ANNIVERSARI SENZA OSPITI

Manca qualcosa, nell’insieme di interviste e servizi giornalistici in occasione del trentennale dell’operazione cosiddetta “Mani Pulite”. Si sono viste, sentite, lette dichiarazioni di esponenti politici (uomini, per lo più) che furono, a vario titolo, protagonisti di quella stagione che fu sociale, oltre che giudiziaria e politica; alcuni di quelli i cui nomi ebbero più notorietà non ci sono più, chi per cause naturali chi per altri accidenti. Poche, pochissime le voci e le opinioni di donne e uomini di oggi, che hanno l’età che quegli uomini avevano all’inizio degli anni ’90. Come se la Storia, che pure ha necessità di riportare e mantenere voci e ruoli di chi la vive in primo piano, anno dopo anno, decennio dopo decennio, potesse e dovesse essere lasciata solo a costoro.
Come si sarebbe detto un tempo: manca l’analisi. Ed è da domandarsi, innanzitutto: ci interessa, l’analisi (logicamente a posteriori) proveniente da chi fu protagonista di un certo periodo storico? E se sì, quanto ci interessa? Quanto è attendibile, pur nel rispetto che di norma merita? E quanto ci interessa – o dovrebbe interessarci – conoscere il pensiero e le valutazioni di chi vive oggi, nel presente, questa società che fu così tanto segnata da quella stagione? In certo qual modo, che ‘Mani Pulite’ sia stata consegnata alla Storia (perché è stato questo e non altro, il suo destino), ha fatto sì che il cataclisma giudiziario, i suoi presupposti e le conseguenze che ne derivarono, sia diventato materia da lasciare a chi c’era, quasi fosse argomento che poco o nulla potesse e dovesse interessare la nostra civiltà e chi, a livelli diversi, ricopre posizioni di direzione, politica, amministrativa, economica, docente, giornalistica.
Mancano serie ed approfondite analisi e riflessioni sulla dinamica libertà personale/confessione/rimessione in libertà, che era e rimane uno snodo cruciale del sistema penale. Si tratta di questioni che un tempo erano riservate a ristretti circoli di addetti ai lavori, eminenti archimandriti totalmente dediti a compiti di puntualizzazione e verifica più simili ad autopsie che a meditazioni in punto di diritto sostanziale. Ora non sono più neppure quello, poiché si è persa per strada una seria corrente di pensiero formata da giuristi, magistrati, esperti del ramo. Questo vuoto lascia molte cose in sospeso: il che raramente è cosa buona nella vita ordinaria delle persone ma diventa talvolta letale nel momento in cui si mette in moto il meccanismo delle indagini.
E’ lecita la privazione della libertà personale? Certamente, in determinati casi, specie quando riguarda persone in grado, con il potere di cui dispongono – sia esso economico o anche carismatico – di inquinare le prove, sovvertire le dinamiche dei fatti, corrompere od ostacolare l’attività di testimoni. Ovviamente tutta la trafila è vagliata da una filiera di magistrati, ma questo può non essere sufficiente a tranquillizzare le preoccupazioni di chi abbia a cuore la libertà personale. Succede che Tizio decide di ammettere determinati fatti propri e/o altrui: a questo punto non vi è più pericolo per la salvaguardia delle fonti di prova. E’ giusto, è normale, è corretto restituirgli la libertà, anche magari in attesa del suo giudizio? Naturalmente sì: la custodia in carcere è sempre l’extrema ratio. Ma, si pone una questione: non sembra, almeno all’apparenza, che questa dinamica, sfrondata di ogni orpello e tolta ogni etichetta, in fin dei conti si risolva in una semplice manovra per la quale io ti restituisco la libertà solo se?
Non c’è verso di venirne a capo: se non confidando sulla coscienza di ciascuno. Sarebbe il caso di evitare di fare le vergini vestali; sono decine le occasioni nella vita di chiunque, nelle quali non vale altro che la coscienza di qualcuno: perché tanto strepito, quando si parla di ipotesi di reato, pericolo di fuga, inquinamento delle prove o coercizione dei testimoni? Il punto è quello: non vi è risposta, dal momento che una straordinaria opera di semplificazione ha via via nel corso del tempo ridotto ogni vicenda giudiziaria a talk show televisivo. Dimenticando la fatica della ricerca, del porsi domande, del voler andare realmente a fondo. Who, what, when, why e where, stando alla meravigliosa cinquina scaturita dal giornalismo d’oltreoceano.
Perché, alla fine di tutto, dopo decenni in cui sono successe molte cose, all’interno e all’esterno dell’orticello italiano, del fenomeno a metà strada fra il giudiziario e il mediatico pare essere rimasta – diciamo così: per colatura naturale, come i condimenti a base di pesce – l’idea secondo la quale ci sono solo i corrotti. I quali, beninteso, esistono: solo che  nella narrazione partita dal fortunatissimo libro La Casta, è sparito un soggetto, il che dovrebbe essere foriero di sospetti, dal momento che il fenomeno corruttivo è un gioco che si gioca in due. Manca il corruttore. Manca quello che offre, chiede, sottosta: per comodità, per proprio tornaconto, per vigliaccheria, perché da che mondo è mondo si è sempre fatto così. Per disonestà: le parole ci sono, vadano usate. Non a caso alcuni magistrati che condussero all’epoca le indagini videro le proprie figure passare dalla venerazione assoluta mentre disponevano arresti eccellenti, al brusco voltafaccia nel momento in cui cominciarono a rivolgere l’attenzione su coloro i quali quei soldi consegnavano.
Se qualcosa rimane, come cantava l’allora biondo aedo di una certa gioventù – quella che guardava altrove mentre volavano i sampietrini – è quello che viene riproposto ancora oggi, quando chi dovrebbe offrire una descrizione storica di quanto accadde trent’anni or sono, si limita a cercare nomi e date su internet, per poi ascoltare sempre i soliti (che, come i partigiani, prima o poi si estingueranno per ragioni naturali), a perpetuare la stessa favola: C’era una volta un ridente paese, nel quale qualche migliaio di persone che venivano chiamati politici, assessori, consiglieri di vario livello locale e nazionale prendeva dei soldi per fare o non fare determinate cose. Fine della storia.
Parafrasando un verbale in pretto stile sbirresco: “Allo stato degli atti, eventuali datori di detti soldi NON sono attivamente ricercati.”

