Le ceneri vive

Pur amando perdutamente il genere biografico, autobiografico, in senso sia documentaristico che letterario, se ancora è percorribile questa distinzione, con tutti i loro derivati, ivi compresi anniversari, coccodrilli e quant’altro, già…, confesso che di fronte a certe figure totalizzanti, clamorosamente ingombranti, identitariamente irriducibili a ogni tentativo di canonizzazione come, e forse più di qualsiasi altra figura del Novecento, Pier Paolo Pasolini è stato, provo un grande disagio nel consolarmi, nell’immergermi nella memorialistica mediatica dilagante, in questo caso per il quarantennale della sua morte violenta.

Sì, perché Pasolini è ancora una ferita viva nella coscienza e nella cultura di questo incompiuto Paese. Un Paese che come forse da nessun altro intellettuale è stato così disperatamente amato, odiato, radiografato, così lucidamente vivisezionato nelle sue radici, nelle sue tragiche mediocrità, nella sua accecante bellezza. Pasolini è un’incombenza che non ha mai permesso a chi ha a cuore la dignità di una comunità, di una società, di rifugiarsi senza troppa angoscia nell’autoreferenzialità delle buone letture, delle meccaniche trincee oppositive. O meglio, se proprio non ha potuto fermare questo rifugiarsi in cotali gusci ovattati, la sua presenza-incombenza straripante ed acuta non ha però almeno permesso che alcuna autoassolutoria forma di accomodamento rimuovesse il disagio che le sue parole, le sue poesie, le sue definitive arringhe corsare tenevano spietatamente vivo al cospetto di un mondo che negli anni addirittura peggiorava, inesorabilmente. Al netto dei suoi anacronismi già allora, del fatto che va bene, le sue analisi socio-antropologiche già Adorno e la Scuola di Francoforte le avevano teorizzate ben prima, di quella un po’ estetizzante nostalgia per una società contadina irrimediabilmente perduta, al netto, in definitiva, della sua esibita incuria di non mostrarsi per forza più nuovo dei nuovi, è la voce, il suono lucido, metallico delle sue parole che ancora ci inchioda a un passato che non passa, mai. Il suo capolavoro, come ormai col tempo risulta sempre più evidente, non si trova in una singola poesia, romanzo, saggio, film, no; il capolavoro è la sua presenza e persistenza, il suo corpo nervoso e poi violato criminalmente, il suo volto dagli zigomi antichissimi eppure da un incombere modernissimo.

Un uomo che ha capito non filosoficamente, ma esistenzialmente, comunicandolo come mai nessuno prima (e neanche dopo…), che questa falsa modernità mediatica era solo una forma di potere ancor più dispotico per assoggettare ed omologare masse, classi, generazioni a un pensiero unico fintamente liberale. Ma al contempo un uomo che, consapevole come nessuno di ciò, si trasformava in figura mediatica di una modernità clamorosa, mai vista prima almeno da noi. A rivedere le interviste televisive, o i suoi stessi reportage in Italia, in Yemen, in Uganda, si rimane ancora oggi travolti da questa cifra contraddittoria e però a ben vedere sensatissima, ossia da questa attitudine furiosa contro una falsa modernità appiattente e questa magistrale abilità nell’utilizzare i media al soldo di questa stessa truffa, a suo dire, progressista.

Ecco, questo disagio, questa angoscia di non essere mai minimamente all’altezza di una tale, vitale incombenza, mi porta a vivere con una certa vergogna il piacere di ripercorrere in questi giorni di anniversario la sua bruciante testimonianza. Però lui riderebbe di queste masturbazioni cerebrali, o meglio, le demolirebbe con quella micidiale capacità di smascherare qualsiasi esercizio o figura retorica intellettualmente posta ed esistenzialmente ipocrita. Tanto vale allora ricordarlo P.P.P., fottendosene di qualsivoglia preoccupazione di non esserne minimamente all’altezza, del ricordo intendo. Sforzo vano ma mai inutile, per sé stessi almeno.

Per chi sente di dover-voler esserci, allora, buoni film, concerti, reading, dibattiti… Ben consci che Pier Paolo Pasolini ci interrogherà per sempre, definitivamente, come sempre.

Massimo Bran, direttore di Venews

In ricordo

E’ davvero così importante che Pier Paolo Pasolini fosse contrario all’aborto? Che avesse in mente e nel cuore una specie di Arcadia premoderna? Che avesse preso le difese delle forze dell’ordine, scrivendo apprezzamenti non certo lusinghieri dei manifestanti?

