RIBATTERE SEMPRE

I primi commenti relativi alla sciagurata appendice apposta dal nuovo esecutivo di destra alla definizione del Ministero dell’Istruzione – “Merito” – nel contestarne i possibili significati intrinseci e soprattutto estrinseci, parlano di errore: l’aggiunta del termine ‘merito’ sarebbe appunto un errore commesso da chi abbia pensato di dare un particolare taglio programmatico al dicastero forse più importante di una società che si definisca civile.
Dissento.
Il sito su cui appare questo scritto è intitolato a un comunista, sindacalista e uomo di scuola: non ho alcun dubbio che Filippo Ottone sarebbe sbottato (per un paio di secondi: poi, come suo costume politico, si sarebbe messo a scrivere) a proposito di quella qualifica, alquanto odiosa; allo stesso modo, sono altrettanto certo che avrebbe rigettato l’idea che tale termine, di importanza primaria, sia spuntato per caso, per sbaglio, per distrazione a corredare la lista dei dicasteri che Giorgia Meloni ha presentato al Capo dello Stato. Voce dal sen fuggita, è definizione che già si avvicina un pochino alla realtà, ma ancora ne sarebbe distante, poiché qui non è sfuggito proprio niente. Sarà necessario diffidare delle precisazioni e non scendere sullo stesso terreno dialettico di questa gente, bensì chiarire alcuni concetti e farlo tutti i giorni, in tutte le sedi, soprattutto in quelle educative. In modo particolare, ma non esclusivo, bisognerà ribattere ribattere ribattere (non rivolti a loro, ma alla cittadinanza) ogni qual volta qualcuno proverà a insozzare la Costituzione, interpretando a proprio uso e consumo politico il terzo comma dell’articolo 34. Andiamo a rileggerlo.

“Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie
ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso
.”

Lo spirito che innerva la Carta fondamentale e gli stessi lavori preparatori (sono liberamente consultabili) sono piuttosto chiari, in proposito: chiunque eccella nell’ambito del proprio gruppo o sezione di studio non andrà a fare parte di una specie di classe di ottimati, destinati per censo o per capacità proprie alla guida dei destini del Paese. Certo, costoro saranno di grande utilità ed è semplicemente ovvio che anche loro saranno rappresentanti delle istituzioni, locali e nazionali (unitamente ad altri, a prescindere dai rispettivi titoli di studio). Viceversa, proprio all’interno della scuola dove eccelleranno, essi saranno posti nella condizione (e verrebbe da dire nel privilegio) di essere di aiuto e promozione agli altri nell’indirizzo improntato alla solidarietà e alla collaborazione di cui si trovano svariate tracce – se non aperti riferimenti – nella Costituzione repubblicana.
In questo senso la parola ‘meritevole’ contenuta nell’articolo 34 qualifica la persona come cittadino facente parte della società civile che, assieme al diritto di raggiungere i più alti livelli di studio, lo rende anche partecipe della vita scolastica dei suoi colleghi. Là dove (in tutta chiarezza) la velenosa aggiunta al nome del Ministero dell’Istruzione – già indecentemente privato della nobilissima qualifica ‘Pubblica’ e anche di questo risponderà una certa Sinistra – fa il pari con altre definizioni che richiamano concetti esclusivi, elitari, bellici. Con buona pace di chi è al governo – per adesso.

Cesare Stradaioli

 

