IL LIBRO DEL MESE DI SETTEMBRE consigliato dagli amici di Filippo

Secondo Oswald Spengler, tutte le grandi civiltà sono civiltà cittadine, in quanto fondate su principi di organizzazione sociale. L’arte di cui parla l’Autore, riferita al fenomeno sociale denominato città, è il prodotto della comunità e dei singoli, degli architetti, degli artisti: dei semplici cittadini e di coloro che li rappresentano.

L’arte della città come poetica dello spazio abitato, là dove come poetica si intende l’atto stesso di abitare la terra.

Ora, nella nostra percezione, vi sono città ‘cinematografiche’, cioè evocative di arte visiva, quali New York, Hong Kong, Tokyo, Londra; altre, invece ispirano riflessioni artistiche di taglio letterario o pittorico, come Venezia, Parigi, Madrid, Amsterdam. Ma, al di là dell’aspetto più strettamente evocativo, l’arte della città contempla anche città che l’occhio umano misura in altezza, quali Bologna o Venezia, mentre ve ne sono altre che si sviluppano in senso orizzontale e, in questo senso, Roma è esemplare.

A proposito di ciò, l’Autore si domanda se abbia ancora un senso parlare di bellezza, con particolare riferimento al concetto di città – nelle quali, a quanto sembra, verso il 2030 (praticamente dopodomani), vivrà circa il 60% della popolazione mondiale – nell’epoca della globalizzazione. Cioè, a dire: esiste ancora un’arte della città?

Se nel corso degli ultimi decenni le città sono diventate il simbolo del predominio esercitato dal capitale e dall’economia, a scapito della loro vivibilità – e, sotto questo aspetto, niente rappresenta questo scenario meglio dello svuotamento dei centri storici – ecco che l’Autore suggerisce, quasi ordina agli architetti quello che lui chiama ‘piano di responsabilità’, esortandoli a dare una forma leggibile alle loro opere e a controllare il peso stesso delle forme sviluppate.

In quanto atto politico, insiste Milani – docente di Estetica a Bologna – la pianificazione dell’edilizia urbana più che creare spazi, deve creare luoghi: gli abitanti devono ‘abitare’ la città (sembrerebbe un’ovvietà, ma tutto dimostra che non lo è), le quali devono tornare a essere plasmate sull’esperienza umana e non essere più esclusivamente funzionali allo sviluppo finanziario.

In altre parole, l’ordine della città non deve essere di tipo newtoniano, associato al concetto di piano regolatore, quanto piuttosto ispirato al fatto che la sua sopravvivenza ha un senso se i cittadini possono vedere soddisfatta la loro necessità di libertà estetica, strettamente connessa a legami collettivi – fra le persone, non fra le cose.

L’alternativa saranno da un lato il centro città deputato alla finanza, frenetico e asettico di giorno, morto e moralmente sporco di notte e nei week end; dall’altro il ghetto metropolitano e il dormitorio delle periferie, mentre si diffondono le terrificanti agorà moderne, i centri commerciali, abitati dall’uomo moderno che, come quello antico, ha bisogno di socialità: che non può, non deve essere vissuta fra gli scaffali di sconti speciali, attraversati di corsa alla guida dei carrelli della spesa.

E non saranno una manciata di giardini, di zone verdi, di alberi, di oasi artificialmente ficcati a forza in mezzo o in cima alle case, a rendere la città migliore di com’è diventata: solamente, conclude Milani – verrebbe da dire pessimista nell’intelligenza e ottimista nella volontà – un nuovo modo di pensare la città, che ridiventi luogo dell’uomo e non delle merci, può cambiare le cose. Proprio perché atto squisitamente politico, spetta a ognuno di noi pensarlo, volerlo, decidere che sia messo in atto.