Cesare Stradaioli

LETTERA APERTA AL MINISTRO LUCIANA LAMORGESE

Signor Ministro,
da avvocato e da cittadino devo rappresentarLe tutto il mio disappunto e il mio disaccordo in merito a quanto da Lei dichiarato in Parlamento, a proposito dei fatti accaduti a ottobre 2021 a Roma e di recente a Torino.
Ho trovato decisamente risibili le Sue affermazioni – o dovremmo chiamarle ‘informative’? – in merito al comportamento delle forze di polizia durante la manifestazione asseritamente ‘No Vax’ di Roma, che nella realtà altro non era che un vero e proprio cavallo di Troia utilizzato dagli scherani neofascisti di Forza Nuova per porre in atto un annunciatissimo assalto a una sede della CGIL. Definire insufficiente, inadeguato o riduttivo il dislocamento e l’impiego delle forze dell’ordine è un favore che Lei non merita e un torto alla lingua italiana: la parola schifezza sarebbe più appropriata, per quanto magari poco elegante. Un manipolo, quanto caro questo termine a Benito Mussolini e ai suoi lugubri nostalgici, di picchiatori ha avuto libero e indisturbato accesso alle vie cittadine, in spregio di permessi e autorizzazioni e ha avuto tempo e modo di fare strame all’interno di una sede sindacale. Per puro caso non si sono avuti feriti o peggio.
In un Paese civile (o normale, citando Massimo D’Alema), già solo per questo fatto il responsabile della polizia, vale a dire il Ministro degli Interni, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni seduta stante. Quanto allo scioglimento di ‘Forza Nuova’, mi trovo d’accordo con chi sostiene che sarebbe un pannicello politico dotato della medesima forza dissuasiva dell’applicazione (sic) dela legge Scelba contro l’apologia di fascismo: zero, virgola zero.
Peraltro, neppure questo pannicello Lei ha ritenuto di utilizzare.
Quanto ai fatti di Torino, se possibile Lei si è comportata in modo ancor più riprovevole.
Al di là dell’utilizzo di un linguaggio giurassico (alla manifestazione avrebbero preso parte affiliati all’Autonomia Operaia, movimento politico sparito da decenni – se lo lasci dire da uno che ne ha fatto orgogliosamente parte), degno dei peggiori questurini degli anni ’50, basterebbe la sola dichiarazione secondo la quale le cariche della polizia furono necessarie in quanto nel corteo ci sarebbero stati degli infiltrati dei centri sociali. A parte il fatto che non risulta vi sia uno specifico divieto rivolto ai centri sociali di prendere parte a manifestazioni che esprimono libere opinioni, Lei dovrebbe spiegare per quale motivo siano stati bastonati gli studenti che sfilavano per protesta contro l’alternanza scuola-lavoro e la morte di un loro collega e non quegli infiltrati: per caso il suo sarebbe un suggerimento per il quale, al fine di ottenere migliori risultati a scuola, si dovrebbe dare 3 in pagella a chi studia e non a chi batte la fiacca e se lo merita?
Siccome, però, al peggio non vi è mai fine, Lei ha toccato definitivamente il fondo affermando che il ragazzo che ha perso la vita non fosse assimilabile a tanti altri morti sul lavoro, in quanto si trattava di uno studente. Ora, a parte le ironie (e la comprensibile ira di parenti e amici del ragazzo) che meritereste Lei e chi Le scrive gli interventi, volendo rimanere sulla lingua italiana, se una (sciagurata) legge espressamente parla di ALTERNANZA SCUOLA/LAVORO, è evidente che quando lo studente si trovi a scuola sarà uno studente, ma quando si trova a svolgere quell’attività lavorativa posta in alternanza (attenzione al termine: alternanza, non sinonimo), diamine sarà uno che lavora, nel momento in cui gli piomba addosso un paio di tonnellate di qualsiasi cosa.
Signor Ministro, Lei si è dimostrata non all’altezza del delicato e fondamentale compito che le è stato improvvidamente affidato.
Mi auguro che un solerte ripensamento – l’autocritica è, spesso, segno di maturità e consapevolezza – La induca a fare l’unica cosa positiva per il Paese e, glielo auguro sinceramente, per la Sua coscienza. Non ritengo opportuno specificare cosa.

Rispettosamente la saluto
Cesare Stradaioli

inoltrata febbraio 2022

 

 

 