ALTRI ANNIVERSARI

Abbiamo sempre sostenuto come le ricorrenze possano talvolta andare al di là della semplice simbologia di una data, un fatto, un ricordo. In questo senso, va preso atto del fatto che il prossimo Presidente del Consiglio – e prima donna a ricoprire un tale ruolo nel nostro Paese – incarico ottenuto sulla scorta della maggioranza relativa ottenuta dal partito che guida da anni, si dichiari apertamente non antifascista. Fatto, se possibile, ancora più grave (i Presidenti del Consiglio tradizionalmente in Italia passano, mentre quelli delle due Camere restano, a meno di scioglimenti anticipati della legislatura), la seconda carica dello Stato porta il nome di un signore che, mentre Gianfranco Fini da leader di AN cercava di condurre a compimento la geniale intuizione di Silvio Berlusconi (o di chi per lui) di sdoganare una impresentabile destra fascista e lo faceva fino al punto da coprirsi il capo con una kippah a Gerusalemme – cosa non fa la gente per i diamanti, cantava Tom Waits – ancora si proclamava aperto ammiratore di Mussolini il quale, notoriamente, “aveva anche fatto cose buone”.
Che tutto ciò cada nella ricorrenza del centenario della marcia su Roma, che come ormai tutti sanno, non avvenne – ennesimo esempio di quell’orrenda macedonia di mistificazione e ciarlatanaggine che è stata una delle componenti del regime fascista, frutto degenerato di un tessuto sociale povero di mezzi e cultura e ricco di giullari e cortigiani – è assolutamente indicativo e, per certi versi, tutt’altro che sorprendente, rappresentando in maniera quasi teatrale, al culmine e conclusione di una narrazione, la chiusura storica di un cerchio.
La figura e il percorso politico di Ignazio La Russa non possono essere assimilati a quello che poteva essere il passato di figure quali Dario Fo, Eugenio Scalfari e altri; costoro, in età appena post-adolescenziale si erano invaghiti di qualcosa da cui presero in breve le distanze, mentre il Presidente del Senato a metà strada fra il serio e lo scherzoso ghignante (tratto tipico di un certo fascismo genuino e ruspante) non ci pensa nemmeno a manifestare una qualche forma, sia pure appena abbozzata, di riconsiderazione su se stesso e sul passato dell’idea a cui ha ispirato tutto il suo percorso politico. Allo stesso modo della ricorrenza – mancano pochi giorni – la carica che riveste non ha solamente un valore simbolico: o sarà anche e solo un simbolo, ma con sè, dietro di sè porta un consenso elettorale di tutto rispetto e un comune sentire piuttosto diffuso, una specie di malattia endemica dalla quale il popolo italiano non riesce (forse neppure lo vuole, non sentendone evidentemente la necessità) a liberarsi; una tara, un bisogno, una coazione a ripetere, una dipendenza – ognuno (analista politico, psicologo, psichiatra, studioso delle masse) ci metta l’etichetta che crede: il vino è quello – che porta a non recidere i legami con quello che, oltre al resto, ma prima di tutto è stato un esperimento politico eminentemente italiano, successivamente copiato (con esiti alterni) in diverse altre esperienze politiche altrove nel mondo.
Un minimo di raziocinio dovrebbe portare a tenere in secondaria considerazione le singole espurgazioni di simboli e comportamenti fascisti, essendo tutte niente altro che il portato di quello che acutamente Umberto Eco chiamò ‘fascismo eterno’, insito nella società in cui viviamo. Fra poco saranno ottanta, gli anni: sono tanti e sono pochi ed è solo una questione di punti di vista; ciò che pare essere fuori da ogni discussione è che fin da prima che i coetanei di chi scrive andassero alle elementari, il fascismo veniva trattato come un qualcosa di incidentale, ma allo stesso tempo profondamente radicato e questa era una delle contraddizioni che ne hanno però rappresentato la forza anche dopo la morte anagrafica; un qualcosa di più o meno scherzoso, un po’ triste e molto sfortunato (Mussolini era “mal consigliato”, altro formidabile mantra del negazionismo nostrano), che però aveva portato la luce nei campi, creato la previdenza sociale, fatto in modo che i treni arrivassero in orario e corbellerie del genere – non pochi fra coloro che insistono su queste leggende irridono i cosiddetti terrapiattisti…
Fascismo come malattia incistata nel corpo ritenuto – erroneamente – sano dell’Italia; come eredità che pare non finire mai e sarà così anche quando l’ultimo fascista della prima ora e l’ultimo aderente alla RSI sarà passato a miglior vita; come nostalgia che porta persone che vivono con noi rimpiangere qualcosa che per forza di cose non hanno vissuto ma di cui hanno sistematicamente sentito parlare se non bene, almeno benino e che rispetto ai cui principi ispiratori, cause storiche, mandanti e strutture politiche, nella stragrande maggioranza dei casi, sono quasi del tutto ignoranti; una benevolenza mista a comprensione, mista ad anticomunismo viscerale; un culto del principio Legge & Ordine, che porta periodicamente a delegare vita e destino a un singolo, subito acriticamente osannato, poi altrettanto prontamente rottamato non appena la convenienza cambia indirizzo.
Le analisi servono sempre e non cominciano mai troppo presto. Il problema è che richiedono due cose fondamentali, a parte le altre: fatica e onestà intellettuale. Nell’anno che per la Storia sarà sempre il ricordo di una marcia che non c’è stata e di un re vigliacco e traditore, abbiamo il dovere di prendere atto della presenza come seconda carica dello Stato di un fascista e che il suo partito di riferimento ha vinto le elezioni sia grazie ai milioni che l’hanno votato (attenzione che Piazza Venezia si può svuotare in fretta e molta gente confluisce poi a Piazzale Loreto), sia anche da quel 46% di nostri connazionali che hanno disertato le urne. Ma dobbiamo anche avere coscienza che quel signore è un effetto e non una causa: la quale, come spesso accade, va ricercata nelle piccole cose, nei dettagli, nella somma che (mai come in questo caso aveva ragione il principe de Curtis) fa il totale.
Sergio Rizzo e Alessandro Campi si dolgono dell’ombra lunga del fascismo: con accurate e precise ricerche ne danno conto intitolando così il loro ultimo interessante lavoro, manifestando allo stesso tempo preoccupazione e sconcerto per il fenomeno di cui trattano. Ma se persino loro, sul cui profilo morale non è lecito sollevare dubbi di sorta, come tanti altri insistono a fare riferimento a Benito Mussolini chiamandolo ‘duce’, che era un titolo onorifico, direi che sarebbe ora di cominciare davvero dall’inizio, dalle cose basilari della nostra vita spicciola.
Un vero antifascismo si pratica anche così.

Cesare Stradaioli

 