Cesare Stradaioli

Raffaele Milani – L’arte della città – Il Mulino Saggi, pagine 163, €18

Renzi e la destra amica

E’ significativa l’attestazione di stima per Renzi da parte del neo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. Non è il primo – e non sarà certamente l’ultimo – rappresentante politico oppure semplice elettore di centrodestra a indicare il Presidente del Consiglio e Segretario e del PD come figura di affinità politica, di voto (anche contingente) se non addirittura di riferimento. Si potrebbe dire che, al termine della sua parabola, l’antiberlusconismo abbia prodotto solo l’anti Berlusconi. Tutto quello che è sortito da venti e più anni di opposizione al dominio governativo politico-televisivo non è altro che la messa fuori gioco di colui il quale ha incarnato la fine della maggioranza silenziosa, da lungo tempo estremamente e variegatamente rumorosa: ma la fibra di quel dominio è rimasta intatta e ora è incarnata per l’appunto da Renzi, il primogenito che spodesta il padre. Vero figlio di Berlusconi in mezzo a tanti figli spuri, è stato scelto (un giorno sapremo esattamente da chi) per uccidere il padre al fine di proseguire nel suo disegno, il compattare l’elettorato in una forte, centrale formazione politica, che comunemente viene definito ‘partito della nazione’.

Come il sindaco di Venezia, quanti di noi conoscono – se non ne sono addirittura amici – persone di genuina fede reazionaria, comunque di destra, che a un certo punto fra il 2012 e il 2013 hanno detto “se passa la figura di Renzi io voto PD”? Tanti, direi: diversamente non sarebbe spiegabile nel nostro Paese, caratterizzato da un elettorato molto poco mobile, un inaudito, storico – e fasullo, alla fine dei conti e per forza di cose – spostamento di voti che alle Europee dello scorso anno ha portato il PD al 41%, percentuale inusitata. Il motivo è presto detto e secondo me ha un tratto di base che dovrebbe davvero fare riflettere: l’elettore conservatore, di destra, centro-destra chiamatelo come volete, ha le idee estremamente chiare.

In quanto poche, definite e immediate, è piuttosto agevole per un partito, per un rappresentante politico, soddisfare le sue esigenze o, almeno, dare la chiara idea di capirle e sposarle.

L’elettore di destra, a differenza dell’elettore standard di sinistra – o, peggio ancora, di centrosinistra – è concreto, va direttamente al punto e sceglie chi al punto direttamente va. Ci sarà un motivo per cui, storicamente, la sinistra tende alla divisione mentre la destra, sostanzialmente, rimane compatta, magari in presenza di conflitti interni (politici e personali) perfino più sanguinosi.

L’elettore di sinistra non si accontenta, vuole capire, spacca il capello in quattro, sogna, desidera; ma, allo stesso tempo, soffre di solitudine e pertanto vuole condividere, detesta scontentare, non è convinto dal 51% – mentre quello di destra si ‘accontenta’ del 40% e mena fendenti – auspica a parole lo scontro ma poi, nei fatti, lo teme e tutto perché l’assumere responsabilità di governo, sia locale sia nazionale, implica per forza di cose il rude e difficile esercizio della maggioranza, del potere e della forza politica e qui si gioca spesso ogni singolo contrasto sulla leadership.

Anche per questo, l’elettorato di sinistra/centrosinistra brucia i propri rappresentanti: per scarsa determinazione, direttamente proporzionale all’onestà della singola persona, per un’endemica carenza di realismo, probabilmente – ma qui sarebbe necessaria una seria analisi psichiatrica – per un mai risolto senso di ripulsa nei confronti dell’esercizio dell’autorità. Se ne possono dire mille.

Sta di fatto che il motivo per cui Brugnaro, l’amico, il conoscente, che da sempre identifichiamo per quello che sono, persone di centrodestra, spesso lontanissime da qualsiasi idea di sinistra, simpatizzano per Renzi e magari lo votano è quello: lui dà loro – o almeno promette di farlo, tutto sta a quanto è lungo il guinzaglio che ha al collo – quello che loro vogliono, poche cose, dirette, immediate e concrete.

Su quanto, nello specifico, questa immediatezza, questa concretezza siano di sinistra, ognuno faccia i conti con la propria coscienza e con la propria esperienza politica e di vita e poi decida.

Cesare Stradaioli

 

Noi e la UE

E’ di oggi la notizia secondo la quale, in riforma del Codice della Strada, i minorenni potranno salire in due su un motorino.

