliare alla maschera ridicola resa nota da Totò, quello che prende sberle e asserisce di non preoccuparsene, perché non è lui il Pasquale contro cui si accanisce chi lo sta mazziando? In nessun modo. Non può.

Allora, quale guerra?

Comincerei col dire quale guerra NON fare. Da evitare esattamente quello che l’Occidente sta facendo e cioè sparare e bombardare a caso. A tacer d’altro, perché ne vanno di mezzo sempre i civili, uccisi, feriti, sradicati, esiliati, affamati.

Prendete i primi cinque, rispondeva Zeman a chi gli chiedeva cosa ci sarebbe da fare nell’immediato, prima che operare culturalmente, contro la piaga del doping. Ecco, prendiamo i primi dieci. Che tale al Baghdadi esista o sia una multiforme entità personale, poco importa. Lo dico qui e ora: mi rifiuto di credere che qualcuno (Mossad o MI5 tanto per non fare nomi) non sappia chi sia, dove sia, dove dorma, cosa prenda contro l’ulcera, chi gli prescriva il rimedio e in quale farmacia si rechi per farne scorta.

Prendiamo i primi dieci, portiamoli davanti a un Tribunale Internazionale per i Crimini di Guerra, processiamoli e condanniamoli. Non a morte, naturalmente: noi siamo contro la pena capitale e, nel caso specifico, sarebbe idiota – oltre che immorale – uccidere per punire chi uccide.

Gli si dà una bella rasata a quelle barbe – penso di poter affermare come, in alcun modo, si tratti di tortura, contro la quale ci battiamo sempre e comunque – li si presenta in TV a reti unificate e si fa vedere ai possibili volontari di missioni suicide che per i loro mandanti l’incontro con le settanta vergini è differito di una quarantina di anni, momento in cui con tutta probabilità il desiderio sessuale sarà largamente soppiantato da quello di una litrata di birra o di un bel sigaro.

Scherzi a parte. Prendersela con gli esecutori, con quei poveri bestioni che nella stragrande maggioranza non sanno leggere, oppure non sono arabi quindi non sono in grado di leggere il Corano e se sanno leggere in arabo difficilmente lo comprendono (il sociologo De Masi, noto per essere il secondo uomo al mondo, dopo Umberto Eco, ad avere letto quasi tutto, sostiene di averlo letto con attenzione due volte e solo dopo la seconda volta ha cominciato a capirne qualcosa), sicché necessitano che qualcuno – la gara al più millantatore è aperta – glielo spieghi e glielo falsifichi, non serve a nulla se non a creare martiri e a far venire avanti il prossimo.

No. Colpire questa organizzazione nazista (solo un nazista dentro può immaginare di massacrare studenti, civili, gente che sta andando al lavoro e che per questo si alza alle 5 del mattino) in maniera efficace richiede che vengano colpiti i capi.

Per inciso: le bombe degli attentati di Bruxelles contenevano materiale devastante quale biglie, chiodi, viti: tutti oggetti specificamente adatti a causare i maggiori e più indiscriminati danni fisici. Sono vietate dalle leggi internazionali e secondo il diritto internazionale di guerra, un militare che venisse sorpreso a farne uso sarebbe passibile di fucilazione immediata sul posto, da parte del nemico: e sto parlando di gente in divisa.

Io, personalmente, piuttosto che fucilare il singolo soldato, metterei al muro l’ufficiale che gliel’ha ordinato: così farei (processo, non fucilazione, siamo contro eccetera eccetera), rispetto all’Isis e ai suoi appartenenti.

Non sapremmo dove colpire? Per cortesia: due bombardamenti russi appositamente mirati hanno stroncato quindici giorni di vendita petrolifera con la quale vengono comprate armi. Infatti, i compagni di merende dell’Isis (Erdogan e C.) hanno tirato giù un caccia russo. Chi vuole intendere, intenda.

Purtroppo, sempre di azioni militari si tratta.

Gino Strada è un italiano che dà lustro al nostro Paese e personalmente gli avrei assegnato il Nobel già tre o quattro volte. Nessuno come lui ha visto corpi devastati dalla guerra; popolazioni annientate dall’esilio causato dalla guerra; la miseria umana. Per quello che possiamo, dalle nostre postazioni di fronte alle tastiere, lo capiamo e per questo vorremmo evitare la guerra come è sempre stata fatta.

Rimane la considerazione per la quale, se si vuole andare a prendere i primi dieci, certo non lo si può fare chiedendo permesso, bensì presentandosi armati fino alla dissuasione. Del resto, sono personalmente convinto che non Gino Strada né nessuno del suo valentissimo personale, a domanda specifica si limiterebbe a rispondere di non essere Pasquale.

Cesare Stradaioli

Ecco, s’avanza uno strano soldato

Paul Krugman non è solo un economista di livello mondiale – nonché già premio Nobel, anche se qualcuno sostiene che i Nobel siano un po’ come gli Oscar, assegnati un po’ così e un po’ cosà – ma è pure un burlone che sotto la barba, che lo fa rassomigliare vagamente a George Clooney, fra una frase tecnica e l’altra non disdegna il paradosso.