Sì, lo è. Perché, al netto di decenni di profili abbozzati e poi lasciati perdere, di servi, chierici e corifei più o meno fedeli, fatta la debita tara di opportunisti, truppe cammellate e presuntuosi coglioncelli che faticano a chiedere un tè con il latte a Chelsea ma poi si peritano di tradurre per qualche casa editrice, a un certo punto bisogna dire che il vero ruolo di quello che una volta si chiamava ‘intellettuale’, il suo compito vero e primo è quello di suscitare dibattiti, discussioni: di seminare dubbi, incertezze, riflessioni e, se del caso, anche contrasti, conflitti, per quanto aspri possano essere.

I paragoni sono spesso poco simpatici, ma talvolta vanno fatti non per diminuire la figura di qualcuno e accrescere quella di qualcun altro, ma per provare a esemplificare, senza scendere nel semplicismo, quali possono essere le differenze. Poi, sta al gusto e alla coscienza di ciascuno.

Così, a un certo punto va detto fuori dai piatti, al gelido e distante Italo Calvino e al dinamico e compiaciuto Umberto Eco (tanto per non fare nomi), io preferisco lo sporco, il ruvido, l’inafferrabile Pasolini. Perché sono belle le lezioni americane, saranno affascinanti i voli pindarici dei visconti, dei baroni e dei cavalieri (qualcuno sostiene in parte rubati a Jorge Luis Borges ma non lo dite a sinistra, che si incazzano), sarà simpatico il compiaciuto farci sapere – ci tiene tanto – quanti libri ha letto filo professore, ma l’inquietudine che ancora adesso, a quaranta anni dalla morte, ci butta addosso il poeta friulano è impagabile. Anche e verrebbe da dire soprattutto quando le sue parole irritano, sconcertano, mettono a disagio. E’ quello che deve fare l’intellettuale: mettere a disagio, prendere a sberle i cervellini fritti dalla televisione, dare al pubblico, al lettore esattamente quello che non si aspetta (lo diceva Frank Zappa della musica, anche se dubito che zio Frank avesse mai letto PPP), perché solo così si mantiene vivo e agile il confronto di idee, il filo rosso del pensiero che non può lasciarci nemmeno per un momento.

Poi, dopo, possono non piacere i suoi film – a chi scrive, mica tanto; si può concordare con Asor Rosa sul giudizio dei suoi primi romanzi; chi vuole, se ha tempo da buttare, può avere qualcosa da ridire sul come vivesse la propria sessualità. Tutto quello che si vuole: ma, in definitiva, basterebbe quel formidabile “Io so i nomi dei responsabili” che scrisse sulle pagine del Corriere della Sera, a dare la cifra di uno dei più grandi agitatori della cultura italiana. Il resto sono chiacchiere e distintivo.

Cesare Stradaioli

IL LIBRO DEL MESE DI NOVEMBRE consigliato dagli Amici di Filippo

E’ una storia ignobile, quella che ci racconta Roberto Curci in questo scritto, che più che un libro è una passeggiata in un museo di fantasmi. Ignobile e pure sbagliata, come suggerisce la seconda di copertina. Ignobile perché la delazione è, per definizione, infame, indegna, sporca ma di quello sporco che non può trovare giustificazione, tutt’al più qualche spiegazione. E sbagliata in quanto che sia un ebreo – ma sarà, poi, stato uno solo? Ci torneremo – a consegnare, in prima persona, altri ebrei alle SS che gestiscono quello che, una delle tante smemoratezze nostrane, è stato un campo di sterminio (non di concentramento, attenzione, non solo), anzi IL campo di sterminio italiano, cioè la Risiera di San Sabba a Trieste, concettualmente non può essere ‘giusto’, se le parole ancora hanno un senso.

Tutto comincia dal titolo, in via San Nicolò 30 nel cuore di Trieste, a due passi da Piazza Unità, dalle Rive e dal Viale (Viale XX Settembre è, per definizione, solo il Viale, tanto quanto Piazza Unità d’Italia è Piazza Unità e tanti basti), un incredibile incrocio storico che nel giro di pochi decenni ha visto vivere e lavorare James Joyce, nascere il primogenito Giorgio, Umberto Poli (poi Saba) nella sua libreria tutt’ora aperta e la sartoria della famiglia Samuele Grini.