E’ l’ennesima versione del refrain “Ce lo chiede l’Europa”, una delle più grandi bufale della storia dell’informazione. Pare, però, che stavolta sia vero, cioè la riforma verrà introdotta in applicazione a precise direttive europee: in mancanza, scatterebbe la famigerata ‘procedura di infrazione.

Qualcuno ricorderà un vecchissimo film di Woody Allen: “Il dittatore dello stato libero di Bananas”. Verso la fine, il dittatore di una non meglio specificata isola del Caribe – l’uomo veste militare e porta una fluente barba, provate a indovinare – decide di imporre al suo popolo due modifiche: dal giorno dopo la lingua ufficiale di Bananas sarà lo svedese e i cittadini saranno obbligati a cambiare la biancheria intima ogni trenta minuti: per facilitare i controlli, essa dovrà essere portata sopra i pantaloni.

Ora, poiché trovo la modifica al Codice della Strada 1) pericolosa; 2) idiota; 3) da incoscienti e considerato che le due modifiche previste nel film per lo stato di Bananas non sembravano foriere di un maggior numero di morti, feriti e para/tetraplegici – sono aperte le scommesse su quanti saranno nel giro dei prossimi dieci anni – personalmente le ritengo meno pericolose, un pochino meno idiote e quasi per nulla da incoscienti.

Qualcuno sarà anche populista, nel detestare la UE, ma certo che l’allegra combriccola europea non sembra esprimere particolari sforzi per farsi apprezzare.

Cesare Stradaioli

madri & figli

Sono rimasto basito anch’io dai fatti e dalle affermazioni.
Non sarà poi mai troppo presto che i magistrati, fra l’altro, smettano di rilasciare dichiarazioni.
Sembra quasi che tutto sia costruito per dimostrare che una coppia etero non è una garanzia di buon allevamento della prole.
Come se non lo si sapesse già…..
Sir Peter
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Madri e figli

Due amare parole sulla questione della sottrazione del neonato alla tipa che  ha sfigurato con l’acido più di qualche essere umano.
Con questo atto mi sembra che la nostra società abbia umanamente sfigurato sé stessa in maniera ben più grave di quanto abbia fatto la suddetta con altri individui. Strappare un neonato dal grembo della madre in quel modo chiunque essa sia fa parte di pratiche che forse l’Is potrebbe sentire sue.. Trovo allucinante che la reazione sia così blanda. Credo che un modo per salvaguardare il neonato tenendolo nei modi opportuni e “controllati” accanto a sua madre ci fosse eccome, non scherziamo. Per me una barbarie totale. Ma il bello (…) viene dalla motivazione che giustifica un intervento anche nei modi e nei tempi così drastico:

da repubblica.it
“La stessa Fiorillo ha spiegato di aver adottato “provvedimenti urgenti e di prassi” come la separazione del piccolo dalla madre affinché i giudici dei minori possano  “prendere le loro decisioni nell’assenza di condizionamenti derivanti da aspettative” da parte delle persone coinvolte. Il suo intervento serviva per “cristallizzare” la situazione in quanto il piccolo è nato il 15 di agosto. “Se fosse nato un giorno prima o due giorni dopo (con gli uffici giudiziari in funzione, ndr) tutto sarebbe stato meno gravoso”, ha osservato il magistrato, perché i giudici “avrebbero potuto esaminare la situazione in modo tempestivo” e ad occuparsene, inoltre, sarebbe stato il pm dei minori già titolare del fascicolo e non invece quello di turno che ha dovuto adottare provvedimenti “d’urgenza”.

Insomma in Italia il sacro Ferragosto determina le sorti di un trauma così clamoroso. Ammetto di essere nonostante tutto ancora una volta sorpreso da questo Paese senza vergogna.

 

Massimo Bran

IL LIBRO DEL MESE DI AGOSTO consigliato dagli amici di Filippo

Rispetto e spettacolo sono i primi termini fondamentali di cui tratta Byung-Chul Han, nel suo ultimo saggio, un libriccino fatto di frasi secche, brevi, alle volte anche un po’ ansiogene. Ovvero, distogliere lo sguardo, il pathos della distanza da un lato e la mancanza di distanza, cioè puntare lo sguardo, verso cose e persone dall’altro.