Settimane or sono, scrive un pezzo a proposito della prossima presidenza Usa, nel quale a un certo punto sostiene come dei tre candidati più autorevoli per le primarie in campo repubblicano, i primi due siano da classificarsi come razzisti, ultraconservatori, sessisti, retrogradi, anti islamici e pericolosi populisti, mentre il terzo ha una buffa pettinatura.

Bisognerebbe andare a chiedergli di persona se davvero considerasse i – tramontati – candidati Rubio e Cruz più pericolosi di Trump, oppure se la sua fosse una provocazione.

Rimarremo con la curiosità; soprattutto di sapere cosa diavolo ha in mente una buona metà dell’elettorato statunitense, a prescindere dalle opinioni degli economisti. Per fortuna, ora ci viene in aiuto Vittorio Zucconi, profondo conoscitore degli Stati Uniti, il quale su “Repubblica” di ieri traccia il profilo di quelle che si dice un uomo tranquillo. Sappiamo che gli autori degli articoli non rispondono dei titoli, che vengono decisi in redazione: d’altra parte, è difficile che un giornalista autorevole quale Zucconi (che dirige anche il TG di radio Capital, la voce via etere di “Repubblica”) possa farsi imporre un titolo ovvero ignorare una eventuale baggianata. Infatti, il titolo, una volta tanto, rispecchia l’idea che l’inviato (anzi, residente) ha del nuovo candidato repubblicano, tale John Richard Kasich, governatore dell’Ohio. Sarebbe lui, in pratica, il volto umano dei repubblicani, da contrapporre a quello impresentabile (ma che ne penserà Krugman?) di Donald Trump, che sembrerebbe destinato a sconfitta sicura contro Hillary Clinton (ci permettiamo di avere qualche dubbio in proposito e di ricordare quanto e come venisse preso per i fondelli Ronald Reagan quando si candidò contro l’allora Presidente uscente Jimmy Carter – scontro titanico fra un ex attore noto come protagonista della immortale pellicola “Bonzo la scimmia parlante” (lui non era Bonzo, per la cronaca) da un lato e dall’altro un produttore di bagigi, che recentemente era stato preso a calci nelle palle da Khomeini – sappiamo com’è andata a finire anzi, forse, non è ancora finita.

Tale Kasich andrebbe bene, così pare, anche a molti repubblicani, che non vedrebbero di buon occhio un cafone alla Casa Bianca, pure se fosse uno dei loro. In effetti, stando a quanto scrive Zucconi per buona parte del pezzo, Kasich è il cosiddetto ‘Quiet Man’, che ovviamente a tutti fa venire in mente il temperato John Wayne, ma anche il più All-American-Quiet-Man di tutti i tempi, vale a dire James Stewart; entrambi – John Wayne quasi solo nel film omonimo – buoni e bravi, ma siccome stando a quanto diceva Andreotti le guance di cui disponiamo sono solo due, a un bel momento quanno ce vo’ ce vo’ e giù sganassoni alla Bud Spencer.

Kasich è ‘un uomo qualunque’, senza essere qualunquista, viene dal popolo, si è fatto un mazzo così, è credente – a quanto pare un americano ateo è più raro di un eschimese di colore – formazione cattolica, si oppone alla ‘spregiudicatezza egocentrica di Trump’ (aridànghete!), prova rimorso per i poveri e gli ultimi e via cantando.

Però.

Però, questo uomo tranquillo, figlio di due postini, “è un fanatico antiabortista, dichiaratamente pro-lobby delle armi, concretamente forcaiolo, come ha dimostrato firmando 17 condanne a morte da governatore senza mai concedere grazie e commutazioni, devoto al fracking” e amenità del genere.

Questo, sarebbe un uomo tranquillo. Un moderato.

Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe Filippo che avrebbe detto il suo – nostro – amato Totò: a noi verrebbe da dire alla faccia di qualcosa d’altro, ma va bene così.

Cesare Stradaioli

Sbatti il mostro in galera e butta la chiave

Sarà la Magistratura, quella inquirente e poi quella giudicante, a occuparsi della posizione giudiziaria dei due accusati – pare anche rei confessi – del terribile omicidio di Roma. La cosa, però, non deve e non può finire lì, con un processo e una condanna, che al momento appare inevitabile.

Su ‘Repubblica’ di oggi, Massimo Recalcati scrive un articolo molto interessante che, personalmente, mi trova in disaccordo soprattutto in un punto: la mancanza di una causa, per un gesto così orribile. E’ vero che i titoli degli articoli sono di competenza della redazione, ma in questo caso vi è sostanziale corrispondenza fra il contenuto dell’articolo e il titolo che lo introduce: il Male senza causa. Ed è proprio sulla asserita mancanza di una causa che vorrei portare l’attenzione. Il resto, il come e il quando, saranno oggetto di indagine e di giudizio.

In natura, sostiene Recalcati, non esiste il crimine: il quale, per sua stessa natura, prima di tutto proprio in quanto in contrasto con una legge che lo punisce (e senza la quale non sarebbe ‘crimine’), appartiene in via esclusiva alla natura umana. Segue, dopo quello sugli animali, che non hanno alcun interesse a provocare sofferenza nei propri simili o nelle prede, se non la mera sopravvivenza che tutto giustifica, una serie di esempi, dal crimine commesso per interesse materiale, per fini di terrorismo, crimine d’impeto, crimine commesso per cause patologiche: nei quali, tutti, comunque li si guardi, una causa sussiste. E fin qui, il ragionamento di Recalcati appare del tutto condivisibile e non solo dai profani del diritto o della psicologia.