RISIKO MEDIATICO

Se non fossero più che evidenti le reali coordinate di una schermaglia a metà strada fra l’economia e il posizionamento strategico nelle aree più controverse del pianeta, l’allucinante campagna stampa che attraversa pressoché tutte le testate e le agenzie italiane (si distinguono Il Fatto Quotidiano e Avvenire) ed europee a proposito dell’imminente invasione russa dell’Ucraina, meriterebbe un attento studio psicanalitico. E’ tuttavia palese il significato di quanto leggiamo e ascoltiamo tutti i giorni: c’è davvero una grande confusione sotto il cielo e, in ossequio alle migliori tradizioni delle cancellerie e presidenze del XX° secolo, bisogna dare una lezione a Mosca.
Diversamente, non si giustificherebbero – se non con preoccupanti situazioni di malessere personale da parte di chi ne fa uso – toni che evocano titoli e proclami che non sentivamo dalla crisi dei missili cubani, giusto mezzo secolo or sono.  Russo o sovietico, l’orso rimane orso e ogni tanto bisogna fargli capire chi comanda: il meschino non apprezza il sistema liberale, capisce solo il linguaggio delle armi e come tale va trattato.
Ora, potrebbe sembrare ozioso ricordare che, appunto nel 1962, per molto di meno gli USA arrivarono a un passo dallo scatenare un conflitto mondiale – per quanto improbabile fosse l’uso di armi nucleari – e che la questione non è ancora risolta, dato che un Paese sovrano soffre ancora dell’embargo comandato da Washington. Basterebbe tenere a mente che la sovranità di un Paese ricomprende anche il diritto di effettuare manovre militari pur che rimangano all’interno dei confini stabiliti e che è esattamente questo che sta facendo la Russia, a differenza degli Usa che da quasi un secolo muovono propri soldati su gran parte del globo, in pace o in guerra, per non parlare del dominio sui mari.
Conviene rimanere nell’analisi più strettamente razionale, che pare proprio essere cosa indigesta alla stampa italiana e non solo. Più nello specifico, consultando le più accreditate testate che si occupano di politica internazionale, come a esempio ‘Limes’ per rimanere nel nostro Paese, il che solleva molti dalla fatica di tradurre questo o quell’articolo.
Stando ad accreditati studi di un certo spessore, la Russia soffre di un grave calo demografico, al quale fra le altre cose corrisponde, per evidenti motivi, una drastica diminuzione del personale militare, sia in divisa sia in borghese e questo sarebbe di per sé sufficiente a dare dello sconsiderato non solo chi si ponesse in mente un’invasione in territorio europeo, sia soprattutto chi la paventa a tamburo battente. Anche dopo il crollo dell’Urss, Mosca rimane la capitale dello Stato più esteso del mondo – non esattamente circondato da amici: basta dare un’occhiata ai suoi confini. Per mantenere la sovranità, uno dei tre elementi essenziali per la nascita e vita di una forma Stato, è indispensabile un secondo dei due, la popolazione, per garantire l’integrità del terzo, cioè il territorio. In altre e più sintetiche parole: Mosca ha da diversi anni notevoli problemi nel mantenere la propria sovranità, per quanto l’economia si sia risollevata dopo le svendite da marciapiede effettuate dall’associazione a delinquere guidata da Boris Elcin. Meno popolazione, meno militari, maggiori difficoltà nel governo della propria nazione.
Le tavole sinottiche che, in maniera al limite dell’infantile molti giornali insistono a riproporre tanto per garantire quiete e serenità ai propri lettori (a proposito; il presidente ucraino chiede all’occidente di smetterla con questa campagna: sta terrorizzando i suoi connazionali), riportano enormi quantità di soldati, mezzi pesanti, forze aeree e navali, come se dovessero e potessero essere tutte interamente usate in un conflitto: il che è una solenne panzana, sporcata però di vera puttaneria giornalistica, poiché lo capisce anche un ragazzino che quelle truppe, quelle forze armate di terra di cielo e di mare sono quelle di cui dispone Mosca a presidio di tutto il proprio territorio.
Consideriamo, però, uno scenario, con accluse le motivazioni di chi muove le pedine.
Mosca dichiara guerra a Kiev (dove, peraltro, non tutti sanno che è è stata fondata): così imparano questi traditori ucraini venduti all’occidente ad accettare i missili ai miei confini e che questo sia di monito a quegli svergognati baltici che riabilitano e definiscono eroi quelli che collaborarono con i nazisti – il che, purtroppo, è vero. Ovviamente ci vorrà qualche giorno per ridurre all’impotenza l’esercito ucraino, che non pare proprio una roba da burletta; qualche altro giorno per soffocare nel sangue (un soldato non può e non deve avere le stesse remore di un agente di polizia) la rivolta di quella parte della popolazione che non rimpiange affatto la lingua russa e i rubli. Diciamo una settimana-dieci giorni?
E in questo lasso di tempo, durante un’invasione preceduta da imponenti manovre militari che non sfuggirebbero neanche al più obsoleto satellite messo in orbita dalla più scalcagnata repubblica delle banane, il mondo, l’Onu, la NATO, gli USA, la Turchia, Israele, la derelitta Europa si presume che dovrebbero rimanere con le mani in mano a vedere di nascosro l’effetto che fa.
Per ottenere cosa, poi, da parte di Mosca? Facciamo un breve, sintetico elenco delle conseguenze di questa guerra degna de “Il ruggito del topo”:
– tutti i nuovi confini occidentali della Russia saranno riempiti da quei missili che Mosca non voleva in Ucraina – e sarebbe pure da cercare col lanternino non si dica un politico, ma un qualsiasi cittadino europeo che non la troverebbe risposta più che adeguata;
– di immediato rimbalzo, Mosca dovrebbe letteralmente blindare tutti i rimanenti confini (con quali truppe, con quanti mezzi, non è dato sapere);
– allo stesso modo, l’ex Stato sovrano (grande due volte la Francia, tanto per dire) ora di nuovo sotto il tallone moscovita, dovrà essere popolato di militari e civili in perenne stato di guerra – armata e propagandistica – poiché dai tempi dell’Impero Romano, piantare una bandierina e tornarsene a casa non serve (e poi, l’Ucraina sarebbe o no, di nuovo casa Russia? tornarsene dove?);
– Vladimir Putin, tutto il suo personale politico (a cominciare dall’ineffabile ministro degli esteri Lavrov fino all’ultimo portaborse) e probabilmente anche la successiva generazione politica e diplomatica, perderebbero seduta stante ogni credibilità, in qualsiasi luogo e consesso internazionale: chi un domani presterebbe fede a simili personaggi così inaffidabili?
– a seguire, la Russia vedrebbe svanire per decenni ogni possibilità di espandersi a livello di influenza politica, perdendo ogni credito e influenza in quelle zone che con grande fatica negli ultimi quindici anni ha riguadagnato, con tanti saluti all’antico anelito prima russo, poi sovietico e ora di nuovo russo, di sottrarsi a quella sindrome da accerchiamento che, in caso di guerra, calerebbe come un sudario funebre su tutta la federazione;
– il giorno dopo ogni Stato, ogni organizzazione statale, ogni azienda pubblica e privata disdirebbe i contratti di fornitura dell’energia, soprattutto del gas, da diverso tempo il nerbo economico che consente a Putin di provare a ricreare la Russia come potenza non solo regionale: un massacro, sotto il profilo economico, sotto forma di spaventosi mancati guadagni – e il problema di come mantenere quelle famose truppe – mentre i Paesi del Golfo sarebbero più che felici di aiutare i propri amici americani a rifornire la povera Europa dell’energia necessaria (della bolletta politica se ne potrà parlare in seguito e non saranno fatti sconti di alcun genere).
Tutto questo per invadere l’Ucraina?