La terza parola è shitstorm, letteralmente ‘tempesta di merda’, che l’Autore in nota riporta come termine inglese che indica il fenomeno in rete fatto di discussione acritica, con linguaggio fortemente connotato in senso negativo e talvolta violento: tale è stata ritenuta la sua efficacia da essere dichiarato in Germania, nel 2012, ‘anglicismo dell’anno’ da una commissione di linguisti (Byung-Chul Han vive e insegna a Berlino), in quanto vocabolo straniero rivelatosi utile per la lingua tedesca.

Così prende le mosse il lavoro del filosofo di origine coreana che spara a palle incatenate e ad alzo zero contro la cultura del digitale, le sue storture, le deformazioni che porta nelle nostre vite. A dire il vero, proprio in conseguenza del mutato quadro sociale di relazioni personali indotto dall’avvento di internet, Byung-Chul Han ne ha anche per Toni Negri che, secondo lui, nell’elaborazione del concetto di Impero conseguente alla globalizzazione, sembra non rendersi conto (o non volerlo fare) del mutamento non solo dei linguaggi che dalla rete tracimano nella società, ma anche delle stratificazioni classiste. Andando oltre – ma qui ci devono essere, dietro le quinte, non risolti screzi interpersonali – l’Autore per qualche riga si avventura nell’analisi socio-economica che non pare essere il suo piatto forte, ma sul punto la cosa finisce lì.

Ben vengano, come che sia – ed era ora – analisi come questa, impietose, fredde, schematiche se si vuole, ma chiare e precise, per quanto il distacco da entomologo che impregna tutto il lavoro consenta di provare sincera sofferenza per un mondo che non riconosciamo più, noi over cinquanta e non ancora (e, forse, mai) tutti gli altri al di sotto.

Rispetto per le persone e le cose, si diceva; per converso, la mancanza di profondità di pensiero e di analisi; la riduzione al minimo delle distanze virtuali e l’allargarsi di un fossato fra quelle reali e, dunque, assenza del confronto con la negatività, che pure deve essere parte integrante della crescita personale di ognuno e che non di meno è componente essenziale e naturale del mondo che ci circonda in genere e dei nostri interlocutori nel particolare; azzeramento totale del livello di critica, simboleggiato dalla malefica, esangue alternativa obbligata “mi piace”/”non mi piace” che nella sua semplicità, nella sua sintesi rappresenta una sorta di regressione all’animalità di base, alla pulsione fisica – del tutto paragonabile, nella sua connotazione puramente istintiva e priva di memoria di vita, a un “mamma, cacca!”, che però è, ovviamente, più pertinente a esseri umani che di esperienza di vita cosciente non sono che agli inizi.

Perfino l’ira, secondo l’Autore, è elemento costruttivo a paragone dell’indignazione digitale, che in quanto fatta di scambi veloci, sintetici, di facile stesura e che non richiedono elaborazione, non è capace di narrazione, essendo uno stato puramente statico, anaffettivo, dispersivo; là dove l’ira è, per definizione (Ira, Menin, è la prima parola dell’Iliade) è furore, è affettività, è capacità di rottura di uno stato precedente per dare vita a uno nuovo.

Lo sciame del titolo, appare dunque non essere altro che una massa indefinita di persone, che sono per l’appunto solo massa e non folla. Cioè una somma di singole individualità che tanto piaceva alla Thatcher e ai suoi epigoni liberisti (ma anche a Matteo Renzi, pare, se è arrivato a dire che è ora di finirla con la società civile per fare posto alla meritocrazia) contrapposta ideologicamente – allora: adesso solo come riflesso pavloviano – a un insieme di persone che rappresentano più istanze, più indirizzi di pensieri, a volte in conflitto fra loro, ma comunque accomunate da una volontà di cambiamento e qui ci mette in guardia Byung-Chul Han: siamo realisti e bisogna prendere atto della realtà che ci circonda, ma non si può e non si deve guardare da un’altra parte.