Dove comincia il nostro disaccordo con l’autore è quanto lo stesso individua il delitto di Roma, senza causa, soprattutto per come si è dipanata tutta la serie di attività messe in atto dai due accusati, vale a dire gesti tesi a provocare sofferenza, sottomissione, negazione dei limiti imposti dalla legge.

Ma una causa, a ben leggere fra le righe, c’è: è proprio questo abominevole disprezzo per la vita, l’esercizio arbitrario di una volontà che va contro un imperativo esistente in qualsiasi comunità di uomini (uccidere senza una ragione), la perdita di consapevolezza di ogni possibile limite: il tutto – difficile negarlo, crediamo – per niente casuale e del tutto proprio, invece, a una società malata e puttana, mercificata e stolida, che del libero arbitrio, del disprezzo per gli altri, della sottomissione del più debole, della prepotenza ha fatto alcuni dei suoi tratti più netti e marcati.

Quando uno dei due tristi personaggi dice, come pare che abbia detto, di avere ucciso solo per sapere cosa si prova, non sta parlando di cose ‘senza senso’; non dice, che so, ‘volevamo pitturarlo di verde’, oppure ‘eravamo curiosi di sapere cosa avrebbe detto se gli avessimo fatto marameo’. Parla, CI parla di una cosa ben determinata: cagionare morte e sofferenza al solo scopo di vedere, di sapere, di capire, di verificare. Morte e sofferenza, cioè violenza, cioè sopraffazione, cioè prepotenza: non una scazzottata fra uomini, per una donna o per un parcheggio, che poi finisce al pub, bensì l’esercizio del dominio e della forza su una persona sola, resa indifesa dal consapevole uso di sostanze che ne limitino la difesa.

In definitiva, disprezzo per la vita e per la dignità altrui, generato (e vorremmo vedere se qualcuno avrebbe la faccia tosta di dire il contrario) da infanzia, adolescenza e prima età adulta – i due dovrebbero essere nati intorno al 1986/1988 – verosimilmente alimentate da violenza vista e ascoltata fino alla nausea, filmata e su cartoni animati, su videogiochi e su quella disgustosa forma di fascismo grafico che sono i manga giapponesi, in quantità tale da rendere la morte una cosa che incuriosisce e perciò stesso la spersonalizza, banalizzandola da quante volte la si vede e rivede; a volumi e bombardamenti tali da indurre a credere che gridare in faccia all’interlocutore, interromperlo, offenderlo, sia pratica non solo accettata ma addirittura esaltata da un’immagine dell’uomo, anzi del maschio, che non era così sistematicamente diffusa ed enfatizzata neanche nel Ventennio fascista – che, quanto meno, una base ideologica ce l’aveva. Perché crediamo che mai, nessuna generazione di bambini, ragazzi e giovani, negli anni e nei secoli passati sia stata esposta in maniera così totale e crudele a immagini, episodi e comportamenti tutti improntati alla sopraffazione, all’esercizio della violenza e della prepotenza, verbale e fisica.

Una volta c’era il capro, che ‘espiava’ le colpe della società: lo si allontanava dai suoi simili e dalla comunità degli uomini, in modo da tenere a distanza il male, la colpa, la responsabilità. Oggi c’è il ‘Mostro’; prima di tutto, come nel celebre film con Gian Maria Volontè, da sbattere in prima pagina e in prima serata (ma anche al pomeriggio, giusto per non far mancare niente ai nostri figli) e poi in galera. Così non ci pensiamo più. Si prenderanno l’ergastolo o trent’anni e così il problema sarà risolto, per tranquillizzare le coscienze, per non farci pensare che quella cattiveria messa in pratica in modo così crudele da non poter essere qualificata anche idiota, è anche frutto di un modo di vita, di una società della quale tutti siamo un po’ complici. Per dimostrare che la società è sana, che quel mostro, come il capro, è un estraneo, un alieno, una stortura, una deviazione, all’interno di una comunità sostanzialmente sana.

Qui siamo in disaccordo con Recalcati, che parrebbe – e ce ne stupiamo, conoscendo l’autore e i suoi scritti di grande profondità – identificare nella mancanza di causa relativa all’orrendo crimine di Roma, una specie di vuoto, nel quale i comportamenti di quei due disgraziati sembrano non avere alcuna radice. Ne hanno, a nostro giudizio, di radici e belle lunghe e tutte affondate in questa società per niente sana, drogata di sopraffazione, materialismo, soperchierie e di libertà, grimaldello usato per fare solo quello che pare, piace e fa comodo e al diavolo le regole e la convivenza con gli altri.

15 NO alla riforma costituzionale – stralci dal documento di Gustavo Zagrebelsky

Non è una lettura facile, né agevole. E’ semplicemente una lettura utile.

Cesare Stradaioli

 

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.

Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)

13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.

Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera. Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”. Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”? Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere. oncatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà. Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.