sempre gli stessi

rizzo e campi duce

STATI DI ALLUCINAZIONE

All’indomani delle elezioni che porteranno una personalità dichiaratamente non antifascista a Palazzo Chigi, la quasi totalità della dirigenza del Partito Democratico – a tutti i livelli, locali e nazionali – e buona parte del suo elettorato versano in evidente stato confusionale. Gli argomenti che si leggono e che si ascoltano, per strada o nei vari mezzi di comunicazione sono a livelli di farneticazione da sconfinare nella malafede pressoché per tutti i rappresentanti e (a questo punto bisogna dirlo: è ora di non più sconti a nessuno) per una quota non indifferente di coloro che in tutti questi anni gli hanno votato questa specie di partito.
Non tanto e non solo per la canizza di frasi sconnesse, senza senso, prive di costrutto e di orizzonti politici, inframezzate da autocandidature che in tempi ordinari dovrebbero fare sorgere per lo meno un barlume di vergogna in chi le pronuncia; parlare di mancanza di autocritica, riguardo al Pd, è diventato argomento talmente trito da risultare noioso e però non se la possono e non se la devono cavare in questo modo. Non gli eletti e non gli elettori.
In altre parole e con termini diversi: e se le elezioni avessero portato Enrico Letta all’incarico di formare un nuovo governo? E se, in un improbabile impeto di maturità umana, spirito di servizio e concretezza politica, un miracolo (categoria alla quale, tutto sommato, non è vietato fare conto) avesse portato una – francamente inverosimile ma ipotizzare non costa niente e non nuoce gravemente alla salute – coalizione vagamente ispirata al centrosinistra ad avere una ragionevole maggioranza nelle due camere? Allora sarebbe andata bene questa indecente legge elettorale, fatta a suo tempo per ostacolare il M5S (la nemesi è sempre in agguato e colpisce con raggelante puntualità) dalla quale quasi tutti ora prendono le distanze?
Sarebbe stata più accettabile quella porcheria di nome e di fatto, nota come Job’s Act (qualsiasi stupidaggine volessero intendere coloro che coniarono questo infelice nome), legge fortemente voluta da Renzi e dal sistema delle Coop emiliane (ministro del lavoro era un loro rappresentante), gradatamente sgretolata e pressoché devitalizzata da ripetute sentenze emesse da quella banda di arrabbiati luddisti che è la Consulta e che dalla quale quasi tutti ora prendono le distanze ?
Sarebbe andato bene quel mostro, sarebbe da dire prima umano e sociale che politico, dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio?
Sarebbe da giudicarsi strategicamente intelligente appoggiare due volte governi spudoratamente neoliberisti quali quello guidato da Mario Monti e quello guidato da Mario Draghi, consegnandosi mani e piedi a un esecutivo tecnico, che per sua natura non può tollerare dissensi politici – diversamente, alla guida ci sarebbe… un politico – ?
Sarebbe stato in quel caso tollerabile vincere le elezioni anche grazie a un personaggio quale Carlo Calenda, che all’epoca in cui era nell’esecutivo Renzi sotto le mentite spoglie di Ministro dello sviluppo economico, lavorava in realtà come manager della Arcelor Mittal gia Ilva di Taranto, proponendo a favore dei dirigenti quell’obbrobrio chiamato ‘immunità penale’ (l’uomo deve desiderare talmente tanto di vivere negli Stati Uniti, dove non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, da essere giunto a crederci per davvero), concetto che meriterebbe l’istantanea cacciata del candidato all’esame di Procedura Penale in qualsiasi facoltà di Giurisprudenza?
Sarebbe più digeribile – roba da stomaci forti – la pratica delle candidature a capocchia (il compianto professor Scoglio direbbe ad minchiam) di politici privi di un minimo di legame, connessione, comunanza di vedute, conoscenza reciproca con gli elettori dello specifico territorio?
Sarebbe ancora rivendicabile tutto quell’infinito insieme di leggi, interventi, articoli, prese di posizione direttamente provenienti dal Partito Democratico dal momento della sua nascita (una per tutte: quell’autentica oscenità del federalismo), che di sinistra non hanno il diritto di avere neppure un soprannome?
In tal caso, sarebbe andata bene la malsana e forzata unione di due orientamenti politici che non potevano e soprattutto non dovevano avere che pochissimo in comune. Un orrendo minestrone di persone, chiacchiere, altisonanti proclami, ridicoli richiami a sciocchezze made in Usa che non poteva che portare all’oggi, vale a dire non già a una resa dei conti, situazione nella quale, dall’interno qualcuno abbia buon diritto (di ragione o di forza) per reclamare un avvicendamento, quanto piuttosto a un generale, complessivo e definitivo ritorno a occupazioni private di tutti coloro che hanno assunto ruoli di dirigenza nel Partito Democratico.
Ci sono momenti nei quali dire ve l’avevamo detto non rende neppure lontanamente giustizia, il che dovrebbe dissuadere dal dirlo: eppure, è necessario, anche solo per rimarcare ancora una volta – l’ennesima – la differenza fra coloro che, inascoltati, ammonivano e coloro i quali, non ascoltando – chi da sciocco, chi da politicamente inetto, chi da utile idiota, chi sfacciatamente complice: decidano loro – procedevano verso il disastro.

Cesare Stradaioli

 

NON CI SONO RAGIONI

La tempesta mediatica che si è abbattuta su Rita Dalla Chiesa è, nel suo complesso, da rigettare senza remore e questo per due motivi: primo, dileggiare qualcuno raramente porta al fine prefissato (posto che ve ne sia uno: in genere, il destinatario rafforza la propria posizione); secondo, nel caso specifico, consegna la figlia del generale ucciso in un agguato quasi quarant’anni fa a un ruolo che non merita di avere, cioè della persona offesa.
Offesi siamo noi, che aborriamo la mafia e, in genere, la criminalità organizzata e il verbo assume particolare significato quando la devianza criminale oltrepassa un certo limite e influisce in maniera pesante, devastante e incontrollata sul tessuto sociale, sull’economia, sui rapporti interpersonali: su tutti noi.
Nel corso degli anni, decenni ormai, abbiamo anche imparato a capire la scelta di un certo numero di persone, donne e uomini che conoscevamo di persona o indirettamente tramite le loro vicende artistiche, culturali, politiche, che mai avremmo pensato avrebbero potuto anche solo trovarsi nella stessa stanza con Silvio Berlusconi, senza prendere e andarsene per non condividere alcunché con il magnate televisivo e non solo.
Parafrasando Gaber, qualcuno era berlusconiano perché credeva onestamente nel liberalismo, nella libertà uguaglianza e fraternità – senza limiti, in definitiva – perché intendeva regolare conti personali e/o politici con qualcuno o qualcosa, perché doveva sfogare impulsi primari derivanti da un’adolescenza mai del tutto superata, per anticomunismo barbarico e viscerale, per bieco calcolo di potere ed economico, per ottusità senile anche in giovane età. Ne abbiamo sentite e viste di ogni colore e formato, ma la scelta di Rita Dalla Chiesa davvero supera ogni accettabile limite e ciò che più colpisce non è tanto la decisione della singola persona, quanto le opinioni a favore o non apertamente a disfavore a dette e scritte in proposito.
Qui non si tratta di prendere una posizione contro la mafia: per quante bestialità ci sia toccato di leggere ed ascoltare negli ultimi trent’anni, sarebbe inverosimile che la presentatrice televisiva giungesse ad affermare che il fenomeno sia sopravvalutato o che ci si debba convivere o addirittura sedercisi a tavolino alla stregua di un nemico in situazione bellica, col quale fare accordi e trattati (è noto a molti, non a tutti, che le tregue non si stipulino con gli alleati). Men che meno la cosa va personalizzata; si può essere in aperto disaccordo con i nomi più noti e nobili, magistrati, giornalisti, intellettuali, che in punto di lotta alla mafia hanno preso posizioni forti e alle volte anche discutibili. Un uomo dello spessore morale e culturale quale Leonardo Sciascia ebbe parole di fuoco sui cosiddetti ‘professionisti dell’antimafia’ – con tutto il profondo portato di sicilianità che connotava la definizione, lo scrittore e i destinatari: non agevolmente comprensibile per chi non sia isolano per nascita – e non di meno apparirebbe incredibile, fosse ancora in vita, un suo incarico pubblico nella formazione politica di qualcuno che ha avuto fino a cinque minuti fa (aspettiamo la prossima intemerata dichiarazione) parole di elogio per un condannato definitivo per mafia come Marcello Dell’Utri e che in pubblico chiamò ‘eroe’ un figuro quale Vittorio Mangano, elemento di spicco dell’associazione criminale tale che non dovrebbe sorprendere se dovesse emergere la sua partecipazione alla decisione di assassinare il prefetto di Palermo, incidentalmente padre della suddetta figura televisiva – e con lui, tanto per non dimenticarselo, la giovane moglie e un disgraziato agente di p.s. messo da solo a improbabile scorta di uno fra i più pericolosi e temuti antagonisti di Cosa Nostra.
Non ci interessa sapere perché la signora Dalla Chiesa si sia candidata in una lista berlusconiana: che ciò dipenda da una decisione libera o condizionata da un’offerta che non poteva rifiutare (in questo caso, anche la genesi dell’eventuale obbligo sorgerebbe da un libero agire), sono affari suoi e della sua coscienza; così come è un problema suo, comprendere o meno l’offesa che ha recato alla memoria del padre e a noi cittadini. Paradossalmente, mentre c’è da essere sorpresi dalla sua decisione (c’entrerà pure il rapporto di parentela), nulla di nuovo emerge invece da chi la difende: una certa, solita Italia, demente, smemorata, idiota, ipocrita, con cui ci deve pure confrontare. Quanto alla signora, non rimane che augurarci un suo fallimento elettorale e che se ne vada a quel paese, possibilmente alla ricerca della legge morale dentro di sé, che non è – quasi – mai troppo tardi.