In questo senso la deriva disumanizzante non merita il rispetto del volgere lo sguardo altrove, ma va osservata e, per quanto possibile, combattuta. E dove non ce lo dice esplicitamente l’Autore, lo consideri ognuno di noi: perché insomma, come scriveva Alfred Doblin, nessun re, nessun tribuno, nessun eroe ci può liberare, se non siamo noi i primi a volerlo essere, liberi. Liberi non solo di stare dieci ore seduti davanti a uno schermo, a introitare informazione in luogo di cultura, positività a tutti i costi invece di critica, ma di provare a rompere lo schema di un mondo che, come scriveva qualcuno di recente, se non piace a noi che l’abbiamo fatto, per quale motivo dovrebbe piacere ai giovani, che della sua costruzione non hanno alcuna responsabilità e che preferiscono stonarsi in discoteca?

Cesare Stradaioli

Byung-Chul Han – Nello sciame. Visioni del digitale – Nottetempo, 105 pagine, €12

‘All’armi, siam modernizzatori!’

Qualche riflessione sulla legge cosiddetta di riforma della Pubblica Amministrazione, approvata ieri da quello che il Presidente del Consiglio ha definito “il Parlamento più produttivo dal 1948 a oggi.” Ora, è vero che siamo nel terzo millennio, che le chiacchiere vanno a un tanto al chilo e che esiste la libertà di espressione: qualcuno, però, come ripeteva Filippo Ottone, se ne approfitta.

A parte il fatto che le riforme si valutano e non si pesano e neppure si contano (affermazione condivisibilissima, sentita ieri sera da Rosy Bindi, una dc … doc … se è consentito il gioco di parole e per piacere guardate come siamo messi se dobbiamo rifarci alla Bindi), a parte il fatto che anche De Gasperi avrebbe prodotto leggi a nastro se avesse avuto un partito di sinistra compiacente e supino – e non aveva la maggioranza parlamentare di Renzi – credo sia indispensabile uno studio attento della riforma. Ovviamente la cosa richiederà tempo e collaborazione, ma fin d’ora si possono fare due riflessioni, una stringata e una un po’ più articolata.

Quella stringata concerne l’abolizione del corpo delle Guardie Forestali i cui appartenenti confluiranno, a quanto sembra, nell’Arma dei Carabinieri. Cioè a dire che un certo numero di dipendenti statali, civili, saranno inquadrati all’interno del Ministero della Difesa, con tutto quanto ne consegue a livello disciplinare e gerarchico. C’è da chiedersi se i brillanti promotori e sostenitori di questa riforma abbiano valutato con attenzione e consapevolezza le ricadute di un simile cambiamento. Se la cosa vi pare di poco conto, e per di più da decidere il 4 di agosto…

La seconda riflessione riguarda il famoso e famigerato silenzio-assenso: uno dei tanti argomenti che, all’interno del Diritto Amministrativo, avvelenavano la vita degli studenti di Giurisprudenza che si apprestavano a sostenere l’omonimo esame. La vulgata – tipicamente renziano-marinettiana – è sempre la stessa: morte alla burocrazia, l’Italia risorge, fine dei lacci e laccetti, più libertà per il cittadino e le aziende, il Paese riparte, abbasso i disfattisti, i vecchi, quelli con la digestione laboriosissima. Mancano l’odore della benzina e la Nike di Samotracia e poi la saldatura è completa.

E’ noto come per determinate persone – il sottoscritto è una di queste – il solo sentire nominare la parola ‘libertà’ provochi reazioni alle volte sconsiderate, a dispetto delle rispettive età non più giovanissime: non è colpa nostra se il termine è stato, nei decenni, sputtanato dai peggiori mascalzoni che hanno ammorbato la vita, l’economia e la politica del nostro Paese e in genere dell’Occidente, ma tant’è. Tutto bello. Il cittadino o l’azienda si rivolge alla P.A. e nel giro di 90 giorni o questa risponde oppure c’è il semaforo verde. E sta proprio qui il problema, perché il silenzio assenso varrà per materie di importanza fondamentale quali la cultura o il paesaggio.