15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero. Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante.

 

 

2 commenti

Contro le Primarie

Non era certo necessario attendere lo squallido spettacolo di queste settimane, per poter affermare in tutta coscienza, rubando la battuta a Fantozzi, che le primarie sono “una boiata pazzesca”. Ma forse è necessaria qualche considerazione più tecnica. Proviamo a farla.

Sulla scorta della versione originale USA – perché non ci facciamo mai mancare l’americanata di turno – nella vita politica italiana hanno fatto ingresso qualche anno fa: e come sempre accade quando in una comunità profondamente disorientata e provinciale entra qualcosa di nuovo che sposta l’attenzione dalle vere problematiche esistenti, a sezioni unite e cori unanimi (si contano sulle dita di una mano le voci dissonanti, in proposito) furono considerate la panacea per una politica agonizzante e scarsamente rappresentativa.

Va tenuto a mente come l’Italia venisse da un quarantennio di disastro democristiano, seguito da uno sconquasso giudiziario – ‘Mani Pulite’ – che, come ebbe un giorno a profetizzare l’avvocato Giuliano Spazzali, difensore nel famoso ‘processo Cusani’, si sarebbe risolto in una raffica di mitra a salve, per poi giungere alla tragedia politica, etica e culturale causata dal berlusconismo e dal bar Sport al governo. La crisi della politica non era tale solo in termini di rappresentatività, ma anche di quel diffuso senso di corruzione abilmente sfruttato dagli ideatori e realizzatori della fortunatissima campagna contro la “Casta”, che ha avuto l’unico risultato politicamente e socialmente apprezzabile di costituire un formidabile lavacro per le coscienze di ogni singolo cittadino, facendo sì che a fronte di un politico o di un amministratore evidentemente corrotto, letteralmente sparisse dalla riprovazione sociale il corruttore, cioè il singolo cittadino: l’accanita campagna contro la Casta portò in breve a individuare nella corruzione del politico l’unico elemento rilevante di un rapporto che, per fisiologici motivi, o e a due oppure non è. Oltre al bar Sport, dunque, se non proprio al governo, quanto meno nelle coscienze degli elettori, andava al potere anche il qualunquismo allo stato più puro dell’italiota medio: sono GLI ALTRI a essere corrotti. E’ sempre colpa di qualcun altro.

Se a questo si aggiunge la vulgata veltroniana del cosiddetto ‘partito liquido’, una delle più solenni panzane fatte ingoiare all’elettorato di sinistra – che, infatti, si è liquidato nell’astensionismo e nella scheda bianca, un tempo storicamente qualità proprie della destra e della maggioranza silenziosa – che avrebbe dovuto portare (e, per i nostri peccati, ci è riuscita) a un partito ‘leggero’ come rimedio alla burocratizzazione degli apparati, ecco che per forza di cose i tempi erano maturi per la definitiva personalizzazione della politica, nata da noi con lo sciagurato referendum promosso da Mario Segni sul maggioritario, al quale ovviamente era andata in soccorso tutta la sinistra parlamentare, coi bei risultati che si sono visti.

I partiti sono corrotti? Le segreterie sono incapaci di connettersi alla base? Le liste sono preparate dalle singole sezioni di partito (sai che bella scoperta: negli altri Paesi occidentali invece i candidati li pescherano a caso nelle liste degli uffici anagrafe del comune…)? Tutto il potere al popolo: che sia il popolo a decidere chi debba concorrere per questa o quella carica.

Come? Andando ai seggi delle primarie, indicando un nome.

Ora: prima di tutto, ci risiamo con le designazioni delle segreterie: basti pensare alla candidatura di Sala a sindaco di Milano. Ovvio che molti milanesi lo conoscessero: l’Expo è stata un’eccezionale arma di propaganda. Ma se non fosse intervenuto Renzi in prima persona, a letteralmente imporre il nome di Sala, tutto lasciava prevedere che il posto del dimissionario Pisapia sarebbe stato preso da qualcuno appartenente al suo personale politico, in omaggio a quella ‘continuità con l’esperienza di cinque anni’, menzionata niente di meno che dal presidente del Consiglio stesso, in una delle sue innumerevoli sparate ad minchiam – con un rispettoso pensiero al professor Scoglio, ispiratore di una definizione semplicemente geniale.

Il caso Sala è solo il più famoso, perché riguarda Milano, ma in genere, con le notevoli eccezioni di Marino a Roma e di De Magistris a Napoli, l’andazzo è sempre stato lo stesso: saranno pure i cittadini a decidere, andando ai seggi, ma sempre su nomi fortemente imposti. E allora, dove starebbe la novità, fra le primarie e una lista predisposta dalla segreteria provinciale o cittadina?

E’ incredibile come un quesito, che sarebbe basilare, ormai non venga più posto: come si possa garantire che coloro che si recano a votare per le primarie, siano genuinamente elettori di quel partito? Il fatto è che, oggi come oggi, non si può. Basta presentarsi con due o tre euro, dare il proprio nome e indicare un candidato. Chi e cosa può escludere che ai seggi non si rechino – ovviamente è già successo e succederà ancora – truppe cammellate agli ordini (o al soldo, c’est plus facile) di qualcuno, non necessariamente interno al partito, mandate lì all’unico scopo di escludere un candidato scomodo ovvero – o anche – di favorirne uno più, diciamo ‘organico’, a un certo progetto?