Le famiglie Poli e Grini sono imparentate, nella comune radice ebraica e quasi tutti i nomi che si trovano in questa galleria delle tristezze sono ebraici. E tutti costoro, tutte queste persone scomparse, per lo più nei forni della Risiera o partite per i lager in 700 e tornate in poco più di venti, perfino i carnefici scomparsi – e, lo sappiamo, non sono pochi quelli poi riapparsi in Sudamerica o, peggio negli USA al soldo dell’anticomunismo – sono ricondotti a un nome, quello di Mauro Grini, il figlio della dinastia di sarti, il quale denunciò, perseguitò perfino in prima persona, fino a Venezia, fino a Milano, fino a Varese le famiglie di ebrei triestini ai quali promise la salvezza in cambio di denaro e che, per contro, quasi tutti mandò alla morte.

Tale fu l’infamia del Grini, che secondo i documenti ritrovati (“si sono accusati da soli” ebbe a dire nella requisitoria finale il Pubblico Ministero del processo di Norimberga, alludendo alla maniacale cura con la quale veniva registrato tutto), ebbe a denunciare perfino la famiglia; la quale, però, secondo testimonianze pressoché conformi, di fatto proseguì la propria attività all’interno della Risiera, cucendo divise per militari e detenuti e, probabilmente, agendo quasi da kapò, se è vero come è vero che tutti tornarono alla libertà. Tutti, forse, perché del Mauro Grini, condannato a morte in contumacia nel 1947 dalla Corte d’Assise di Trieste, rimasero solo i vestiti ammucchiati in uno stanzone, insieme a quelli degli altri morti, il che può significare due cose: o passò anche lui per il camino della Risiera, condotto a morte dagli stessi aguzzini (evidentemente anche loro odiavano i doppiogiochisti e non se ne fidavano, vista la mala parata), oppure il ritrovamento fu in realtà un abbandono, per dare a intendere una morte che non avvenne. Non in quel momento e non in quel luogo, comunque.

Ma, al di là della cupa vicenda umana di questa famiglia (che a guerra finita tornò in via San Nicolò, a riprendere l’attività di sartoria come se niente fosse stato), che getta non poche ombre sullo scrittore ebreo Umberto Poli – che, diventato Saba non tenne un profilo esattamente cristallino, ma ormai sono passati tanti anni – quello che rimane, che a libro chiuso lascia un senso di sgomento è constatare come, se la delazione è sempre esistita, è altrettanto vero che un tiranno, un macellaio, un programmatore di sterminio è UNO: c’è stato un solo Hitler, un solo Himmler, un solo Goring, un solo Goebbels. Di Grini, di spioni, di forcaioli antisemiti, di volenterosi carnefici di Hitler (dei quali ha scritto Daniel Goldhagen) ce ne sono stati migliaia, forse milioni e non è davvero un bel pensiero da fare, intorno all’umanità, aggettivo o sostantivo che si voglia intendere, quando la moltitudine abbrutita dalla propaganda diventa quella spaventosa bestia chiamata massa. Anche perché, in numero altrettanto uguale se non superiore, si contano coloro i quali alla fine di ogni conflitto (ma noi italiani siamo un po’ specializzati in questo) praticano il chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato scurdammoce ‘l passato, nun ce penzamme ‘cchiù, miserabile e opprimente coperta che tutto nasconde, tutto sbiadisce, tutto dimentica.

Fino al massacro successivo.

 

 

Cesare Stradaioli

Roberto CurciVia San Nicolò 30, Traditori e traditi nella Trieste nazista – il Mulino, pagg. 160, €15

SITI CONSIGLIATI dagli Amici di Filippo

Il primo sito che vi consigliamo è: www.fisicamente.net  un sito di questioni scientifiche e di dibattito politico, creato e diretto da Roberto Renzetti.

 

Altri siti che consigliano Gli Amici Di Filippo:

www.internazionale.it; la prestigiosa rivista che raccoglie articoli da giornali e magazine di tutto il mondo: lo sguardo, come dice la testata, ‘internazionale’.

 

www.keynesblog.com; contiene scritti e documenti di difficile reperimento in rete, spesso ispirati al pensiero di John Maynard Keynes.

 

www.huffingtonpost.it; una testata che raccoglie firme di rilievo in varie lingue.

 

www.aljazeera.com; il principale pregio è quello di raccogliere il punto di vista mediorientale sulla politica internazionale delle grandi potenze.

 

www.remocontro.it; è il sito di Ennio Remondino, noto inviato RAI nei luoghi di guerra, dalla ex Jugoslavia all’Africa, a Israele e Palestina.

 

Non poteva mancare www.bbc.com; la rete televisiva e radiofonica non ha bisogno di spiegazioni e il sito è la diretta emanazione della sua linea editoriale.