Cesare Stradaioli

QUANDO I MULINI ERANO BIANCHI

In un periodo nel quale non era ancora incartato nella diatriba sui vaccini, i passaporti sovietici e i premi Nobel sconosciuti, fra le altre rilevanti cose che aveva da dire Massimo Cacciari era solito ammonire a non avere troppi rimpianti per le scuole di partito; specialmente a Sinistra, riteneva che fosse il caso di togliere un po’ di mito e narrazione a proposito della loro valenza, sia politica sia umana. Non c’è che da dargli ragione, in punto di miti e narrazioni: ne abbiamo avuti fin troppi, negli ultimi decenni e tuttavia non me la sento di includere nelle due categorie quanto si diceva e si pensava di quei luoghi nei quali si sono formate generazioni di rappresentanti politici, nazionali e locali.
Fra le altre varie cose, la politica è capacità di ascoltare; due categorie, principalmente: il corpo elettorale (che, per sua natura, la politica tende a portare a sé) e gli avversari, coloro che si pongono alla guida di movimenti di pensiero diversi. Oltre, ovviamente, a cultura ed elasticità mentale. Pazienza. Equilibrio.
Nel bene e nel male erano queste le cose che venivano insegnate e studiate, in quelle scuole, a prescindere dall’orientamento politico. Il che non impedì che la politica si sporcasse: quanto meno più di quanto sia umanamente prevedibile. Intervenne un momento storico in cui una narrazione fra le altre, per l’appunto, si erse a punto di riferimento, più che di vera informazione; rappresentata da un fortunatissimo libro, il cui titolo richiamava una classe sociale rigidamente inquadrata, preservata e del tutto autoreferenziale, semplicemente – da buona narrazione quale era – rovesciò il quadro, riuscendo a mettere in ombra, fino a eliminarlo, un elemento dalla dinamica duale che costituiva il fenomeno della corruzione: colui che paga il politico corrotto. In breve, come se dal complesso di attività che portano a una gravidanza, fosse tolto di mezzo uno dei due protagonisti e il lieto evento andasse unicamente ascritto al merito di un solo soggetto, dei due che avevano preso parte alla faccenda.
Focalizzando il tutto sul politico corrotto e non sul cittadino che lo corrompeva, oltre a costituire un inatteso – e magnificamente accolto – lavacro per centinaia di migliaia, probabilmente milioni di coscienze, detta narrazione aprì una prateria al concetto di onestà; che divenne in breve pressoché l’unica qualità di cui doveva fregiarsi un candidato. Da lì, al partito liquido di Veltroni – sconcertante similitudine con certi fastidi dovuti a irritazioni enteriche – e all’uomo comune a rappresentare le istituzioni, il passo è stato spaventosamente breve, con buona pace di Guglielmo Giannini. La liquidazione – è proprio il caso di dirlo – dei partiti, specialmente di quelli che bene o male si ispiravano alla sinistra ha fatto il resto, unitamente al mito secondo il quale la professionalità dell’attività politica, lungi dall’essere garanzia di formazione ed esperienza, inevitabilmente porta alla staticità, all’attaccamento alla poltrona, all’accomodamento. O, in altri e più sbrigativi termini: il politico professionista tenderebbe alla corruzione, quello dilettante non altrettanto (non è dato sapere il perché).
Non furono profezie difficili da fare, all’epoca: siete sicuri che lo smantellamento delle strutture partitiche (che, fino a prova contraria, sarebbero ancora uno dei cardini sociali cui fa riferimento la Costituzione) non porterà all’impoverimento della classe politica? Guardatevi dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, rischiate di dare spazio a dirigenze politiche fortemente ricattabili da chi può permettersi di sborsare enormi somme sotto le vesti di donazioni; state attenti al fatto che l’onestà è pur sempre una bella cosa, ma non è sinonimo di capacità di analisi, di mediazione, di immaginare un progetto politico; badate che la fesseria dei due mandati e poi a casa finirà col creare un sistema parlamentare perennemente composto da apprendisti stregoni, senza passato e senza futuro, con potenziali accumuli di capacità letteralmente gettati alle ortiche. Parole buttate al vento e consegnate alla Storia.
Il risultato è sotto gli occhi di chi vuole, anche a malincuore, vedere.
Rappresentanti politici al limite dell’analfabetismo (qualcuno anche oltre tale limite), ignoranza diffusa di politica nazionale e internazionale, arretratezza culturale, sconcertanti modi di esprimersi che fanno dubitare perfino dell’intelligenza di taluno. La cosa che spiazza maggiormente è lo stupore: come se aprire la professione medica o quella legale, oppure al lavoro idraulico a onesti e irreprensibili cittadini del tutto digiuni di anatomia, di diritto e di condutture potesse dare altro che disastri. O, come succede da anni al ramo legislativo dello Stato, l’essere esautorati per palese incapacità di fare quello che si è chiamati a fare, opporsi, esprimersi, dare esempio di capacità politica. Accanto allo stupore, l’indignazione: costoro non sono in grado di esprimere un nome per il Colle. Ma con quali capacità, con quale esperienza politica e perfino di vita, se basta l’essere onesti per poter inserire una scheda? Tanto non varrebbe utilizzare il metodo del sorteggio, per comporre Camera, Senato e consigli amministrativi locali? Basterà che un infante peschi un certo numero di nomi da un enorme baslotto contenente tanti bei cittadini onesti e incensurati ed ecco fatto.
Quanto al pretendere che costoro – il vicino di casa, l’occasionale compagno di viaggio in treno che si informa sui quotidiani, il simpatico cittadino che rispetta la fila senza inveire, quell’altro che paga le tasse, o che addirittura legge più di un libro all’anno, l’immancabile cognato o zio del cugino per parte di madre – siano in grado anche solo di predisporre proposte di legge su lavoro, educazione, sanità, ricerca, politica estera, difesa, giustizia, patrimoni artistici e territoriali, dinamiche sindacali e mediazioni politiche (inevitabili, in un sistema quale quello descritto in Costituzione), o almeno essere consapevoli di cosa si stia parlando, questa è storia tutt’affatto diversa. E non è quella che ci troviamo a vivere.