Cesare Stradaioli

ANNIVERSARI IN MENO

Fa specie pensare a qualcuno morto quarant’anni fa e che oggi non ne avrebbe neppure ottanta. Nel caso di Rainer Werner Fassbinder, in primo luogo coloro che l’hanno amato pensano a quanti film mai più avuti, quanti interventi pubblici in meno da parte di un uomo che non le mandava a dire, anche fuori dal recinto della cinematografia, quanto avrebbe influenzato (altro che influencer) la cultura europea, insomma quanto avrebbe fatto se solo quell’inestinguibile fuoco che lo divorava gli avesse dato un po’ di pace.
Caso da manuale di ars longa vita brevis (con non poco vezzo andava dicendo che sarebbe morto alla stessa età di Marilyn Monroe: in realtà “sforò” di un anno), quello che ci manca dal 10 giugno 1982 è una figura apicale non solo del cinema ma anche del teatro e della scrittura; la sua sconfinata produzione artistica ci ha dato non solo splendide riscritture e rivisitazioni del melodramma, magnifici personaggi femminili che solo uno che non aveva necessità di fare outing era in grado di descrivere – bastava la sua raffinata sensibilità – lunghi e sofferti piani sequenza, film mai con cinque secondi di girato in eccesso e la cruda rappresentazione di una rivalsa verso una pallida madre (la Germania ancora, perennemente, spaccata) che in nome dell’oblio e del senso di colpa, oggi declinato in deficit di bilancio, aveva negato alla sua generazione la gioia e la speranza, ma anche e prima di ogni altra cosa uno sguardo allo stesso tempo freddo e amorevole, crudele ed empatico sui suoi personaggi, povere creature oppresse dall’ambiente, dalla società e soprattutto dal conformismo, vero grande principale nemico del progresso intellettuale.
Uno come Fassbinder manca anche per quello che avrebbe potuto dare oltre: basti pensare, quale che sia in ciascuno l’opinione in proposito, al formidabile colpo di genio che con ”Berlin Alexanderplatz” aveva buttato lì il discorso sulla serialità cinematografica e televisiva e il rimpianto è ancora maggiore dando uno sguardo al panorama culturale odierno, scarso, gretto, messo all’angolo dall’idolatria dell’utile e del produttivo; orridi concetti ai quali opponeva le sue incredibili canotte traforate, il giaccone anche in piena estate e quel sorriso solo apparentemente beffardo, in realtà specchio di un’anima col cappello in mano alla ricerca di affetto, inevitabilmente accompagnato dalla millesima sigaretta della giornata.
Quella stessa idolatria che ripete che con la cultura non si mangia – a dire il vero c’è gente con la cultura si è riempita pancia e tasche – e che induce a credere che gli anniversari non servano a niente: per questo, tutte le principali testate hanno beatamente ‘bucato’ il suo quarantennale (quasi quanto quello di John Belushi, andatosene quattro mesi prima).
Tanto per ricordarci che gli anniversari servono, eccome.

Cesare Stradaioli

PER QUELLO CHE CONTANO I SIMBOLI

Le cariche pubbliche hanno un certo valore simbolico, pure se negli ultimi anni molte hanno visto scemare la propria importanza e pure l’effettività. Non di meno, tenendo conto che in diversi Paesi – alcuni dei quali assurti al sistema democratico e partecipativo in tempi più recenti rispetto all’Italia, qualcuno di molto – si danno donne presidenti della Repubblica (la monarchia ha, tradizionalmente, storia e disciplina proprie) o primi ministri, amareggia non poco il pensiero, in aggiunta a una ragionevole previsione, che il Paese di Teresa Noce, Nilde Jotti, Lina Merlin, Rita Levi Montalcini, Tina Anselmi, Licia Pinelli, Giulia Lazzarini, Camilla Cederna, Dacia Maraini, Franca Rame, Adele Faccio, Emma Bonino, Lorenza Carlassare, Ilaria Alpi, Elvira Sellerio, Inge Feltrinelli, Natalia Aspesi, Elena Cattaneo, Laura Boldrini, Nadia Urbinati – per nominare solo alcune fra le più conosciute e senza dimenticare quante altre figure femminili, rimaste lontane dalla notorietà – dopo quasi 80 anni di Repubblica debba avere come prima Presidente del Consiglio una figura come quella di Giorgia Meloni, ovvero la mai estinta mala erba del fascismo che, declinato in varie maniere, sotto diverse sembianze, con svariate facce e in tutte le salse, più che riemergere periodicamente nella vita italiana, alberga costante e apparentemente inestirpabile nel DNA di questo disgraziata terra.
Dovesse ricoprire questa carica per un tempo limitato, fossero anche due settimane, sarà uno stimma che l’Italia si porterà dietro per sempre e l’elenco delle responsabilità partirà dall’A fino alla Z, nessuno e sottolineo NESSUNO escluso, poiché chiunque (così ci ammonisce Shakespeare) anche in percentuale impercettibile porta la responsabilità come minimo di non avere fatto abbastanza e di avere subito quanto è accaduto.