 

Infine, portiamo alla vostra attenzione www.abc.net.au; si tratta dell’emittente audiovideo australiana, figlia diretta della BBC per impostazione giornalistica e profilo culturale.

Primi commenti sulla riforma del Parlamento

Il tempo ci dirà quanta e quale vita avrà la riforma del Senato che il governo Renzi ha voluto con tutte le forze. La previsione che pare essere più verosimile è che non passerà del tutto indenne al vaglio della Corte Costituzionale che, prima o poi, sarà investita dal ricorso di qualche magistrato.

Certamente, questa riforma appare fortemente censurabile sotto due profili: quello del metodo e quello del contenuto.

Quanto al primo, non è il caso di spendere più che qualche parola; si tratta, a tutti gli effetti, di una riforma di portata epocale, comportando niente di meno che la fine del cosiddetto ‘bicameralismo perfetto’. In questo senso, dovrebbe essere quanto meno lo scopo principale di chi l’ha voluta, il suo significato si riverbererà nei prossimi decenni, fermo restando l’intervento (più che probabile, come detto) della Corte delle Leggi.

Ebbene, riforme di questa portata, vanno fatte in maniera più condivisa possibile: ovviamente senza pensare all’unanimità, ma certamente con la massima convergenza politica. Oppure, non si fanno. Modificare la Costituzione in un punto così nevralgico non si può fare con pochi, risicati voticini, raccolti qui e là (e in questa sede soprassediamo all’indecorosa compravendita di voti alla quale abbiamo assistito: ci torneremo). Sarebbe l’ABC del diritto pubblico e costituzionale, ma negli ultimi venti anni ci siamo purtroppo abituati a colpi sotto la cintura, con l’arbitro di turno che guarda altrove.

Sotto il secondo profilo, la censura va su quello che par sottendere a questa modifica costituzionale: l’inaccettabile ruolo di supremazia assoluta che avrà l’esecutivo, in totale contrasto con lo spirito della nostra Repubblica, che per il momento è ancora parlamentare. Di più ancora, appare intollerabile quello che si profila in maniera sottile e implicita – ma non per questo meno preoccupante – e cioè il costituirsi di quello che viene chiamato ‘partito della nazione’, un’entità rappresentativa che, nel suo espandersi grazie alla progressiva indistinzione delle istanze di cui è portatrice, appare pensata per coprire un’area politica estesa, di fatto comprensiva perfino di quella che oggi sarebbe o dovrebbe essere di opposizione.

Rischiamo di trovarci a che fare con un’entità rappresentativa (riesce difficile definirla ‘politica’ nel termine più nobile della parola) che, in maniera formalmente democratica, nella sostanza imporrà un dominio pressoché inattaccabile da parte di forze, poteri e istanze tutti compattati attorno a un programma che non potrà mai essere posto in discussione, né trovare una seria e capace opposizione.

Questa, appare essere in definitiva, l’idea di dominio che Matteo Renzi porta avanti da tempo, senza neanche preoccuparsi più di tanto di dissimularlo. Su questo campo Renzi va affrontato, combattuto senza quartiere e sconfitto.

Cesare Stradaioli

Alberto Andrioli su Bergoglio

Dopo l’ultima uscita del papa sui conventi-albergo che devono pagare le tasse sono sempre più convinto che il suo pontificato non durerà molto.
E il prossimo inquilino ripristinerà la portantina e girerà sempre con la mitria.
A.

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Fiammetta Formentini su Filippo

Filippo è stato professore nel mio liceo, il Liceo Unitario Sperimentale, che io ho frequentato per i primi 3 anni dal 1974.
Per chi non lo sapesse il LUS era la sperimentazione della riforma della scuola media superiore. Si basava sul prolungamento dell’obbligo scolastico e pertanto era strutturato in un biennio “unico” seguito da un triennio di indirizzo. Quindi la scelta dell’indirizzo veniva posticipata insieme all’obbligo che si sosteneva dovesse passare da 14 a 16 anni. Altra questione fondamentale era la divisione tra materie obbligatorie e materie opzionali, con la quale si strutturava un programma di studio in parte personalizzato e individuale, fatto di corsi scelti dagli studenti che spaziavano su tutte le materie e gli argomenti che non erano contemplati nei programmi tradizionali o nel corso di studi scelto.
Filippo per anni ha insegnato fotografia. I sui corsi sono stati molto frequentati e apprezzati. Da lì sono nate grandi passioni e future professioni.
Ma lo Sperimentale ha condiviso con le altre scuole degli anni Settanta la passione politica con la grande differenza, io direi, che tale passione è stata vissuta insieme dal corpo insegnante, dagli studenti e dai genitori, assi attivi nella vita e nella gestione di quell’esperienza scolastica. I nostri insegnanti in molti casi non erano poi molto più vecchi degli studenti più anziani, e nelle assemblee gremite e accalorate le voci si mischiavano, si alzavano e si sovrapponevano. Filippo c’era sempre e sempre ha dato il suo contributo.
Il mio ricordo personale è molto preciso, mi ricordo quando mi accoglieva davanti a scuola dicendomi “ecco che è arrivato l’attrezzo”. Aveva ragione, in quegli anni il mio modo di vestire risultava assai particolare, persino nella fantasia che ci accomunava, e un po’ attrezzo lo sono ancora. Questo soprannome lo conservo con grande affetto.
Fiammetta Formentini

