QUELLI CHE PASSANO SOTTO CASA

Autorevoli firme su “Domani” invitano a non trarre affrettate conclusioni dalle manifestazioni tenutesi in diverse città italiane contro il cosiddetto ‘green pass’ e l’obbligo vaccinale. A prescindere dal diritto di ciascuno di manifestare le proprie idee, viene scritto, va tenuto conto del fatto che si tratta di episodi aventi come promotori e partecipanti esigue minoranze della popolazione. Qualche migliaio, riporto a memoria una frase scritta a mo’ di sintesi, in una città di centinaia di migliaia di abitanti come Torino, rappresenta una percentuale, non un movimento tale da preoccupare più che poco. 
E’ perfino superfluo osservare come in una popolazione stimata in oltre 60 milioni di abitanti, sia più che fisiologico che una certa parte di essa manifesti opinioni che possiamo trovare disgustose quando non del tutto lunari. Sarà pure vero. Il fatto è che l’assessore assassino di Voghera non sedeva sulla poltrona della sicurezza grazie a un colpo di mano, operato nottetempo, mentre i buoni vogheresi dormivano; né il sindaco – che è stata in grado di parlare di ‘strumentalizzazione’ dell’episodio, riuscendo a non scrivere neppure una parola di cordoglio o compassione per la vittima e i suoi parenti – è diventata tale a seguito di brogli elettorali. Così come in quel comune emiliano l’intera giunta comunale era stata liberamente eletta (e rieletta) da quella stessa popolazione che era scesa in piazza opponendosi all’arrivo in loco di una ventina di povere disgraziate migranti, sopravvissute all’esodo transafricano dal loro Paese, ai lager libici e alla traversata del Mediterraneo. E, votanti o meno, erano e sono pur sempre nostri connazionali, quegli infelici che qualche anno fa intesero impedire l’arrivo di diverse famiglie di stranieri, assegnatarie di alloggi popolari, bloccando i furgoni con le vivande – non poche di queste famiglie di italiani non erano in grado di garantire una decente colazione ai propri figli e, malgrado ciò, gettavano a terra e li calpestavano, panini e bottiglie di acqua. Cose che avrebbero mosso a sdegno il più indifferente fra i nostri nonni, che del pane e della fame avevano qualche nozione diretta. 
Esempi come questi se ne possono fare quanti se ne vogliono: non passa praticamente giorno senza che si leggano o si ascoltino incitamenti all’odio, alla legittimità di qualsiasi difesa, fino all’inverosimiglianza, alla rivalsa dell’identità italiana e cose del genere. Serve quasi tenersi pronti a scansarle – non volendole né leggere né sentire – certe notizie, tante sono e mortificanti per quel minimo di socialità che è rimasta. Di passaggio, è una situazione di degrado morale che dovrebbe tenere sveglie la notte le migliori menti della Chiesa cattolica, assolutamente predominante (almeno formalmente) nel nostro Paese: non si ricorda, nelle cronache anche le più avvilenti dei decenni e forse secoli scorsi, una tale mancanza di compassione, di umanità, di pietas e, si badi bene, non si tratta di deliranti discorsi da un balcone o da un predellino, fatti per ricevere ovazioni da una massa che neppure capisce bene fino in fondo cosa viene detto, bensì di un sentire che finalmente esce allo scoperto e che non sembra davvero confinabile a qualche centinaio di torinesi esaltati. 
Succede di ribattere a critiche forti, a volte legittime altre volte ingiuste, a questo o quel rappresentante politico nazionale o locale del M5S: bisogna ogni volta ricordare che Beppe Grillo è UNO, come UNO è Di Maio, come lo sono Fico, Di Battista e tutti gli altri che sono stati eletti. Ciò di cui è doveroso tenere conto, lo dovrebbe fare anche e soprattutto chi da sinistra o da posizioni liberali copre di insulti un giorno sì e un giorno anche la complessiva esperienza politica di questo movimento, è che per quanto si possa essere in disaccordo con questo o quel politico che a esso fa riferimento, esiste una percentuale rilevanti di cittadini che hanno scelto quel movimento in luogo di altre opzioni politiche o dell’astensione. I motivi ci sono, dati gli anni passati dagli esordi sono anche piuttosto radicati: fingere che non ci siano e denigrarli – loro e chi li esprime – è intellettualmente disonesto, oltre che politicamente idiota. 
Allo stesso modo, è indispensabile rispondere allo stesso modo a ogni moto di indignazione o disgusto o semplice disaccordo con quanto viene detto, mimato, urlato da Salvini o Meloni: entrambi loro sono UNO ciascuno, ma hanno dietro di sé una considerevole percentuale di persone che non da oggi e neanche da ieri li vota, come loro la pensa e da loro vogliono la messa in pratica di quanto viene detto. 
Non riesco a essere tranquillo, come lo sono le firme di “Domani”: le idee, gli slogan, lo stesso modo di vivere di coloro che sono sfilati in corteo straparlando di libertà e sconciando la Stella di David, tirandola in ballo equiparando le costrizioni in fin dei conti decise da un governo legittimamente in carica alle persecuzioni antisemite, non sono effimeri rigurgiti di spontaneismo che dura lo spazio di un mattino e le voci che li gridano non sono affatto poche e, per di più, ben poco assimilabili – qualcuno l’ha tirata in ballo in maniera impropria – alla nota ‘maggioranza silenziosa’ che innervava l’Italia degli anni ’60 e ’70: coloro che sono scesi in piazza sono molto più preoccupanti di quella maggioranza che, se non altro, rispettava la legge e nella più gran parte praticava la solidarietà, laica e confessionale, percependosi pur sempre (nella loro protesta, per l’appunto, silenziosa), come parti di un consorzio civile e non come spettatori nell’arena, divisi in gruppi di ultrà da curva nord.