Cesare Stradaioli

 

BERLUSCONI SI E’ SOLO CANDIDATO: SONO ALTRI A DOVERSI VERGOGNARE

Devono vergognarsi tutti i parlamentari del PDS prima, dei DS poi e infine del PD, che non hanno mai neppure provato ad apprestare quanto meno un disegno di legge che, dal 1994 in poi, ponesse finalmente in risalto una precisa legge dello Stato, risalente alla fine degli anni ’50, che averebbe di fatto reso Silvio Berlusconi non candidabile per alcuna rappresentanza governativa – non conosco, ovviamente, il percorso di ciascuno di loro (sono centinaia, negli anni): lo sanno loro e le rispettive coscienze.
Deve vergognarsi Enrico Letta che con Berlusconi ha governato e verso il quale ha più volte espresso parole di apprezzamento.
Deve vergognarsi Matteo Renzi. Per un tale elenco di motivi che non è il caso di mettere per esteso: a volerne dire uno per tutti, sarà sufficiente il semplice fatto di avere preso un caffè con Denis Verdini.
Deve vergognarsi Luciano Violante, quando intervenne in Parlamento a garantire al leader di Forza Italia che le sue emittenti sarebbero state tutelate.
Deve vergognarsi un’intera generazione di giornalisti – probabilmente anche più di una – tutte le volte in cui un singolo iscritto all’Ordine si è permesso di sostenere che la condanna definitiva per frode fosse cosa da poco, che ha passato sotto interessato e colpevole silenzio quanto scritto dalla Cassazione a proposito di finanziamenti erogati alla mafia (sono gli stessi, per le stesse ragioni – puttaneria in avanzata fase di marcescenza – che ancora adesso insistono a dire che Andreotti fu assolto per mafia, quando fu prescritto, come è successo diverse volte a Berlusconi stesso).
Devono vergognarsi i parlamentari che votarono a proposito di Ruby come nipote di Mubarak – e, comunque, se io sfrutto la prostituzione della figlia di Joe Biden, lei sarà pure la figlia di Joe Biden, invece della figlia di Jane Smith, ma io comunque commetto reato.
Devono vergognarsi tutte le donne italiane che lo hanno sostenuto e tutt’ora lo sostengono.
Dovrebbero vergognarsi quelli che sostengono l’attuale governo Draghi, sapendo che in esso si ritrova la presenza di Forza Italia: vale a dire la garanzia assoluta che gli interessi di Mediaset e Banca Mediolanum non saranno toccati.
Infine: debbono vergognarsi tutti coloro che ADESSO si svegliano – o fingono di farlo – al cospetto di un’ascesa al Quirinale che non avverrà, poiché come sempre negli ultimi 27 anni, Berlusconi sparerà alto per poi intavolare trattative e ottenere sempre lo stesso: la garanzia per i suoi patrimoni.
Lui? Lui oggi è un 85enne asseritamente malato ed è una persona singola. Gli altri sono peggio, perché sono milioni e se lui è un singolo corruttore, in denaro e in moralità, loro sono i corrotti.

Cesare Stradaioli

 