Niente e nessuno può escluderlo e non c’è verso.

Prendiamo realtà locali dove basta un centinaio di preferenze e questo candidato passa e quell’altro va a casa: viviamo nel Paese del campanelli o ci rendiamo conto che settanta-ottanta indicazioni a favore di un candidato, diciamo moderato di centrosinistra, possono essere funzionali e perciò utilizzate da un oppositore politico a quel partito, il quale sapendo di non avere chances di vincere quella singola competizione locale, preferisce appunto favorire un candidato opposto ma moderato, piuttosto che vedere vittorioso quell’altro nome di quel partito, assolutamente contrario a stipulare con l’opposizione accordi sottobanco?

Per non parlare del fatto, anche questo già successo, che le truppe cammellate di cui sopra possono benissimo essere mosse dalla criminalità organizzata – e il Movimento Cinque Stelle ne sa qualcosa, a proposito del cosiddetto ‘caso Quarto’.

Prendiamo una realtà locale: mettiamola insieme ad altre cento e avremo una linea politica a livello nazionale di accordi che portano all’elezione di personaggi compiacenti, accordi funzionali alla realizzazione di un do ut des e magari a più di uno: a meno di non pensare che Verdini offra i propri voti, ad esempio, alla candidatura Giachetti a Roma, per pura amicizia nei confronti di Renzi. E’ chiaro che Verdini – e soprattutto coloro che gli stanno dietro: dovrebbe ormai essere chiaro anche ai bambini dell’asilo come non ci sia MAI un uomo solo al comando e che dietro di lui ci sono ben determinati e individuabili interessi di gruppo – vorrà qualcosa in cambio e certamente lo otterrà.

Voglio dire: le alleanze ci sono, ci sono sempre state; i compromessi esistono e se la politica viene praticata con onestà e spirito di servizio, l’arte del possibile non li esclude a priori. Ma di una cosa vi è necessità assoluta, per quanto spregiudicata possa essere una politica tesa al bene comune: la chiarezza.

Non si spaccino le primarie per quello che non sono e non possono essere: strumento di rappresentatività e di democrazia diretta. Sembrano carenti di rappresentatività i nomi indicati da una segreteria di questo o quel partito? Tanto per cominciare, un partito con una segreteria deve per forza avere un programma preciso, che è quello che manca oggi ai partiti in Italia: e se non è questa una mancanza di rappresentatività, allora bisognerebbe chiarirsi cosa sia, la rappresentatività politica. Un partito serio – non liquido come la diarrea – lo dice, lo spiega, perché per questa o quella legge, chiede i voti dell’opposizione e, se necessario, contraccambia per qualcosa d’altro. Ci può stare: purché sia chiaro e venga detto e spiegato all’elettorato. Il quale solo in questo modo può davvero esprimersi sul punto: dire se questa politica va bene, se si accetta questo modo di governare oppure se il governo o la segreteria debba andarsene a casa.

Mettersi in fila alle primarie, per nomi comunque imposti dal partito (e a destra succede anche di peggio), e trovarsi a fianco dei cittadini che non votano e non voteranno mai per il partito o la coalizione per la quali si fa la fila, ma indicano non tanto a favore, quanto CONTRO un candidato, non è democrazia, non è rappresentatività: è l’ennesimo inganno di un ceto politico incapace, timido e perciò arrogante.

E’ bene saperlo e rendersene conto: chiunque appoggi le primarie deve essere consapevole che, allo stesso modo in cui un corruttore non può chiamarsi fuori dalla corruttela – come vorrebbero i teorici della Casta – dando tutta la colpa al corrotto, così chi partecipa a un metodo truffaldino per giungere a una candidatura, non potrà poi chiamarsi fuori dalla truffa elettorale che ne conseguirà.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI MARZO 2016 Consigliato dagli Amici di Filippo

 

E’ in atto nel nostro Paese il realizzarsi di un tipo di populismo del tutto diverso da come il fenomeno è conosciuto e viene analizzato da decenni. Un populismo tanto virulento quanto di carattere istituzionale: ed è qui la peculiarità del fenomeno, il fatto di emergere, a differenza di altre patologie politiche simili, non già dal basso e dall’esterno rispetto al sistema di potere, quanto proprio dal suo interno, dall’alto, dal cuore stesso dell’esecutivo.

Se con il termine populismo intendiamo l’evocazione, in gran parte retorica, di un certo popolo collocato al di fuori delle istituzioni rappresentative e per certi aspetti a esse contrapposto, al nucleo stesso dei suoi rappresentanti, riconfigurati come ‘casta’, secondo l’Autore non v’è dubbio che Matteo Renzi ne interpreti una variante particolarmente originale e aggressiva.

La cifra più schietta del suo modus operandi è al meglio concretata in un’operazione di vera e propria liquidazione di ogni sorta di mediazione istituzionale (cominciando dal Parlamento) e sociale (con il sindacato come obbiettivo dichiarato), il tutto con il preciso scopo di istituire un rapporto diretto con il capo-massa. O, se si vuole, con la stramaledetta figura dell’uomo forte, dell’uomo solo al comando, che pare essere uno stimma ineliminabile dalla politica italiana e dall’anima stessa del popolo che la dovrebbe rappresentare.