Perché il sospetto – e in Italia abbiamo non il diritto, IL DOVERE di essere sospettosi – è che questo sia un via libera per ulteriori, più gravi e definitivi scempi. Bastano 90 giorni per verificare se dietro quell’azienda che intende edificare un centro di dialisi, o potenziare un centro multiospedaliero tramite la costruzioni di nuovi reparti, vi siano delle brave persone oppure delle teste di legno della criminalità organizzata? Bastano 90 giorni per controllare se quel megafinanziamento al Colosseo o alla Torre di Pisa siano congrui e opportuni oppure se dietro non ci siano interessi multilaterali di dubbia moralità?

Le domande sono, evidentemente, retoriche: certo che no.

Ma il punto è che gli italiani per decenni sono stati afflitti dalla burocrazia in maniera talmente profonda e prolungata che qualsiasi provvedimento dia anche solo l’impressione di sveltire e modernizzare la vita del Paese viene accolta come benefica. E c’è chi si approfitta di questo malessere, come della libertà di espressione, e ne fa uso particolare, che finisce con l’essere privato e non pubblico.

E’ chiaro che la burocrazia esiste; chi non vorrebbe un’amministrazione più agile, produttiva, maggiormente al servizio del cittadino e dello Stato – e meno corrotta, aggiungerei, visto che di corruzione la compagine esecutiva non parla neanche se gli si pinzano le parti intime con degli elettrodi?

Il sospetto è che lo stato in cui è ridotta la P.A. non consentirà pressoché mai di operare verifiche, se fatte con criterio e professionalità e che, di conseguenza, una valanga di progetti andranno in porto senza il dovuto vaglio che una seria ed efficiente amministrazione ha il dovere istituzionale di compiere. E il tutto, questa è la cosa peggiore, in nome della modernizzazione.

Il sospetto – e la finiamo qui, per ora, ma la riprendiamo – è che sotto l’usbergo della sburocratizzazione (come sotto quello della libertà) si celino interessi direttamente attinenti al vero centro di potere politico ed economico del nostro Paese, la criminalità organizzata, che si serve di ignari portavoce (diamo loro il beneficio dell’onestà, sia pure sotto condizionale) quali il ministro Guidi, il ministro Poletti e altri – il ministro Madia neanche lo menzioniamo essendo, come il Ministro Orlando, una pura entità ipotetica, considerato il peso politico e personale – per perseguire specifici e criminali fini, cavalcando il malcontento e la stanchezza di milioni di persone che la Storia ci insegna, sistematicamente ma a quanto sembra nessuno impara, essere il carburante politico delle peggiori svolte epocali.

Cesare Stradaioli

Cesare Stradaioli sull’Europa

Purtroppo – o per fortuna: personalmente tenderei alla prima che ho scritto – l’idiozia e la disumanità, quando vengono praticate su larga scala, possono anche avere risvolti comici.

A Mentone, la Francia impedisce l’accesso sul proprio suolo di alcuni migranti provenienti dall’Italia: a Calais, impedisce che altri, intenzionati ad andare in UK, ne escano.

I trafficanti di uomini penseranno al trasporto aereo: l’ingresso in UE potrebbe avvenire mediante lancio col paracadute e a quel punto, una volta dentro, i migranti non dovrebbero fare altro che cercare di uscire dai confini dello Stato in cui sono atterrati e verrebbero prontamente trattenuti. Col vantaggio ulteriore di vanificare la proposta di Salvini e dei suoi eurocomparielli di rimetterli su un barcone che non c’è. 

L’Europa è una cosa meravigliosa e verrebbe da dire, parafrasando un po’ il detto, che se non ci fosse… sarebbe meglio.

Cesare Stradaioli sull’euro

Si può dire che non passi settimana senza che Paul Krugman spari la sua consueta bordata a palle incatenate e ad alzo zero contro la moneta unica e i suoi ideatori e promotori. Ormai l’euro pare essere scaricato da quasi tutti: sulla stampa, in parte anche quella specializzata, viene trattato come un parente importuno del quale, però, liberarsi è impossibile e tocca sopportarlo quando occupa il bagno, detiene il telecomando dell’unica tv di casa o quando, più frequentemente, affligge la famiglia con le sua innumerevoli magagne. E’ partito il ballo mascherato delle celebrità, nel corso del quale lo scaricabarile vedrà il palleggiarsi le responsabilità – vere e presunte – dei danni provocati da questa valuta realmente non amata da nessuno.