Figaro qua, Figaro là…

Mentre nel mondo accadono cose di un certo rilievo – a dirne tre: ci risiamo con i bombardamenti francesi, l’Europa dimostra tutta la sua pochezza a livello politico e sociale e Papa Bergoglio afferma che la figura femminile non è più da considerarsi tentatrice per l’uomo (mettendo così in mora, sul punto, le altre due grandi religioni monoteiste e verrebbe da dire che, delle tre, questa si candida a essere la più significativa) – in Italia assistiamo all’inverecondo mercimonio di seggi parlamentari allo scopo di arrivare con una maggioranza risicata per quanto eterogenea, a una modifica di enorme significato della nostra Costituzione e del nostro sistema politico.

Mettiamo per un attimo da parte la considerazione – che andrebbe,in verità, gridata porta per porta, casa per casa – secondo la quale se la campagna acquisti di senatori da parte del governo Renzi l’avesse fatta Berlusconi (e l’ha fatta, con numeri di gran lunga inferiori), a quest’ora saremmo assordati dalle reazioni della parte di stampa che, in misura nemmeno paragonabile al sostegno che negli anni ’60 avevano i governi a guida DC, in coro e in perfetta intonazione appoggia incondizionatamente l’attuale esecutivo.

Una riforma costituzionale urge, a parere di chi scrive, con maggiore insistenza di tante altre, quella dell’articolo 67 che così recita:

                                           Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione

                                            ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

Ecco, noi aboliremmo la seconda parte di questo articolo, che all’epoca fu pensato e scritto da gentiluomini per altri gentiluomini. In un’epoca che, fino a una ventina di anni fa, contemplava il passaggio da un partito all’altro (o all’entrata in un gruppo misto) come un fatto piuttosto raro; quando, in ogni caso, la compravendita di onorevoli e senatori non si svolgeva, quanto meno nel modo così sfacciato e lurido di adesso; soprattutto quando, nel caso in cui un esecutivo fosse stato sfiduciato dal Parlamento (andare in minoranza, come si usa dire), un momento dopo il Capo del Governo andava a rimettere il proprio mandato nelle mani del Presidente della Repubblica.

L’abolizione della mancanza del vincolo di mandato porterebbe il parlamentare, di fatto, alle dimissioni dalla Camera di appartenenza, per fare posto al primo dei non eletti del suo partito. Ciò darebbe una qualche speranza che il suddetto mandato venisse preso un po’ più sul serio di quanto non lo sia adesso: non ci costringerebbe ad assistere a spettacoli avvilenti (per chi li vede e per i protagonisti che li animano) di parlamentari ben pagati e ben garantiti nel futuro i quali, esclusivamente per propria convenienza, passano da una maggioranza all’altra con la medesima disinvoltura con la quale una passeggiatrice salta da un’automobile di un cliente a quella di un altro. E, cosa maggiormente importante, non darebbe luogo ad approvazioni di leggi fondamentali – o loro modifiche – attraverso accordi di comodo e non con la lungimiranza e onestà politica che richiederebbero.

Cesare Stradaioli

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IL LIBRO DEL MESE DI OTTOBRE consigliato dagli amici di Filippo

Cos’hanno a che vedere i passeri dalla corona bianca del Nord America con un’ipotesi oggetto di studi scientifici tesa alla creazione di un nuovo tipo di soldato? L’uso strategico del tempo di sonno. Quella particolare specie di volatili possiede la capacità di entrare in una vera e propria fase di sonno nel tempo di volo durante le lunghe migrazioni: è esattamente ciò che determinati esperimenti cercano di elaborare in modo tale da poterla introiettare in un essere umano che, durante una lunga fase di operazioni militari, possa essere capace di dormire a comando e rimanere sveglio per un lunghissimo tempo, il tutto senza mai smettere di essere ‘sul campo’.