Secondo l’Autore tutto si compie a partire dalla sconcertante rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica, evento scaturito (ma certo non generato: le radici di questo fenomeno sono lunghe) dall’indecente vicenda dei 101 del Pd nella loro operazione di vero e proprio killeraggio politico che ebbe come vittima Romano Prodi, più volte tirato per la giacca e sollecitato a lasciare il suo splendido isolamento e ad accettare la candidatura – da considerarsi sicuro viatico per l’elezione al Quirinale. Il libro non ritiene di soffermarsi più che poco sul voltafaccia del quale, roba degna del PCUS ante Gorbaciov, pochissimo si sa e soprattutto nulla si sa dei 101 (cosa che ha dell’incredibile, neanche un pugno di nomi) né dei mandanti di quello sconcio, anche se, a parere di chi scrive, qualche sospetto ci fu fin da subito, con tanto di iniziali – M.R., tanto per non fare nomi.

E’ un fatto, secondo l’Autore, che lungo tutto il 2013, dalla rielezione presidenziale fino alle seconde primarie del Pd nell’arco di poco più di un anno, che portano al trionfo di Renzi, si appalesa la nascita di questo populismo interno alla classe dirigente e ai centri del potere, che segna l’inizio del declino della repubblica parlamentare, a vantaggio di un presidenzialismo di fatto.

Vi è un ulteriore elemento, insieme genetico e consequenziale rispetto a questo populismo ‘dentro e contro’, ed è l’astensionismo, fenomeno descritto dall’Autore già nel corso di quell’anno nel volume “Finale di partito”, che arriva in quel momento elettorale a contare oltre 13 milioni di elettori, una cifra che ha del folle, in una democrazia rappresentativa: e il tutto malgrado quello che è stato definito ‘l’intervento-tampone’ a opera del M5S che aggancia un’imprevedibile percentuale di voti. Come che sia, a fare due conti, quella disperante massa di astensioni dal voto porta quelle elezioni che ancora oggi vedono i rappresentanti da esse usciti a comporre l’organo legislativo, a percentuali di voto indicativo di una opzione politica non distante da quel 50%+1 che, in caso di referendum, ne invaliderebbe il risultato.

Questo nuovo populismo, però, ha prodotto altro: la demagogia fascistoide di Salvini da un lato; dall’altro, l’ossessione della democrazia diretta (almeno nelle intenzioni) incarnata dal Movimento Cinque Stelle, tutt’ora di difficile decifrazione – cosa che manda sistematicamente in confusione il ceto giornalistico politico. La profonda differenza che corre fra queste due forme di populismo, piaccia o meno al Pd e ai suoi corifei, sta nel verticismo assoluto che informa la Lega, che si contrappone ai mille pseudo verticismi del M5S. In estrema sintesi, oggi come oggi la Lega E’ Salvini e Salvini E’ la Lega, mentre pur essendo evidente il peso che esercitano Grillo e Casaleggio su un movimento che ha dell’incredibile nella sua percentuale di voto in un Paese che storicamente ha sempre mosso le percentuali nell’ordine dello zero virgola, la percezione degli elettori o possibili simpatizzanti è che di capi ce ne sono tanti (e, in definitiva, forse nessuno, il che costituisce uno dei motivi della forza elettorale di questo movimento).

Detto ciò, l’Autore rimane, per cos dire, ‘sul pezzo’ e cioè su colui che chiama ‘maleducato di successo’, l’attuale Presidente del Consiglio, che dal suo punto di vista è costretto dal ruolo che si è scelto – o che qualcuno ha scelto per lui – a mantenere un profilo di attacco continuo, fra un sistematico battere i pugni sul tavolo (o bombardare la rete di tweet più simili a flussi di coscienza adolescenziali che non a valutazioni politiche, il che è lo stesso), offendere, tenere comportamenti da bullo, dare sempre sulla voce agli altri: gli viene fatto salvo quello che veniva fatto salvo a Berlusconi e cioè l’obbligo di realizzare le promesse con le quali colora la propria presenza politica. Il che è tratto essenziale del suo stesso essere, e buon per lui – e male per il Paese – prima di tutto perché non ne è capace, dato che manca (lui e tutto il suo entourage) di solida e credibile formazione politica che implica, prima di ogni cosa, la capacità di mediare e poi perché, letteralmente, i mezzi non ci sono, stante la folle (e, alla lunga, deleteria) crescente concentrazione di ricchezza in poche e private mani, a scapito della collettività e del sociale.

Con la dovuta considerazione per la quale il carattere di ‘successo’ della maleducazione a livello politico non è certo copyright dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi: a partire dall’ultimo peone che in un qualsiasi talk show locale o nazionali, interrompe e offende l’interlocutore, con a mente il famosissimo ‘adesso mi sono proprio rotto i coglioni’ di craxiana memoria, passando per il dito medio bossiano e gli insulti berlusconiani ai magistrati, fino ai ‘professoroni’, riferito dall’allora neo ministro Boschi a eminenti figure giuridiche quali Rodotà o Zagrebelsky, risalendo fino al ‘culturame’ scelbiano, bisogna dire che nel nostro Paese l’esibizione linguistica offensiva – ultima, ma certamente non sarà ultima, i ‘gufi’ renziani – ha sempre riscosso un notevole successo, per lo più a discapito del dialogo.