Krugman, come sanno anche i sassi, è stato insignito del Premio Nobel per l’Economia – che ogni anno viene invariabilmente dato a un americano, più o meno con gli stessi criteri con i quali potrebbe essere assegnato il Nobel al miglior gondoliere, il quale può essere di qualsiasi nazionalità purché si chiami Sambo, Vianello o Scarpa e sia veneziano di Cannaregio da quattro generazioni. E’ molto simpatico, affabile, inesorabilmente piacione (fino qualche anno fa, assomigliava a George Clooney, il che non guasta MAI); a dire il vero, i suoi articoli sono, come dire, spigliati, anche un po’ troppo, molto easy, scorrevoli, starei per dire atletici, il che pare che presti il fianco a più di una critica in punto di precisione, serietà nei giudizi e attendibilità nelle cose di cui scrive e che afferma in maniera alquanto diretta.

Per sovrappiù, ma è una cosa che chi scrive condivide con una conventicola di fanatici scelti, è per l’appunto americano e va detto che ogni qual volta un politico o un economista USA prende la parola, specie quando si esprime a favore di questo o quel popolo, la mano corre verso la Colt (tipico dei fanatici il rifarsi a cose, gesti o abitudini di chi si detesta). Per principio e per riflesso condizionato.

Detto tutto ciò e fatta alla pubblicistica del Nostro la dovuta tara, operazione che, però, andrebbe demandata a chi ne capisca veramente a fondo di economia e finanza, bisogna dire che a confutazione delle sue affermazioni vieppiù critiche sulla moneta unica europea e sui rappresentanti politici del vecchio continente, non si alza una sola voce che non sia la boiata del giorno quale – per dirne una – “il ritorno alla lira anzitutto comporterebbe per noi importatori di energia il triplicarsi del prezzo della benzina, dato che dovremmo comprare con una moneta debole le materie prime.” (per piacere nessuno dica che la benzina NON è una materia prima, era una sorpresa che avevo pensato di tenere per la fine dell’articolo…).

Battute a parte, quella delle materie prime è, se non altro, un’idea, un abbozzo di argomento, che giustamente nasce morto ma che se non altro è un tentativo: a parte questa e poche altre stupidate, si tratta di risposte standard che, per solito, nel corso della Storia vengono riservate a chi metta in discussione un dogma. Che si trattasse della concezione tolemaica del cosmo, della verginità della Madonna o, in tempi purtroppo ancora contemporanei, del fatto che gli zingari rapiscono i bambini, la risposta di fondo è il rifiuto più assoluto e totale a solamente mettere in discussione il dogma stesso. Quando non vi si accompagna l’accusa di essere contro l’Europa – che è lo stigma della moderna apostasia.

Detta in breve: l’impressione è quella di un ceto politico che sta lasciando andare la barca. Non volendo o, più verosimilmente, non essendo in grado di portarla, di distinguere la poppa dalla prua e di leggere una carta nautica. L’impressione è anche quella di una lentissima morte (Alberto Bagnai è, verso l’euro, fra i più misericordiosi, assegnandogli un’aspettativa di vita che potrebbe forse arrivare non oltre il 2022, cioè praticamente dopodomani).

L’impressione è infine quella di una specie di rassegnazione, fra una sciarada e una pagliacciata al vertice come quella invereconda ammuina sulla Grecia, che sembrano messe in scena fatte per sfamare i media, spaventare il cittadino europeo – ma non troppo, che quelli del sud tendono a incazzarsi – e nascondere ben altri disegni che sembrano di stampo economico e finanziario ma che, in realtà, come diceva il barbuto che sta sepolto a Highgate, niente altro che politica sono, giocata con altri, più infami mezzi.

Come la nave di Giorgio Gaber, l’euro non sa dove va ma continua ad andare, parrebbe verso una morte che viene accompagnata da rassegnazione e a questo punto bisogna pensare che gli scarsi commenti in sua difesa siano frutto di questa rassegnazione.