ACCADEVA: E’ ACCADUTO DI NUOVO

Un ceto politico davvero povero e miserabile.
Correva l’inizio del 1979 e con queste parole Luciano Ferrari Bravo firmava l’incipit del primo numero di ‘Magazzino’, una rivista vicina all’Autonomia Operaia: di lì a poche settimane l’esplosione nucleare a salve altrimenti conosciuta come ‘Operazione 7 aprile’ avrebbe disarticolato l’organizzazione e l’intera area politica circostante, con il suo portato di teoremi, arditi paragoni, registrazioni di voci brigatista attribuite a Toni Negri, ordini di cattura, latitanze, suicidi, vite rovinate, processi monstre, deliri di potere (‘pantalonata giudiziaria’, fu il termine che usò la Chambre d’Accusation parigina a fronte dei 46 capi di imputazione rabberciati alla bell’e meglio dalla Procura di Roma per ottenere l’estradizione – richiesta respinta – di Franco Piperno) e strascichi legali assortiti. Poteva apparire, forse fin da quel momento, come una specie di slogan, di parola d’ordine: un intellettuale di poche ma significative parole come il compianto docente veneziano non era tipo da lasciarsi andare a voli pindarici né tantomeno era portato ad apparire e quella frase, in realtà, rappresentava a pieno non solo il contenuto dell’articolo, non solo l’opinione generale che esondava l’area della sinistra extraparlamentare per diffondersi in strati non meno vasti della sinistra ufficiale, ma anche e soprattutto quello che in effetti era, quel ceto politico.
L’ubriacatura ideologica del craxismo che, messi da parte Proudhon e il garofano stava per tirare fuori artigli ideologici ben più cruenti, mostrava il vero volto di un’azione soprattutto extra parlamentare – con ciò si intenda l’inizio del processo di usura del potere legislativo in capo alle due camere – che non molto più tardi avrebbe preso le sembianze del volto trucemente sorridente dello spot pubblicitario dell’allora Fininvest, attraverso il cavallo di Troia dell’apertura del PSI alle firme più prestigiose della moda e dell’effimero; dal canto suo, la battaglia per i diritti civili furbescamente cavalcata dal Partito Radicale era in procinto per sciogliersi nell’ennesima caricatura della più recente americanata: pochi, significativi rappresentanti di quella stagione (ne dico due per tutti e forse per loro stessi e basta: Mauro Mellini e Adele Faccio), rimanevano a sventolare una bandiera che sarebbe stata poi in mano a loschi figuri immediatamente transitati nelle file berlusconiane al primo accenno di assalto alla diligenza; dal canto suo, il PCI ancora stava rimuginando torvamente sulla tragedia del caso Moro che ne aveva spaccato il guscio interno e mostrato l’incertezza del lato umano di ciascuno, mentre distribuiva a piene mani verso i propri militanti e simpatizzanti i sedicenti (ma per nulla seducenti) successi delle presidenze di Camera e della Repubblica (chi si chiedesse cosa avesse a che fare Pertini con il Partito Comunista, dovrebbe anche interrogarsi su cosa effettivamente avesse in comune con Craxi e i suoi – salvo rare eccezioni – impresentabili corifei), il tutto preparandosi ad appoggiare la magistratura inquirente nell’operazione che avrebbe portato a radere pressoché al suolo tutto quanto alla propria sinistra non si trovasse allineato alla politica belringueriana.
Eppure.
Eppure quei rappresentanti, molto più direttamente eletti di quanto non lo siano quelli che attualmente popolano i banchi parlamentari, sia pure definiti in maniera allora così sferzante nel panorama odierno appaiono come giganti della politica, della capacità di ascolto, di intelligenza, di abilità nella mediazione e nel confronto (e nel conflitto), se paragonati ai personaggetti – a pensarci, il solo presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, inventore del termine, parrebbe in qualche modo non sfigurare al confronto dei passati – che da un anno cantano quasi in coro le lodi all’esecutivo più ecumenico della storia italiana, guidato da un banchiere ultraliberista e fiero monetarista e che al massimo fra un anno e poco più si troveranno a farsi la conta e a verificare quanti fra loro, nel parlamento scioccamente dimezzato da un disegno politico che bisognerebbe definire criminale se non fosse sfrenatamente idiota, saranno ancora a rivolgersi dandosi reciprocamente dell’onorevole e del senatore.
L’esperienza di vita dovrebbe insegnare a molti, se non a tutti, che guardarsi indietro non sia pratica sana e consigliabile, specie se si vuole pensare al futuro del quale il presente non è che il prologo; non è sana neppure per non dover essere condannati a pensare sempre che si stava meglio quando si stava peggio – sempre che, prima, peggio si stesse sul serio.

Cesare Stradaioli

 

QUALCHE DOMANDA

Dalla conferenza stampa rilasciata ieri è emerso, piuttosto chiaramente, che Mario Draghi accetterà la candidatura alla carica di Presidente della Repubblica.
Non è, infatti, possibile interpretare in altro modo – se non a un momentaneo e comprensibilissimo calo di zuccheri: deve essere faticoso oltre ogni limite, tenere ben UNA conferenza stampa all’anno – il riferimento al fatto che il lavoro sarebbe stato compiuto e che potrà essere agevolmente proseguito da (per il vero, non meglio specificati) altri.
Ora, a prescindere dalla nauseante ondata di lodi ed encomi rivolti a un esecutivo talmente ecumenico da ricomprendere un’accozzaglia di plotoni ognuno dei quali preso singolarmente a buon diritto è nominabile come Armata Brancaleone in sedicesimo (l’attuale coalizione di governo rappresenta, a una stima sommaria, circa il 40% per cento degli elettori che hanno espresso un voto indirizzato a un candidato o a una formazione politica) e mettendo per un momento da parte la surreale scena nella quale il Presidente del Consiglio Mario Draghi rimette il proprio mandato nelle mani di Mario Draghi, neo Presidente della Repubblica (a meno che a qualche bella mente illuminata non venga l’idea di cumulare le due cariche, ma in questo caso suggerirei anche quelle di Presidente del Senato, della Camera, della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e della Conferenza dei Presidenti di Regione – CSM e Forze Armate già sono appannaggio dell’inquilino del Quirinale), avrei qualche domanda da porre a chiunque fosse così cortese da rispondermi senza usare slogan e frasi fatte, che già ce ne sono in abbondanza e in sovrappiù, vale a dire:
a) quale lavoro sarebbe stato fatto dall’attuale esecutivo, oltre all’ordinaria predisposizione della legge di bilancio e la reiterazione dello stato di emergenza?
b) quale sarebbe la caratura istituzionale e soprattutto di rango costituzionale di un banchiere neoliberista e accanitamente monetarista, che non più tardi di 11 anni or sono si permise di scrivere che l’esecutivo pro tempore (frutto di libere e regolari elezioni, almeno fino a prova contraria) non fosse adatto a guidare oltre il Paese, inducendo così l’allora Presidente della Repubblica ad agire di sciagurata conseguenza?
c) quali garanzie di equanimità e di rappresentanza super partes e non divisiva darebbe una figura non abituata al confronto, al dialogo, allo scontro, non essendo mai stato Draghi eletto in vita sua per nessuna delle prestigiose cariche ricoperte, con il che non essendosi MAI trovato a dover rendere conto del proprio operato a una platea elettorale che lì l’avrebbe messo, se mai fosse stato votato a seguito di un preciso programma politico?