In questo scritto, l’Autore punta la sua osservazione su una tendenza propria del capitalismo globalizzato la quale intende superare l’idea di indurre le persone a rimanere sveglie, per giungere piuttosto – e la differenza non è di poco conto – a ridurre il bisogno stesso del sonno. In pratica, secondo Jonathan Crary, essendo ormai già da tempo realtà consolidata il sistema di lavoro del mercato 24/7, è necessario che l’essere umano vi si adegui nel più breve tempo possibile.

Il titolo del libro è emblematico e la formula, come spesso avviene, è tutt’altro che casuale e volutamente studiata: perché, si chiede l’Autore, quello che passa lo slogan è 24/7 e non per esempio 24/365? Non sarebbe, in fondo la stessa cosa, cioè il tempo pieno dedicato al lavoro e alla produzione, ivi compreso se possibile il tempo del dormire?

Non è proprio così: 24/7, nell’essere un segmento ridotto rispetto all’intero anno della vita di una persona, è più immediato, più diretto e rende meglio l’idea di efficacia, di efficienza, di continua connessione con il mondo del lavoro. Con la baldanza da esortazione pubblicitaria, il 24/7 proclama l’offerta di una disponibilità assoluta e, di conseguenza, la creazione e la moltiplicazione di nuovo bisogni. Per questo il concetto di giorno/settimana è più invasivo, subito comprensibile e “smart” del tempo giorno/anno, troppo lungo, poco rapido, come troppo lunghe e poco rapide sono diventate le frasi con le quali gli esseri umani che comunicano via email o via sms, che preferiscono il messaggio veloce, asciugato di quante più vocali possibile, abbreviato e perciò stesso più facile e meno impegnativo, da elaborare e da comprendere.

Così, se l’accumulo degli oggetti in qualche modo ha fatto il proprio tempo, o comunque è giunto pericolosamente vicino alla saturazione, il nuovo e per certi versi ineludibile obbiettivo strategico del mercato globale è l’accumulo di servizi, di immagini, di nuove procedure di vita e di lavoro: in questo contesto, le ore dedicate al sonno diventano inutili, passive, una perdita di tempo, del tutto in contrasto con le esigenze del 24/7. E non potendovi estrarre valore economico, nel corso della seconda metà del Ventesimo Secolo è partita una vera e propria campagna di attacco al tempo del sonno e non può essere un caso che gli studi che muovono in tal senso partano da esigenze di carattere militare. L’attacco, poi, diventa frontale – e non potrebbe essere diversamente – a coloro che si oppongono all’ideologia neoliberista che tende a comprimere il tempo del sonno proprio in quanto non produttivo. Non dovremmo stupirci, anzi sarebbe il caso di esserne preparati fin d’ora, nel trovarci un domani a essere accusati di profferire sciocchezze stile New Age e di sognare un ritorno all’Arcadia dei cieli stellati invece che sempre più illuminati e al buon selvaggio, solo perché ci vedremo costretti a difendere il concetto di sonno come naturale collegamento dell’uomo al ciclo naturale giorno-notte.

In fondo, osserva Crary, è la nostra epoca: nella quale basta poco per essere definiti ‘disfattisti’ (e noi italiani, da Berlusconi a oggi, ne sappiamo qualcosa); nel modello di globalizzazione neoliberista, in definitiva, chi dorme non è più semplicemente uno che non prende pesci – la saggezza popolare dei proverbi è ampiamente superata dal nuovo che avanza – ma è un vero e proprio perdente. La differenza è analoga a quella che passa fra una regola di vita e uno stimma sociale.

Ma l’Autore va oltre e ci dice qualcosa di più. Il tentativo di impossessarsi del sonno – o, meglio, di buona parte di esso, non essendo possibile eliminarlo del tutto: perfino la tortura del sonno, portata all’eccesso, ‘rende’ meno di quella fisica, in quanto a differenza del dolore, la privazione del sonno rende le persone allucinate, fa perdere loro il contatto con la realtà e, dunque, meno ‘credibili’ e ‘utili’ le loro ‘confessioni’ – è strettamente connesso all’erosione del welfare e dello Stato sociale. Crary si rifà ad Hobbes il quale, nel suo Leviatano, significativamente osserva come durante il tempo notturno e quindi durante il sonno, si è esposti a pericoli di ogni sorta e si è perciò deboli; va detto di passaggio come non sia un caso che il codice penale italiano, preso a esempio da molti altri, contempli il ‘tempo di notte’ come una specifica aggravante a molti reati, proprio in quanto commessi in tempo di minorata difesa della vittima. Ecco perché, secondo il filosofo ritenuto precursore dello statalismo, una delle primarie funzioni dello Stato è quella di assicurare all’individuo un’adeguata protezione anche semplicemente dalla paura – seppure, come è ovvio, le Guardie notturne dell’epoca fossero organizzate a protezione e tutela prima di tutto delle classi possidenti e delle loro proprietà.