Cesare Stradaioli

“La colpa, caro Bruto, non è nella nostra stella ma in noi stessi,
che ci lasciamo sottomettere”
CASSIO – Giulio Cesare

 

 

NON PRENDETEVELA CON CHI OBIETTA

Da strenuo sostenitore della separazione dei significati – e non delle carriere – Franco Cordero tornava spesso su un argomento che gli stava particolarmente a cuore: un conto sono le leggi, altro sono i destinatari di questa o quella norma; guai a confondere chi deve seguire un determinato dettame con coloro che l’hanno approntato, approvato e introdotto nell’ordinamento. In questo senso, la diatriba ideale con Alessandro Manzoni, a proposito della peste a Milano di cui tratta “La colonna infame”, nel quale scritto il padre degli sposi promessi attacca frontalmente giudici ed esecutori delle torture cui erano sottoposti pressoché tutti coloro che avessero la sventura di essere indagati, è emblematica; sbaglia lo scrittore, sosteneva il giuspenalista: chi applica la legge e chi ne mette in pratica l’aspetto punitivo, afflittivo – del corpo o della libertà – non può essere chiamato a rispondere al medesimo titolo rispetto a coloro i quali quella legge e quella particolare disposizione e quella sanzione hanno riversato nel sistema legislativo.
Argomento scivoloso come pochi, anche se a ben guardare una catena di responsabilità pur sempre esiste e ha nomi e ruoli da mantenere rigorosamente ben definiti. Certo, il soldato tedesco che rastrella ebrei per sottoporli alla ritorsione dovuta a un attentato può e dovrebbe tenere la schiena dritta e rifiutarsi di obbedire a un ordine disumano: sono, in primo luogo, affari suoi e della sua coscienza; ma, in secondo luogo e soprattutto, è l’ordine in sé a essere orribile e allo stesso modo lo sono quelli che lo impartiscono e, in ultima analisi, è orribile il pensiero che ha portato al conflitto e alla situazione che vede lotta di liberazione contro oppressori.
Un cittadino italiano che eserciti la professione medica ha il diritto di obiettare, tutte le volte in cui viene richiesto di praticare un’interruzione di gravidanza: glielo garantisce la legge stessa; non siamo in presenza di arbitrarie prese di posizione, esercitate in un vuoto legislativo. Si può discutere in eterno sul momento in cui una vita inizia il proprio percorso biologico ed è un dato di fatto che in non pochi fra coloro che ritengono un passo in avanti di civiltà il principio ispiratore della legge 194 – chi scrive si colloca fra costoro – si trovino non del tutto fermamente decisi sul momento di inizio vita.
Tuttavia – e pure questo è un dato di fatto in quanto legge dello Stato – se un medico ha il diritto di obiettare, ciò avviene per il semplice motivo che la legge che introduce l’interruzione di gravidanza non è altro che l’ennesimo e purtroppo non ultimo esempio di compromesso, in un Paese diviso (ma sarebbe forse più corretto usare il termine lacerato) fra un movimento di pensiero e politica avanzato e i retaggi ancora ben saldi e presenti di una cultura che non riesce ad affrancarsi dal potere religioso, forte e profondamente incistato nel tessuto sociale.
In fin dei conti, la legge 194 è lo specchio del Paese in cui viviamo, macchiato a mo’ di leopardo da isole di illegalità talmente numerose ancora oggi, tali da lasciare incerti nel considerare quali siano le parentesi e quale sia il percorso principale, se l’osservanza delle leggi o il suo opposto.
Quanto alla legge in sé, dal punto di vista strettamente tecnico, si tratta di un qualcosa di abnorme, non essendo consentito dalla nostra civiltà giuridica e dalla Costituzione che il singolo medico rifiuti l’assistenza sanitaria per ragioni di opinione (un credo religioso è, in sintesi, una somma di opinioni) in merito alle idee politiche del paziente o sul suo orientamento sessuale o l’etnia. Ove si fosse in presenza di una simile legge, sarebbe del tutto evidente l’assurdità giuridica – ma anche in punto di logicità della stessa – insita nel rimettere a valutazioni del tutto personali e concettualmente non soggette a confronto, essendo per l’appunto ogni discussione in termini di idee politiche e sessuali equiparabile, per dirla con Franco Fortini, al bastonare l’aria circostante.
Sarebbe necessario cambiare al più presto la normativa, nel punto in cui solleva il singolo, ipotetico obiettore, dal secondo obbligo cui è sottoposto come cittadino (il primo è quello di rispettare le leggi dello Stato), che sorge nel momento in cui indossa un camice, vale a dire di curare chiunque gli venga affidato. Liberissimo egli, se crede, di aderire a un movimento di opinione affinché un domani il Parlamento liberamente voti l’abrogazione della 194 ovvero di lasciare la professione medica: ce ne sono tante altre in giro, ugualmente rispettabili e soprattutto rispettose del consorzio civile.
Prendersela con questo o quel medico obiettore o col crescente numero di sanitari che esercitano un diritto conferito loro dalla legge è sciocco, cieco e rischia di riportare il Paese al giorno prima dell’entrata in vigore di una legge tanto civile quanto appesantita dal compromesso.