Cesare Stradaioli

 

SE IL 16% VI SEMBRA POCO…

A un certo punto lo scambio di opinioni deve fermarsi di fronte a un dato di fatto: se le rilevazioni operate su base nazionale corrispondono al vero, diversi milioni di nostri connazionali non sono vaccinati, o per rifiuto supportato da ragioni che qui non è il caso di sindacare, ovvero in forza di timori per la propria salute. In altre e poche parole: non solo non tutelano la loro salute, ma mettono a repentaglio quella della comunità cui appartengono. Otto milioni di persone non sono tante, non sono poche: sono quello che sono e già il fatto di essere qualcosa in più di qualche migliaio dovrebbe costituire motivo di riflessione.
Non si tratta solo della salute pubblica: pressoché ogni manifestazione di pensiero contraria al vaccino e alle misure di prevenzione e profilassi, per come viene esposta e rappresentata, ha il significato di un sommovimento sociale che rischia di compromettere la stessa unità nazionale. Paese fragile, il nostro: dotato di formidabile unità familistica – con tutti i suoi pro (non tanti) e contro (tantissimi) – tanto quanto è disossato in larghe parti della sua struttura, non solo amministrativa bensì anche sociale, intesa coma sommatoria di individualità. Corpose e compiute analisi sono già state fatte, non v’è nulla di nuovo, comunque si esamini la situazione: scansate le corbellerie quali identità nazionale e pallidi epigoni di reflui schiumosi di razza italiana, rimane il dato di fatto che ci pone quotidianamente sotto gli occhi un Paese ancora troppo poco recente – non giovane: attenzione – per potersi dire al riparo da sconquassi che, d’altra parte, non sembrano lontanissimi neppure in contrade abituate da secoli a vestire i panni del reame, impero, repubblica, pronti a seconda dei casi a partire per le colonie o a sventolare il vessillo nazionale in patria, quale sottofondo per gli arsenali navali e militari.
L’Italia è un Paese a serio rischio di disfacimento sociale e per quanto siano calcolabili in poche migliaia coloro che sfilano rumorosamente per le strade cittadine a vantare un diritto a decidere per loro stessi, ciò non di meno essi sono la punta di un iceberg che di teste, per l’appunto, ne conta milioni e il fatto che al loro interno (posto che ce ne sia uno solo) siano frammentati, disuniti, eterogenei, non ne sminuisce la portata come onda prettamente politica. Altro non può essere definito il loro agire solo apparentemente apolitico o antipolitico: e come politico, il loro peso deve essere valutato.
E, tuttavia, per quanto siano a volte odiosi i loro modi di fare, per quanto avvilenti siano i loro ragionamenti, per quanto essi possano rappresentare una minaccia per la salute pubblica e per ciascuno di loro stessi (il che è la medesima cosa), ebbene costoro non sono, non possono, non debbono essere considerati nemici da battere, avversari da umiliare. Non ce lo possiamo permettere, proprio in ragione dell’estrema fragilità del nostro impianto sociale. E per forza di cose, non fosse altro per mera onestà intellettuale, deve essere usata nei loro confronti una certa dose di indulgenza; l’imbecille che sfila contro i vaccini vestendo una camicia a righe con la stella di Davide probabilmente nella maggior parte dei casi ignora che il tizio che gli sfila accanto e che con lui vorrebbe essere comunità di resistenza ad asseriti soprusi, oltre a essere quello che gli fa intonare canti che portano ritornelli direttamente presi da ‘All’arme siam fascisti’, è anche uno di coloro i quali negano che ci siano stati disgraziati che le abbiano indossate, quelle camicie, unitamente ai tatuaggi identificativi sugli avambracci.
In tutti i modi possibili, leciti e plausibili, questa cospicua parte di nostri connazionali deve essere recuperata al dialogo, al confronto, anche a costo di fare concessioni; questa non è una finale di coppa del mondo, non è una battaglia fra nemici: la partita che dobbiamo metterci in testa di dover giocare deve finire in parità, dal momento che non è questo né il luogo né il tempo per vincitori e vinti. Sicuramente il virus sarà delimitato, ridotto ai minimi effetti; costerà altri morti, altri ammalati cronici, altra sofferenza e altre restrizioni, ma alla fine il gesto (se non l’intimo afflato) civico prevarrà. Ma se non riusciremo a mantenere quel poco di coesione sociale di cui abbiamo bisogno come l’aria ora, da sempre e per sempre, avremo vinto una guerra che ci troveremo a celebrare su un mucchio di rovine fumanti. E non saranno gli edifici a essere distrutti.

Cesare Stradaioli

NO PASARAN!

Non devono. Non glielo possiamo consentire: prima di tutto, non lo dobbiamo consentire a noi stessi. Non giocheremo sul loro territorio, non suoneremo i loro strumenti, non useremo i loro vezzi dialettici. Non ci abbasseremo al loro livello.
Dobbiamo impedire a noi stessi, a quelli come noi di anche solo pensare di escludere dalle cure garantite dal nostro sistema sanitario e dalla nostra civiltà giuridica chiunque rifiuti di vaccinarsi e di dotarsi di mezzi di etero e autoprotezione come mascherine e certificati di vaccinazione. Passeranno e prevarranno se riusciranno a convincere un qualsivoglia governo, un qualsivoglia parlamento e un qualsivoglia consorzio sociale a esercitare una specie di punizione, di esenzione dalla giustizia sociale che, per principio e per concetti che comporta, è di destra, reazionaria, portatrice e garante di disuguaglianza.
Guai a noi se dovessimo cedere su un simile presidio: oltrepassato quello, vi sarebbe solo il diluvio, lo spalancarsi di infinite praterie ai sensi più retrivi, bestiali e predatori dell’animo umano, dei quali dobbiamo essere necessariamente consapevoli – diversamente, a che pro una legge, se fossimo tutti spiriti invincibilmente virtuosi? Assisteremmo allo sfaldarsi di quel poco di coesione sociale – così poca ce n’è, nel nostro Paese, che meriterebbe maggior tutela – che ancora rimane. Allo stesso modo in cui non possiamo permettere di escludere dalla scuola i figli minorenni di genitori che non li vogliono sottoporre ai vaccini infantili – pena il creare una non trascurabile porzione di nostri connazionali non solo senza protezione contro malattie invalidanti e a volte mortali, ma anche contro l’ignoranza, l’analfabetismo di ritorno, la regressione culturale e umana, così noi dobbiamo mantenere per tutti, anche per coloro che rifiutano sia la cura ma soprattutto il senso di socialità (del quale, peraltro, non pochi fra loro si fanno scudo), l’assistenza sanitaria statale, uno dei simboli più importanti della nostra società: misureremo così la differenza che corre fra chi custodisce dentro di sé la legge morale dell’uguaglianza e coloro i quali numerano i cittadini solo come individui e non come gruppo sociale.