Rimane in quel periodo storico, Crary, per citare l’esempio del cotonificio Arkwright, riprodotto in un celebre dipinto del 1782, visto come il primo e più noto esempio di intromissione dell’architettura industriale nella campagna inglese, caratterizzata dalla presenza della luce che invade il tempo del buio: da qui, il collegamento a recenti studi sulla predisposizione di complicati sistemi di recettori solari, funzionali alla distribuzione e all’irradiazione della luce a qualsiasi ora su qualunque parte del territorio – 24/7, per l’appunto – e in questo senso, la luce è vista come elemento fondamentale del progetto di riduzione delle ore di sonno a tutto vantaggio del lavoro, dell’attività produttiva, dell’essere connessi.

La paura, però, rimane pur sempre la principale arma di condizionamento di massa. L’originale intuizione dell’Autore si sostanzia nell’osservazione secondo la quale l’allucinato presente del 24/7, al di là dell’inconsistenza e dell’astrattezza insita nello slogan che è sotteso ai due numeri, la natura di questa trasformazione della vita sociale, di questa sorta di rimprovero dell’inadeguatezza umana, è teso a provocare la paura: la paura di non essere all’altezza, di non produrre e consumare a sufficienza, di rimanere indietro nella vita economica e, perciò stesso, in quella sociale.

Le conseguenze non sono ancora pienamente valutabili ma, ammonisce Crary, appare ragionevolmente certo che il 24/7 finirebbe per costituire un sistematico annullamento delle più diverse forme di socialità per come le conosciamo, come ad esempio il momento del pasto, una conversazione, una lezione scolastica: in definitiva, il progressivo annullamento della memoria sociale.

Tutto questo, però, non potrebbe avere luogo, non potrebbe fare presa nella coscienza del singolo e della massa senza l’inevitabile corredo di un dibattito fuorviante e sostanzialmente menzognero, all’interno del quale fra gli altri troviamo il mantra del cosiddetto ‘passaggio epocale’, marchio che funziona per qualunque propaganda, che rende ineluttabile un adattamento – che ineluttabile non è – individuale e collettivo.

Tale falsificazione permette di ammantare questa, come tante altre operazioni di condizionamento sociale, di un carattere di inevitabilità da accettare senza condizioni, staremmo per dire in quanto storicamente necessaria. E non per nulla concetti come inevitabile, ineluttabile, epocale, si accompagnano da tempo all’altro micidiale refrain “non c’è alternativa” – che ci ricorda sinistramente il suo figlio bastardo “ce lo chiede l’Europa” – con il quale vengono fatte passare nel pensiero e nella vita occidentale decisioni e scelte politiche ed economiche per loro stessa natura inaccettabili e tuttavia tenute in piedi da quella parola d’ordine che rappresenta, a tutti gli effetti, l’esatto contrario del nobile concetto di politica, per la quale c’è sempre un’alternativa a qualsiasi opzione od orientamento, pena la perdita di significato e di valore della politica stessa come mediazione, ricerca ed evoluzione del pensiero.

La chiusura del saggio di Jonathan Crary non è, però, priva di prospettive. La persistenza anomala del sonno va compresa in riferimento all’incessante distruzione dei processi che rendono possibile la vita sul pianeta. L’inerzia ristoratrice del sonno contrasta la spinta mortale verso l’accumulazione, la finanziarizzazione e lo spreco che hanno devastato molto di quanto un tempo era oggetto di condivisione e in questo senso va difesa, senza discussione, come principio di democrazia, di partecipazione, di presenza dell’uomo come padrone e decisore della propria vita. Se, come scrive Wolfgang Streeck, il capitalismo morirà di autofagia, forse la difesa e il recupero del sonno saranno parte del rifiuto del terribile peso della nostra epoca globale.