Cesare Stradaioli

LE VERITA’ NASCOSTE

Qualche sera fa il programma televisivo ‘Atlantide’ ha disvelato un segreto paragonabile, come portata globale, a quelli che da innumerevoli generazioni avvolgono le figure di Babbo Natale e della Befana: ancora prima della fine ufficiale del Secondo Conflitto Mondiale, prima della conferenza di Yalta e dello sgancio delle due bombe atomiche sul Giappone; prima ancora della rigida divisione europea in due blocchi e che fosse coniato da Winston Churchill il termine ‘Cortina di Ferro’, i servizi segreti degli Usa, consapevole o meno il gruppo di persone di stanza alla Casa Bianca – presidenti Roosevelt prima e Truman poi inclusi: poco importa – trovatisi nell’immediatezza di dover fronteggiare un pericolo comunista nel continente principale teatro del conflitto, in piena luce salvavano dalla forca un numero imprecisato di uomini e donne appartenenti alle forze militari e a strutture civili direttamente dipendenti dal III Reich; più spesso (in forza delle conoscenze di cui disponevano o, forse, anche in virtù dei forti poteri ricattatori che potevano mettere sul tavolo per guadagnarsi vita e libertà) massacratori in prima persona e/o dirigenti della complessa macchina organizzativa che, dalla raccolta delle persone, portava ai campi di lavoro, di sterminio o alla fucilazione.
Detta in termini sbrigativi: a un certo numero di criminali di guerra è stata risparmiata la prigione, la condanna a morte o la semplice vergogna di essere venuti al mondo, in cambio di determinati servizi (talvolta di spionaggio e, in questo senso, del tutto assimilabili a quello che facevano sotto le dipendenze dirette o indirette di Himmler o Heydrich) per contrastare la libera determinazione di questo o quel popolo di intraprendere una politica diversa da quella imposta dalla pax americana – la cui presa di distanza è probabilmente costata la vita a John Kennedy).
Una cosa detta così, dovrebbe provocare una serie indeterminata di reazioni: rabbia, sdegno, vergogna, condanna, fino a un più superficiale, modesto e sbrigativo aspettare sotto casa qualcuno di quelli che ebbero l’idea ed eseguirono le relative operazioni di messa in atto e gonfiarli di legnate, pur mantenendo un certo rispetto per l’età. Rispetto che non meritano coloro che, ancora oggi, sostengono la validità e la giustezza di quanto sopra.
Tutti quelli che sono stati bambini devono, prima o poi, fare i conti con la dura realtà della vita, vale a dire che Babbo Natale è impersonato da una serie di individui che indossano una barba posticcia, suonano il campanone e ridono come deficienti, là dove la vecchina che viene di notte è interpretata da qualcuno del giro parentale (uomini, per lo più, per chissà quale recondito motivo); per non parlare del fatto che sono mamma e papà e non una non meglio identificata fatina a mettere un regalo al posto del dentino lasciato sul davanzale. Non di meno, da adulti ripropongono le medesime storielle ai propri figli, perpetuando così un mistero che tale non è per chiunque conti più di 5-8 anni di vita. Non succede niente quando un bambino viene posto di fronte alla verità. Non succederà niente neppure dopo quel programma televisivo. 
L’insieme di “rivelazioni” ivi contenute, che in un Paese appena normale dovrebbe portare, come minimo sindacale, a un quasi totale ripensamento, seguito a stretto giro da una riscrittura degli eventi post-bellici quanto meno fino al 1991 – anno del crollo dell’Unione Sovietica in cui, stando a Eric Hobsbawm, termina il XX° Secolo, da lui stesso definito ‘breve’, essendo a sua opinione iniziato nel 1914 – con tutto quanto dovrebbe conseguirne. Si tratta di ipotesi alquanto improbabile. Non solo e non tanto per il fatto che, come una fuga di petrolio nell’oceano, quell’insieme sembra destinato prima o poi, più o meno a dissolversi nel mare infinito delle notizie e informazioni che saturano la rete e le vite quotidiane di chiunque, ma anche e soprattutto perché i decenni successivi alla seconda metà del secolo passato sono a tal punto e così profondamente incistati e incrostati di propaganda a senso unico, che difficilmente il tutto porterà a qualcosa di più efficace di una generica alzata di spalle. E’ attribuita a Joseph Goebbels la frase secondo la quale una bugia ripetuta finirà per passare per verità: quelle relative alle festività che portano doni, se non altro per qualche breve annetto di vita, in un modo o nell’altro lo diventano; se non che, il fatto assolutamente vero che faceva sì che in tanti sapessero – e tutt’ora sappiano – delle porcherie combinate dalla CIA e soci, ripetuto e ricordato all’infinito è diventato talmente oscuro da dover essere ‘disvelato’ quasi 80 anni dopo. Purtroppo, avrà la risposta che meriterebbe una falsità.