Cesare Stradaioli

 

DA QUALE PULPITO VIENE LA RAZIONALITA’

C’è una definizione, che pare in grado di dare un nome a quello che sembra un generico impazzimento sui vaccini e che, per contro, cela una diffusa perdita di coesione sociale in molti se non tutti gli Stati occidentali; deficit di razionalità. Possiamo chiamarla perdita di una certa capacità di raziocinio, di lucidità di analisi, di presa di coscienza, di consapevolezza della realtà che circonda l’uomo in sé come individuo e come gruppo: gli arsenali linguistici non sono meno ricchi di quelli bellici e talvolta neppure meno pericolosi.
E vada pur bene una qualsiasi, o tutte insieme, di quelle definizioni di cui sopra, per mettere una bella etichetta su coloro i quali sfidano malattia, morte e senso della logica, sfilano per protesta contro le vaccinazioni e i presidi di prevenzione del contagio, gridando frasi e slogan del tutto privi di quella razionalità spesso richiamata. E tuttavia: che dire, in presenza di una tragedia che meriterebbe ben altre e più corpose manifestazioni di opinione – migranti usati come pedine di scambi politici ed economici, a crepare di freddo, di fame e di denegata dignità umana – ascoltando proclami, chiamate alle armi e minacce di sanzioni che provengono da autorità di fatto o emerite sotto l’usbergo dell’Europa?
Sergio Romano dice parole accorate e autorevoli – l’uomo aveva e ha pur sempre un profilo che si staglia ben al di sopra della media – su cosa dovrebbe fare l’Europa, come dovrebbe intervenire, quali e quante voci dovrebbero levarsi, al cospetto di quel bello spettacolo che sta andando in scena ai confini fra Polonia e Bielorussia, sistematicamente replicato, con situazioni diverse fra loro, sulle coste del Mediterraneo. Altre voci l’hanno preceduto, qualcuno andrà a seguito dei suoi auspici: più o meno autorevoli (più meno che più), ripeteranno lo stesso copione, le stesse strutture sintattiche e gli stessi esiti.
A costoro che parlano, più spesso a sproposito, di razionalità, vorrei chiedere: ma di quale Unione (a proposito dell’Europa) parlate? Quella che vede ogni Stato agire per conto proprio? Dove ciascuno si fa le regole proprie, i propri dazi, le proprie tassazioni – se componenti di una qualsiasi associazione privata si comportassero come Irlanda e Olanda verrebbero immediatamente cacciati o deferiti a un’autorità giudiziaria – fissando a piacimento benefici e concessioni dai quali traggono enormi profitti le multinazionali offrendo come contropartita decise posizioni politiche (si chiama voto di scambio)? Un’unione nella quale tutti, mano sul cuore a ogni stormir di inno, si proclamano toccati fin nel profondo dal fenomeno delle migrazioni, pronti a dare il proprio contributo (soprattutto dando asilo a migranti provvisti di titoli di studio e competenze: dei meno dotati si occupino gli altri, se proprio ci tengono), per poi delegare la gestione del bestiame umano? Una specie di ircocervo all’interno del quale emeriti cicisbei avvezzi a passare la propria vita al ventesimo piano fra moquette e scrivanie in legno pregiato incrociano ridicole armi verbali con indecenti scimmioni, impresentabili anche presso la più squalificata festa di paese, sbavano parolacce neo e proto naziste e vomitevoli appelli a identità fasulle? Un’unione asseritamente economica, dove vige una moneta introdotta PRIMA di un vero sistema di rappresentanza democratica, ovvero l’esatto contrario di quanto insegna un qualsiasi testo di dottrine politiche, una casa assertivamente comune, nella quale sono stati costruiti tetto e terrazze, scordandosi le fondamenta (anche quelle, buone per ogni omelia, delle radici cristiane del continente), dove perciò trionfano delocalizzazioni e minijobs?
Sarebbe questo, un esercizio di razionalità? Da opporre all’irrazionalità dei deliri no-vax? Auspicare un intervento dell’Europa, guardandosi bene dallo specificare chi, come, quando, con quali mezzi e con costi sostenuti da chi? E di quale Europa, poi? Quella che include anche coloro che ci tengono un piede dentro e uno fuori? E’ chiaro che tutti costoro parlano a ragion veduta e cioè non credendo neppure per un attimo a una sola delle parole che usano: diversamente, saremmo costretti a considerarli tutti degli imbecilli e non lo sono per nulla. I loro richiami alla razionalità, a non meglio specificati interventi salvifici non sono altro che prediche per rampognare i fedeli, ammonirli dell’inferno appena dietro l’angolo, per poi concludere il tutto con qualche paternoster e tutti a casa che la coscienza è più sollevata e c’è il pranzo domenicale che aspetta.
Con tutto il rispetto dovuto a una figura come Sergio Romano, tanto varrebbe rivolgersi a Padre Pio. Quando la casa brucia, recita un vecchio adagio mitteleuropeo, si può pregare o lavare il pavimento; comunque, pregare è più pratico.

Cesare Stradaioli