Finirà che non sarà rimpianto da nessuno: ma la cosa non induce a considerazioni piacevoli perché se anche questa parabola finirà come dicono appunto Krugman, Stiglitz o Bagnai, essa porterà a uno spaventoso trauma sociale, le cui conseguenze andranno, come stanno già andando adesso, tutte sul conto di lavoratori, pensionati, giovani, donne: i soliti, insomma, che si troveranno a provare a ricostruire e recuperare un welfare, un sistema di diritti e di tutele del lavoro, una scuola degna di questo nome. Un massacro.

Qualcuno prima o poi dovrà essere chiamato a rispondere della tragedia della moneta unica, del fallimento del concetto di Europa, delle bugie e delle mistificazioni mascherate da follia (il disegno è preciso; non va ascoltato chi parla di errori: questa gente non sbaglia mai) che tengono in vita un organismo che di vivere non merita – non meritava neanche di nascere, se è per questo. E la sinistra europea non si sogni di chiamarsi fuori, perché se è vero che in milioni, all’indomani del risultato del referendum greco, abbiamo visto quanto avesse ragione il Presidente Mao a dire che l’imperialismo (la finanza, in quel caso) è una tigre di carta, coloro che sarebbero chiamati a intrappolarla per impedirle di causare morti e invalidi si vestono come Stanlio e Ollio e portano armi della stessa materia di cui la tigre stessa è fatta.

alessandra rampazzo

Anch’io ho conosciuto Filippo In Australia. O meglio, ho conosciuto Filippo e Silvana, perchè per me non ci sarà mai Silvana senza Filippo o Filippo senza Silvana. Anch’io , come Luca, sono stata “adottata” dal momento in cui ,sconosciuta collega  piene di valigie , sono atterrata ad Adelaide e Filippo e SIlvana erano là ad aspettarmi a casa loro.Mi hanno ospitato,anche quando gli originali pochi giorni iniziali sono diventati più di un mese; mi hanno invitato a tt le loro cene e i loro pranzi; mi hanno fatto conoscere i loro amici, che sono diventati i miei ( ciao luca, baci); mi hanno scorazzato in giro per i dintorni di Adelaide a vedere splendidi paesaggi e parchi naturalistici.E’ stato Filippo a portarmi al primo  wildlife centre ad abbracciare il  koala x la classica foto ricordo, a mostrarmi i primi canguri allo stato libero e  a parlarmi di tt le specie di papagallini che cantavano nei parchi cittadini!
Credo che nessuno abbia spiazzato Filippo in campo gastronomico quanto me: mangiavo solo verdure il più dei pranzi e delle cene , cosa di cui non è mai riuscito a capacitarsi, e non sapevo cucinare un ragù o un arrosto alla bella età di 34 anni ! Infatti, quando un paio d’anni dopo , mi son iniziata a quelle nobili arti , è a lui che ho mentalmente dedicato il primo che ho prodotto.
I ricordi si affollano e sono tantissimi ,a partire dalla prima serata dopo il mio arrivo, quando mi hanno portata a vedere la proiezione che Silvana aveva organizzato di “Il pianista sull’oceano”, facendomi commuovere fino alle lacrime, all’ultimo saluto sul volo dicembrino di rientro in Italia, quando un upgrade molto gradito li aveva portati a godere i piccoli piaceri della business class .  Anzi,  grazie Luca, che hai rportato alla  mia mente la cena con tutti i consoli e sotto consoli e Filippo impassibile  e a proprio agio , che discuteva tranquillo di tutto con tutti , con i pantaloni proprio come li hai descritti tu!

Filippo e Silvana sono stati HOME TO ME IN ADELAIDE,   perchè erano/sono maestri in un’arte che si sta perdendo, quella dell’OSPITALITA’. Mentre ogni anno che passa, sembra che diventiamo sempre un pò più sospettosi, meno solidali  e più chiusi , la mia mente va a loro due, che aprivano, anzi sbalancavano, le loro porte a chiunque , con spontaneità e naturalezza, certi che non ne sarebbe seguito un disturbo, ma un arricchimento e un amico/a in più.
con tanto affetto e gratitudine  Alessandra