Cesare Stradaioli

POI ARRIVA UN TENENTE COLONNELLO…

A volte le cose sono leggibili in maniera più semplice di quanto possa sembrare: il 24 febbraio 2022 Vladimir Vladimirovic Putin ha fatto saltare il banco.  Detta in modo meno schematico, si potrebbe anche dire che l’inizio delle operazioni belliche in Ucraina abbia segnato la fine di una specie di esperimento storico, vale a dire il posizionamento della Russia nell’ordine internazionale messo a punto dalle potenze occidentali all’indomani del 1991.
Come sostenevamo, non di guerra si sarebbe trattato e guerra – come pure invasione – non è, alla luce dell’assenza della fondamentale fase uno di qualsiasi conflitto, vale a dire la mancata liquidazione delle infrastrutture attinenti all’energia e alle comunicazioni, essenziale per limitare al massimo reazione e resistenza dell’avversario. A ciò si aggiunga il sistematico, ininterrotto passaggio di gas e petrolio che non solo riforniscono il Paese teatro delle operazioni ma anche quelli che (sbandierate sanzioni a parte) dovrebbero opporsi all’aggressore, oltre al fatto che quest’ultimo continua a versare una specie di dazio di passaggio all’aggredito: ve n’è più che abbastanza per non potersi dare una seria e articolata definizione di guerra. Il che, ovviamente – ma di questi tempi bisogna precisare anche il buongiorno e la buonasera – non può e non deve mettere in secondo piano il fatto che vi siano morti e distruzione e disperazione.
Di colpo qualcuno in Europa e al di là del lago si è reso conto che Mosca non si aggirava più per il mondo con il cappello in mano, in cerca di consenso, favori e sorrisi al fine di avere possibilità di entrare al ballo mascherato delle celebrità dalla porta principale e non da quella dei fornitori, come era stato indicato, anche con un certo (meritato) sussiego ai successori di Gorbacev, che in pochi anni avevano svenduto al miglior offerente strutture industriali e petrolifere, ricchezza e dignità appartenenti a un popolo culturalmente e storicamente legato all’Europa. C’erano stati, certo, alcuni segnali che avrebbero dovuto suonare se non come campanelli d’allarme, quanto meno come fattori indicativi del fatto che qualcosa non stesse più andando come s’era rimasti d’accordo che andasse. Suoni ai sordi e segnali ai ciechi.
In verità, qualcuno ne aveva pur scritto: ‘Putin sta lavorando per dividere l’Unione Europea’, è stato per un certo tempo una specie di mantra. Più che legittimo non solo pensarlo, perfino doveroso constatarlo; se non che, detto ciò prevalse un certo stupore: Mosca non ha i nostri stessi obbiettivi. Oppure: Mosca non sta facendo niente, anzi, per favorire l’omogeneità europea basata su un’unione che, imposizione a forza di una moneta fittizia a parte, ben poco aveva del concetto di coesione.
Perché dovrebbe, era stata la risposta di qualche interlocutore, dal momento che è per lo meno dal 1917 che l’Occidente assedia Mosca: economicamente, politicamente e a livello di una propaganda feroce, instancabile, ossessiva. A dirne una per tutte: il campione del liberalismo nonché celebrato statista degli equilibri(smi) mondiali Winston Churchill, non avrebbe sparso lacrime sull’Unione Sovietica invasa e conquistata dalle truppe del Terzo Reich, né qualcuno l’avrebbe fatto a Washington. Come se non bastasse, sulla scorta di dotte dissertazioni sulla ‘necessità storica’ che una potenza – gli Usa e solo loro: era la narrazione – faccia il possibile e oltre per mantenersi il proprio potere, prima di tutto verso gli alleati e, in seconda battuta verso il mondo intero, una volta risollevato il capo e raddrizzata la schiena dall’umiliante postura, fisica, economica e politica imposta dalla banda di mascalzoni capitanata da El’cin, la Federazione Russa ha fatto quello che una più o meno ritrovata potenza deve fare: riprendersi un ruolo nella politica internazionale. Cosa che non può essere mantenuta senza prima di tutto avere i propri confini adeguatamente presidiati e tutelati. Con i migliori saluti all’arrogante e stolto (poiché ignorante) assioma di Francis Fukuyama a proposito della lorodicente ‘fine della Storia’, meritevole della sistemazione in soffitta unitamente a tutti i formidabili geni da tre palle a un soldo, fedeli corifei che non vedevano l’ora di co-intestarsi una frase che avrebbe dovuto marcare una svolta epocale; ridotta oggi, tutt’al più, a una pietra emiliana di de curtisiana memoria. Piaccia o non piaccia – al momento attuale è considerazione del tutto priva di rilevanza – si profila il ritorno a un equilibrio di potenze mondiali: forse con due protagonisti, non essendo escluso che il tutto diventi un triello, di leoniana memoria. Il che porta a due riflessioni.
E’ un dato, almeno in prospettiva, da valutarsi in via esclusivamente negativa? Non è detto; di sicuro la riduzione ad unum dell’equlibrio mondiale ha inevitabilmente portato alla sfrenata corsa di un capitalismo senza più regole né remore verso un insieme di sconcezze economiche e umane altrimenti noto come globalizzazione: un riequilibrio di forze, eventualmente allargato a est, peggio non potrà essere. Verosimilmente, meglio.
Ma più in là, più nel profondo, una seconda riflessione si impone: democrazia rappresentativa, partecipazione politica, Europa Unita, solidarietà sociale, libertà a tutto tondo per merci e valori finanziari – un po’ meno verso le persone: l’arrivo di profughi dall’Ucraina sottolinea ancora una volta il netto e feroce divario nel trattamento e ospitalità fra esseri umani che fuggono dai combattimenti e altri esseri umani che fuggono dai combattimenti – cineserie assortite a livello diplomatico, un’Organizzazione delle Nazioni Unite ridotta (non da oggi, per il vero) a una scatola da scarpe vuota, una disinvolta corsa ognuno per conto proprio purché non si sfiori neanche con un petalo di rosa il livello di vita dei cittadini europei, tutto questo è andato definitivamente in crisi; in compagnia di quell’altra bella favola della buonanotte comunemente conosciuta come libertà di stampa e di espressione.
Un variegato minestrone di ideologie sparse, una propaganda rozza e priva del minimo sindacale di senso del ridicolo, percolati assortiti di politica centrifugata ed elargita tramite un flusso ininterrotto di spot pubblicitari, tonitruanti dichiarazioni su un qualcosa a qualsiasi costo – sempre a carico degli stessi, peraltro – arrembaggi fatti brandendo dosi di vaccini, vergognose partite di giro fatte di spostamenti e scostamenti di bilancio la cui comprensione è strettamente riservata a pochi, là dove le relative conseguenze vanno direttamente sulla pelle di tutti gli altri: tutto questo è diventato un motore che batte in testa, con un unico, indistinto rumore di fondo, costituito da una stampa berciante, vergognosamente allineata, bavosa e isterica, mossa non solo e non tanto da un irriducibile complesso russofobico e da un anticomunismo fuori tempo massimo che tocca culmini di idiozia e ignoranza beota arrivando ad accostare politicamente l’attuale capo del Cremlino a molti che l’hanno preceduto, quanto da un sacro terrore di non sapere cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
Ed è bastato che un oscuro ex funzionario di un sistema di intelligence che neanche esiste più – personaggio che ha il terribile difetto mediatico di non sorridere mai e di non rispondere se interpellato – più che battere il pugno sul tavolo letteralmente lo rovesciasse, lasciando sparsi per terra trattati ridotti a carta straccia, accordi internazionali più utili per il fondo della gabbia del canarino, fiches senza più credito, tris di re e poker serviti sparpagliati e senza più significato, circondati da una canizza di giocatori urlanti, ignari di cosa raccontare alle mogli una volta rientrati a casa a tasche vuote, senza neppure essere stati in grado di dare il fatto suo a quel vicino così fastidioso.