Il quadro che si trare è desolante: un’occupazione pressoché completa dell’intero spazio politico da parte di populismi senza una sinistra antagonista, verticalizzati personalisticamente intorno alla triade Salvini-Grillo-Renzi; marginale a tutto ciò, una residua sinistra senza popolo, magmatica e confusa al punto tale da apparire ininfluente. Ci vorrebbe una sinistra nuova – affermazione tanto condivisibile quanto già sentita una qualche migliaiata di volte in passato: capace, così conclude l’Autore, di affrancarsi dai propri errori, dall’arretratezza culturale, dalla pigrizia politica che l’ammanta, dalla propria ignavia linguistica nonché, forse il tratto più forte e perciò più deleterio, dalla propria astrattezza; il tutto allo scopo di finalmente invertire una direzione – se mai una direzione c’è stata – che ha portato alla mancanza totale di radicamento, proprio nei momenti in cui, nei luoghi della vita (si pensi alla solitudine degli esodati, degli indebitati, degli sfrattati, dei falliti e, sì, dei tanti cittadini che si sono tolti la vita), il sociale entrava in un grave sofferenza, nella quale ancora oggi vive.

Cesare Stradaioli

Marco Revelli – Dentro e Contro, quando il populismo è di governo – Editori Laterza – pagg.133, €14

 

 

 

IL LIBRO DEL MESE DI FEBBRAIO 2016 Consigliato dagli amici di Filippo

Il titolo del libro è provocatorio e il suo contenuto non è da meno: liberarci dalle elezioni come lo conosciamo, cioè essere in qualche modo costretti a scegliere un nome, una persona nota ovvero proposta da altre persone note e già esperte della politica e affidarsi al sorteggio, da tenersi all’interno di un bacino di cittadini scelti – ovviamente dotati di determinate caratteristiche, quali per esempio l’incensuratezza.
Come amava ripetere Lenin, i fatti hanno la testa dura e i fatti, rappresentati da dati oggettivi, in questo senso sono inequivocabili: in tutta Europa i cittadini votano sempre meno, sempre più facilmente si orientano verso movimenti e teorie di carattere populista, quando non apertamente neofascista e, più in generale e in maniera quasi irreversibile, non credono più nella classe politica del proprio Paese.
Che fare?, tanto per rimanere in citazione: non scegliere più con il meccanismo elettorale i componenti del Parlamento nazionale, bensì affidarsi al sorteggio per determinare coloro i quali avranno la responsabilità di scrivere e approvare le leggi dello Stato.
Può, la società contemporanea, fare a meno delle elezioni? L’Autore non si limita alla provocazione, dilungandosi in più parti del testo a esaminare pregi e difetti della democrazia partecipativa, dibattito che nei principali atenei occidentali è in corso da tempo, che sembra avere come principale oggetto la crescente sfiducia, da parte del cittadino, non solo verso questo o quel politico, ma più in generale verso le istituzioni, siano esse politiche – centrali e diffuse – scolastiche, amministrative e così via.
La crisi di legittimità delle rappresentanze nazionali è un dato incontrovertibile e – cosa risalente ormai in termini di decenni – le elezioni per come le conosciamo, per come sono strutturate, appaiono incapaci di offrire una soluzione a questa crisi. Probabilmente perché gli stessi rappresentanti politici si comportano come se si trovassero (e, di fatto, sembrano proprio esserlo) assediati all’interno di una cittadella autoreferenziale, là dove la difesa delle mura e di quanto e di chi si trovi al loro interno viene intesa da loro stessi come difesa della democrazia, mentre dall’esterno ciò viene percepito, per l’appunto, come autodifesa di privilegi e potere acquisiti, per nulla disposti a essere condivisi.
Sbagliato, sbagliatissimo, secondo l’Autore, liquidare il populismo come ‘antipolitica': intellettualmente disonesto, più che altro, dal momento che quanto meno nella base da cui viene riscosso il consenso contro la ‘casta’, ciò che viene richiesto non pare tanto l’uomo forte, il potere come decisionismo che rompa gli equilibri e apra crepe nelle ingessature all’interno delle quali senza dubbio la nostra civiltà e la nostra società sono imprigionate, quanto piuttosto nella ricerca della rappresentanza più precisa, più individuabile, più efficace.
Che, poi, da questo bisogno di partecipazione vi sia chi ne tragga profitto personale, magari per riciclarsi nuovamente nella politica che intenderebbe combattere, questo è discorso diverso: certamente, la socialdemocrazia europea, con i suoi mantra quali ‘there is no alternative’, non aiuta, non coglie l’aspetto positivo e partecipativo di queste richieste, non fosse altro perché un politico deve sempre pensare che un’alternativa ci sia, altrimenti per definizione non è un politico, bensì un affarista, un lobbysta o qualcosa d’altro, ma sicuramente non un politico.
Non può non lasciare perplessi l’opzione sorteggio quale alternativa a un metodo di rappresentanza politica che, vale la pena di ripeterlo perché è cosa che sappiamo tutti, che ci diciamo continuamente, molto semplicemente non funziona, non rappresenta, non coinvolge, non soddisfa. Anche perché, in ultima analisi, quel determinato gruppo di cittadini, fra i quali secondo la tesi dell’Autore dovranno essere sorteggiati i prossimi rappresentanti politici e amministrativi, per il solo fatto di rispondere a determinati requisiti dovrà pure essere selezionato da qualcuno, per poi formare la base del sorteggio e così siamo da capo: chi opera questa prima scelta? Chi determina i requisiti e chi decide questo sì e questo no?
L’esperienza del Movimento Cinque Stelle, in questo senso, è emblematica. L’apertura, in senso più ampio possibile, la libertà di accesso a un gruppo di nomi fra i quali la rete sceglie, volta per volta, questo o quel candidato, offre sì la possibilità di concorrere all’onesto e all’individuo sinceramente portato a essere un buon rappresentante e un amministratore quanto meno decente, ma la offre anche al furbo, all’opportunista, al mandatario di gruppi di potere e di interesse economico quasi mai onesto e anzi, per quanto concerne il nostro Paese, spesso risalente alla criminalità organizzata, il quale opportunista senza alcuna selezione, senza più scuole di partito, senza essere tenuto a dimostrare quale sia la propria cifra di personale politica, bastando unicamente la dichiarata onestà e la certificata incensuratezza, accede al voto in rete (o al sorteggio, se vi fosse, le caratteristiche sono pressoché le stesse) con le stesse probabilità di essere scelto di chiunque altro.
Con buona pace del rinnovamento politico.