Cesare Stradaioli

Jonathan Crary – 24/7 Il capitalismo all’attacco del sonno – Einaudi I Maverick, pagg. 134, €18

 

 

 

 

 

 

Basta con le rincorse a destra

Non conosco il programma politico di Viktor Orbàn: né credo sia particolarmente interessante accertare se questo galantuomo che nel terzo millennio sta ancora a parlare di purezza della razza (non esiste una razza ungherese, questo è certo), sia o meno un fascista.

Non è escluso che non lo sia, anche se i metodi darebbero una certa indicazione in proposito: anzi, più che fascista, sommando il muro ai treni chiusi, azzarderei nazionalsocialista, ma non è questo il punto. Perché il signor Orbàn potrebbe anche essere semplicemente un populista di destra, e magari in tempi passati (e forse anche adesso), il fascismo o non gli piace o non lo convince: ma se il suo programma elettorale, quale che fosse o potesse essere all’inizio, gli ha preso la mano e lo ha portato – o altri l’hanno fatto – a seguire i peggiori reflui di una nazione, a prestare orecchio e promesse alla schiuma della società magiara, è piuttosto comprensibile che, giunto alla guida dell’Ungheria, egli non solo non possa fare marcia indietro, ma sia costretto ad andare a tutta manetta. Per mantenere quello che ha scelleratamente promesso.

Se non lo facesse, il rischio di perdere consensi e, di conseguenza, perdere la guida del Paese – con tutto quello che ne deriva anche per la sua compagine governativa e chi l’ha messa lì: leggasi trattati commerciali, commesse militari, contratti sull’energia, prebende personali e tutto quanto possa avere come unico limite la fantasia – diverrebbe concreto e attuale.

Tutto questo per voler rimarcare quanto sia politicamente azzardato – oltre che moralmente vergognoso – inseguire la destra, specie quella più becera, alla ricerca di consenso facile e a buon mercato, alimentato dalla paura dell’immigrato, dalla delinquenza che si ritiene viene da esclusivamente da fuori, dal terrore di svegliarsi un mattino e perdere il posto di lavoro e incubi del genere.

Naturalmente il mio pensiero va alla sinistra, che di quello che fa la destra – con buona pace di Cacciari e di tutti quelli che vorrebbero una destra seria in Italia; io ho qualche anno meno di Cacciari e di destra al potere in vita mia ne ho vista anche troppa e non ne sento la mancanza – me ne importa assai poco; penso alla sinistra, che sempre più spesso viene tentata, in Italia e in Europa, dal correre casa per casa attraverso la televisione, a raccogliere le grida più becere, le istanze più retrive, indegne di un cittadino normale, di un qualsiasi cattolico, non dico neanche di un ateo, che onestamente creda in un dio compassionevole.

E a coloro che a sinistra, giorno dopo giorno, ci provano a raccogliere consensi facendo, come ‘o malamente della sceneggiata napoletana, ‘a faccia cchiù feroce, giocando a Law & Order, vorrei dire: lasciatelo fare alla destra razzista, xenofoba e antisociale, a quella che se sei nato povero, beh vedi di rinascere ricco nella prossima vita, lasciatelo fare a quelli che invocano il dio Po e che vogliono affabulare la gente comune, brava gente, onesti lavoratori, terrorizzandoli, promettendo loro che qualsiasi cosa accada al mondo, il loro cortiletto, il loro piccolo comune, il condominio, non sarà attinto da niente che possa turbare la quiete delle loro vite.

Che il diverso è diverso proprio perché non è come loro, che il ponte levatoio è meglio alzarlo che tenerlo abbassato, che non si sa mai; che, di fatto, promettono di essere i paladini e le guardie armate di un Medioevo prossimo venturo, che evoca la sicurezza del castello assediato e che produrrà solo disperazione e povertà morale, prima che economica: una minestra per casa si trova sempre, una mano per il negro, per il profugo, è già un tantino più difficile e poi costa soldi.

Loro, quella destra, lo sanno fare meglio di voi, hanno molto più pelo nello stomaco di quanto ne avrete (ne avremo tutti noi di sinistra e solo un povero di spirito può pensare che sia un’offesa) e, soprattutto, di farsi trascinare nella deriva furiosa e antistorica dei muri e delle scritte sulle mani con i pennarelli, di dimenticarsi eventuali programmi di governo più umani o meno disumani, insomma di tradire le promesse e di lanciarsi a fari spenti nella notte della ragione a duecento all’ora, non gliene può fregare de meno.

Anche perché, poi, non saranno loro a schiantarsi: sarà la coscienza di una società non più civile e lo scarso spirito di un’Europa sempre più serva della finanza.

Cesare Stradaioli