Cesare Stradaioli

I METODI CHE NON VANNO

C’è una cosa da chiarire subito, con la seguente premessa: la vulgata secondo la quale se la giustizia penale è boccheggiante, quella civile è vicina al coma irreversibile, come non poche vulgate corrisponde sostanzialmente al vero. Ma c’è, come detto, una cosa da chiarire: ciò non dipende dalla struttura del processo civile o, quanto meno, non nella misura maggiore e più importante, quanto piuttosto da quello che succede dopo. E cioè, spesso quasi niente. 
Ha poco senso accertare che in questo o quel tribunale una causa civile giunge a definitività in tot giorni, per poi calibrarne il tasso di efficienza: nella realtà, la durata di una procedura civile non è particolarmente lunga, purtroppo specie se rapportata alle lungaggini che affliggono la nostra società. Il vero problema sorge il giorno successivo in cui una sentenza diventa irrevocabile: da quel momento in poi, per il creditore di una somma, per colui che si vede riconosciuto un diritto, il concretarsi della decisione finale, vale a dire l’effettivo pagamento della somma o la messa in atto del diritto vantato e riconosciuto (l’abbattimento di un ecomostro, la restituzione di un alloggio, la sistemazione di un confine, il diritto all’uso di determinate frequenze video e radio, la sistemazione personale ed economica di un divorzio) si scontra con la sopravvenuta – od originaria – incapienza del debitore condannato, ovvero con un’indefinita serie di intralci burocratici, tecnici, politici (specie nelle amministrazioni locali). Tutto ciò rende, di fatto, impossibile mettere in concreto quando deciso da un giudice civile, sicché parlare di durata del processo civile e limitarsi ad affrontare quella fase specifica, si risolve in una scampagnata fuori sentiero che non porta da nessuna parte. 
Detto ciò, è inaccettabile che un esecutivo lavori a tamburo battente e porti al voto di fiducia, saltando cioè la discussione parlamentare, una riforma quale quella che viene presentata in queste settimane, segnatamente per quanto attiene all’istituto della prescrizione. 
E’ inaccettabile ed è da irresponsabili dato che, concettualmente, prima di saltare il dibattito parlamentare, si sorvola sulla fase più importante di qualsiasi riforma degna di tale nome, vale a dire un serio, approfondito e minuzioso esame di quanto si ritiene meritevole di modifica, di aggiornamento, destinato quasi esclusivamente a dei tecnici, cultori della materia ed esperti delle strutture sociali e materiale che eventualmente ne venissero interessate, che valuti tutte le possibili opzioni, per giungere a un testo finale, quanto più possibile non aggredibile sotto il profilo politico. 
In altre parole, bisogna sapere di cosa si parla e su cosa si mette mano. Principi di buon governo e di gestione della famiglia che, peraltro, aveva ben chiare in testa un uomo del suo tempo come mio nonno il quale, come milioni di suoi concittadini, pure restio ai cambiamenti, mai li avrebbe affidati a chi non avesse idea di cosa stesse facendo o di cosa stesse parlando, si fosse anche trattato di sostituire il sistema frenante del suo calesse. 