Cesare Stradaioli

David Van Reybrouck – Contro le elezioni – Serie Bianca Feltrinelli – , pagg. 135, €14

 

 

Le bugie hanno le gambe corte

Ce l’eravamo chiesto in tanti: ma per quale insondabile motivo la polizia o i servizi segreti de Il Cairo avrebbero avuto interesse a sequestrare, torturare e uccidere un cittadino italiano?

A parte il fatto che nei luoghi ritenuti pericolosi di solito ci vanno di mezzo come bersagli preferiti statunitensi e inglesi, i rapporti politici ed economici fra Italia ed Egitto sono solidi e risalenti nel tempo.
Inoltre, l’Egitto di al Sisi è in prima linea nella lotta contro il Daesh – anche con metodi brutali, va detto fuori dai piatti – dunque si tratta di un capo di Stato che l’ultima cosa che vuole è alienarsi le simpatie e gli appoggi politico-militari delle cancellerie occidentali.
Dunque: perché? Questo giovane corrispondente de ‘Il Manifesto’ dava fastidio? Ficcava il naso in posti dove non doveva andare e aveva visto o sentito cose che non doveva vedere o sentire?
Per favore, i metodi delle polizie di tutto il mondo sono gli stessi e sono vecchi come il cucco: si prende il tizio, gli si da una strapazzata e lo si rimanda a casa con il primo volo. E POI, una volta fuori dal territorio, si sparge la voce a mezzo stampa di regime che si trattava di persona “indesiderata”: contemporaneamente, a livello diplomatico, magari sottotraccia, si intrecciano discorsi di vario livello in modo da chiudere il tutto.
Senza impiantare tutto quel casino che sembra sia stato messo su per poi ucciderlo.
 
La notizia di oggi è che Giulio Regeni lavorava (‘preparava rapporti, analisi e consulenze globali‘) per un qualcosa chiamato “Oxford Analytica”, fondata da un signore che si chiama David Young, già collaboratore di Nixon in una task force che aveva il compito di tappare la bocca alle varie ‘gole profonde’ dello scandalo Watergate: nel consiglio di amministrazione di “Oxford Analytica” siedono sinceri democratici quali John Negroponte – già ambasciatore USA nell’Iraq dopo Saddam, vicesegretario di Stato e direttore della National Intelligence – e Colin MacCall, ex capo dell’MI6, servizio di spionaggio britannico.
Bela gènte, come dicono a Genova – mio nonno romagnolo avrebbe detto bròta zènt, cosa vuol dire una semplice catena montuosa fra due regioni confinanti.
Che Regeni lavorasse per questi signori lo afferma lo stesso Young il quale, a domanda se qualche allocco avesse potuto pensare che Regeni fosse una spia, indovinate cosa ha risposto…
 
Non è neanche da dire che nessuno merita di essere torturato, né ucciso senza regolare processo, meno ancora abbandonato come un cane in una discarica. In questo senso, Regeni merita umana pietà per la tragica e iniqua morte alla quale è andato incontro.
Un po’ meno umana pietà, anzi qualche calcio in culo, meriterebbe “Il Manifesto”, che si è preso come collaboratore una spia di un’agenzia di intelligence privata occidentale. Va bene che anche l’infiltrazione, come i metodi della polizia, è vecchia come il mondo.
Però, come diceva quel vietnamita scambiato per cinese: facciamoci sempre riconoscere, noi di sinistra, per coglioneria e dabbenaggine…
Cesare Stradaioli