Cesare Stradaioli

COME PASSA IL TEMPO, QUANDO CI SI DIVERTE

Due mesi oggi e sembrerebbe ieri, se non ci fosse la conta dei morti civili come prima cosa e, in seconda battuta, la ripetuta uccisione della ragionevolezza e della razionalità, ingredienti essenziali della vita in genere e di questo particolare segmento di esistenza per chiunque.
Al netto delle opinioni di ciascuno su quanto sta accadendo fra Russia e Ucraina – riassumibili sostanzialmente in due: è una guerra di aggressione cui legittimamente risponde la comunità internazionale (sotto il nom de plume NATO); è un’operazione bellica in opposizione all’accerchiamento che l’Unione Sovietica prima e la Russia odierna poi si vedono opporre fin dal 1917 – ritengo che quanto meno un concetto si sia fatto definitivamente largo nel pensiero di abbia un minimo di volontà di capire la situazione, anche e soprattutto al fine di giungere a un accettabile compromesso, alimento essenziale nella diplomazia: il Diritto Internazionale è un sistema di accordi e trattati appena un po’ meno fittizio dei fondali utilizzati nei film western.
Bisogna dire che non si tratta di una grande scoperta e neppure tanto recente; ne avevamo il sentore fin dagli studi universitari. Va precisato che, nella specie, si tratta di Diritto Internazionale (inteso come Pubblico), al cui fianco in seconda fila stava il Diritto Internazionale Privato (l’aggettivo compariva esplicitamente nei titoli in copertina). Ogni singola facoltà di Giurisprudenza adottava l’autore che più riteneva opportuno ma, in genere, là dove il testo di Diritto Internazionale spiccava per ponderosità ed eleganza dell’edizione, quello di Diritto Internazionale Privato più spesso si presentava quasi come una copia anastatica di qualche negozio di battitura e rilegatura tesi tipico di ogni sede universitaria, molto più contenuto e schematico.
Il che ci insospettiva – eravamo degli irriducibili san Tommaso e non avevamo poi tutti i torti a esserlo. In modo particolare, suscitava attenzione e alzate di sopracciglio quella tonitruante esposizione di nobilissimi principi, di altisonanti proclami e parole d’ordine di lodevolissima umanità e cooperazione transnazionale, che autoreferenzialmente si davano per accettate e praticate ovunque, salvo poi scoprire pressoché ogni sera da un qualsiasi TG che le cose non stessero proprio così. Più sottotraccia, quasi in sordina, l’esame di Diritto Internazionali Privato dettava linee di politica commerciale alquanto più semplici, comprensibili e – più importante – di immediata attuazione e verifica.
Detta in modo più semplice, era Hans Kelsen che ci perseguitava (lo fa o lo dovrebbe fare anche ai giorni nostri), ripetendoci a ogni pagina come l’entità statuale per dirsi tale e per vivere come tale, deve disporre oltre che di un territorio e di una popolazione che lo abiti, di un sistema giuridico e giudiziario in grado di dettare sia norme sia le relative sanzioni per chi le violi. Le quali sanzioni – stava lì il nocciolo della questione – o sono effettive o non sono: e se non sono effettive, quello Stato è solo una finzione, un fantaccino sorretto unicamente dalla convenienza economica. Ed eccoci arrivati al punto.
Ancora oggi nelle più prestigiose o più scalcagnate università si tengono dotti ed eleganti convegni nel corso dei quali si magnifica la nobiltà della diplomazia e gli ‘enormi passi in avanti’ (refrain insistito e, perciò stesso, privo di vero significato reale) dei rapporti fra le nazioni, mentre di solito manca un serio e compiuto esame di quanto siano efficaci le sanzioni che le autorità internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, sono chiamate a irrogare. C’è da capire il silenzio degli oratori, dato che – sempre Kelsen dietro l’angolo – l’efficacia di quelle sanzioni è vicinissima allo zero, cioè allo stesso livello della loro effettività e dell’autorevolezza di chi le dispone.
Si potrebbe dire, parafrasando il noto detto, che mentre il Diritto Pubblico si sta ancora mettendo le scarpe, quello Privato ha già fatto quattro giri di pista; è così, ma non basta l’analisi in superficie, poiché in definitiva qualsiasi struttura giuridica è, per evidenti e primarie ragioni, un fatto umano e in quanto tale, a differenza dei fenomeni metereologici, dipende dalla volontà umana. E se i due corridori si trovano in posizioni diverse le ragioni ci sono. Se negli anni ’70 un qualsiasi gruppo di studenti universitari come ce n’erano a centinaia, aveva forti dubbi sulla reale valenza dell’ONU (o della FAO o dell’OMS, ognuno valuti come creda), già allora doveva essere capito che al di là delle facciate, dei fondali da film, non ci fosse quasi nulla. Le centinaia di guerre, spesso per conto terzi, che si sono succedute nel mondo dal 1945 (all’anima bella che vi sussurra quanto siamo fortunati che non si siano mai verificate nella nostra bella Europa, provate a ricordare che ce n’è stata una circa trent’anni fa a meno di 300 chilometri in linea d’aria da dove questo articolo viene scritto), ne sono palese e tragica dimostrazione. Il Diritto Internazionale è un corpo morto, una famiglia di nobili decaduti, imbellettati e con le pezze al culo che vivono in una lussuosa magione il pagamento delle cui spese di mantenimento è la principale occupazione nonché di gran lunga la prima voce del bilancio; il Presidente Mao usava il termine ‘Tigre di carta’, ma nel caso della congrega che siede al Palazzo di Vetro, il termine ‘micione’ sarebbe più appropriato. Nel frattempo, il Diritto Internazionale Privato corre a perdifiato nella sterminata pianura che la sinistra di quasi tutto il mondo gli ha spalancato davanti: trattati di cooperazione internazionale, forniture di energia, di know how, di ricerca medica, di tecniche belliche, di libero scambio (il NAFTA fu un vero giulebbe per i narcos sudamericani: leggi Don Winslow). Quanto alle sanzioni che il mercato irroga, quelle sì sono puntuali, efficaci, effettive e funzionano come meglio non potrebbero.
Ed è quello stesso sistema internazionale privato che sta suggerendo anche agli esaltati di Downing Street e della Casa Bianca: guardate che quelli là sono abituati alle restrizioni – lo diceva anche un falco come Zbigniew Brzezinski – mentre i nostri (i vostri) non sono in grado di affrontare un milione di metri cubi di gas in meno; state attenti con le sanzioni. Tant’è che, proprio parlando di effettività, non sarà poco indicativo che sia quel coro sfiatato delle varie cancellerie a tuonare di sanzioni a destra e a sinistra: come sempre, la politica le spara grosse, tanto poi c’è l’economia a mettere le cose (confini russi e condizionatori a pieno regime) a posto.

Cesare Stradaioli