Che qualcuno sollevi il sopracciglio un tantino offeso a sentir dire che il ministro Cartabia, valente giurista, non abbia idea di come funzioni un ufficio qualsiasi di un qualsiasi tribunale o Procura, avendo fatto tutt’altro e da tutt’altra parte in vita e che, in tal senso non possa avere competenze per fare certe affermazioni, dovrebbe fare un po’ sorridere, ma temo che il tempo dei sorrisi sia finito e forse era anche ora. Non è necessario che il ministro della Giustizia pro tempore vanti esperienza diretta di prim’ordine su questo o quel ramo del sistema giudiziario sotto la cui riforma si appresta a mettere la firma – e la faccia: è invece indispensabile che scelga collaboratori di assoluto valore (vale per qualsiasi dicastero) e che eviti di dire cose che, quando non sono dannose, sono inutili. Che la Procura di Napoli – come diverse altre – abbia un carico di lavoro particolarmente gravoso dovuto ad un altissimo tasso di criminalità (che peraltro non tiene conto del gran numero di reati che non vengono denunciati: per paura, per omertà, per stanchezza, per sfiducia), molto maggiore di realtà assimilabili solo sotto il profilo della densità abitativa, della bellezza della città o della sua notorietà, è cosa nota anche al passante più distratto; sicché alzare un attimo il tono chiedendosi perché se una cosa funziona a Berlino non debba funzionare anche a Brema, è sciocchezza che offende non solo il passante di cui sopra, che potrebbe benissimo infischiarsene (come, di fatto, se ne infischia: fino al momento in cui non gli tocca di comparire in aula come imputato, teste o parte offesa), ma anche l’intelligenza e il lavoro di chi dentro i tribunali ci sta con una certa continuità. 
Ma, al di là di ciò, che potrebbe anche essere catalogato come corbelleria di basso livello (per il fatto di essere stato sommo poeta, insignito col Nobel per la Letteratura, Eugenio Montale avrebbe dovuto essere considerato esperto di sistemi di insegnamento della lingua italiana?), è il metodo che non va bene. Molto semplicemente perché una questione fondamentale come una riforma, anche solo parziale, di un istituto così importante come la prescrizione, non può anzitutto essere messa ai voti di fiducia – l’esecutivo scavalca il legislativo per decidere di quello giudiziario – ma per certi versi nemmeno deve essere condivisa allo spasimo. Cosa che sembra essere il destino di qualsiasi legge, di qualsiasi provvedimento governativo emesso o promosso da un esecutivo che imbarca tutti e a tutti deve chiedere il permesso per fare. Con le conseguenze di cui leggiamo ogni giorno: a parte le opinioni personali nel merito, è da chiedersi quale intelligenza superiore possa avere immaginato di poter mettere d’accordo la Lega con la parte più a sinistra dell’attuale esecutivo sui contenuti di un decreto quale quello con primo firmatario Alessandro Zan, senza mettere in conto, come minimo, succosi e avvilenti facio ut facias, da parte di chi ancora stenta a realizzare di essere stato inopinatamente chiamato a fare parte di un governo che dovrebbe gestire la ripresa economica post Covid19. 
Fatico a credere che una soluzione del genere possa essere gradita a chi ne chiede la realizzazione in cambio dei fondi europei per fare fronte alla pandemia: sempre che a costoro interessi davvero il funzionamento della giustizia nel nostro Paese e non solamente il destino di qualche intoccabile o gruppo di potere, immune dal carcere o al quale non potersi chiedere conto, anche risarcitorio, delle nefandezze compiute.

Cesare Stradaioli

IL RISPETTO CHE SI MERITA

Le forze dell’ordine hanno, per legge esistente più o meno e in varie declinazioni in ogni forma statuale al mondo, il monopolio dell’uso legittimo della forza. Concetto introiettato a tal punto nel comune sentire da non richiedere particolari spiegazioni. Il codice penale italiano stabilisce che, in determinati casi, l’uso delle armi venga esteso al cittadino che ne sia richiesto da un pubblico ufficiale (articolo 53, comma II°). Si tratta di una previsione di notevole peso, poiché marca una netta differenza fra la legittimazione all’uso della coazione fisica, che può arrivare al ferimento o alla morte di un altro cittadino verso la quale detta coazione viene usata e che, però, non costituisce reato e le varie forme di scriminante (la legittima difesa, il suo eventuale eccesso colposo, lo stato di necessità), che prevedono riduzioni di pena o assoluzioni, all’esito di una precedente incriminazione, vale a dire almeno un inizio di procedimento nei confronti di colui il quale, di principio, NON sia legittimato all’uso della forza. 
Ora, la qualifica di pubblico ufficiale – che eserciti la suddetta forza o che ne chieda l’uso a un privato cittadino – prevede necessariamente una struttura gerarchica, una catena di comando che indichi poteri e relative responsabilità in ordine a una serie di attività, altrimenti non consentite a nessuno che non abbia quella qualifica. Per cui è – o dovrebbe essere – chiaro come la responsabilità di determinate azioni che portino a lesioni, ferimenti o morte di altri, prima di tutto debba ricadere su chi detenga, a vario titolo e grado, una posizione gerarchicamente definita, dalla quale derivi il compito e il potere di dirigere, vigilare e coordinare mezzi e personale sottoposti: compito e potere che, per l’appunto, pongono in capo a chi li eserciti, la responsabilità di quanto accade, nell’ordinaria e nella straordinaria amministrazione.
In questo senso, il brutale e per nulla indiscriminato (vedremo poi la ragione di questa specificazione) pestaggio avvenuto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, presenta una precisa analogia con quanto accadde or sono venti anni a Genova durante il G8: la totale carenza di legittimazione all’uso della forza, mancando del tutto le ragioni e le necessità che essa si spingesse – in entrambi i casi – al di là di un’ordinaria azione di polizia, tesa a prevenire il crimine. Se fosse stato necessario operare una perquisizione ed eventualmente procedere allo sgombero dei locali della scuola Diaz, il tutto avrebbe sì legittimamente richiesto che le forze dell’ordine giungessero in loco dotate di armi (prima di tutto di dissuasione e poi, se del caso, di costrizione), ma certamente non che, senza nessuna ragione di ordine pubblico precedente e contemporanea all’irruzione, si iniziasse da subito a procedere con gesti di violenza inusitata e, per ciò stesso, priva di qualsiasi legittimazione. 
Lo stesso dicasi per quanto è avvenuto in carcere; vi era stata una rivolta di alcuni detenuti, i quali avevano sicuramente usato violenza a oggetti della struttura e, verosimilmente, anche nei confronti di altri loro compagni di detenzione e sotto questo profilo la Polizia Penitenziaria irrompeva a pieno titolo nei locali occupati per ripristinare l’ordine pubblico e le regolari funzioni di una struttura penitenziaria. Quello che è stato, fin da subito, inaccettabile senza scrupoli di sorta, è la predisposizione di vere e proprie catene (orge, verrebbe da chiamarle) punitive ben oltre e ben al di là di qualche singolo gesto di violenza – rientrante nella legittimazione più volte richiamata- necessario e sufficiente a ripristinare l’ordine. A Genova qualcuno che non portava la divisa, avrebbe dovuto rispondere dello sconcio che avvenne: a Santa Maria Capua Vetere qualcuno non in divisa dovrà essere chiamato a giudizio. 
Ma. 
Ma non ci si può e non ci si deve riparare, come una sorta di lavacro di coscienza, dietro la figura gerarchica di coloro i quali avrebbero dovuto, a diverso titolo, selezionare il personale, coordinarlo con disposizioni precise e non equivocabili e, se del caso, intervenire immediatamente per limitarne eventuali eccessi i quali, per definizione, travalicano la più volte richiamata legittimazione. E se a Genova non fu possibile individuare gli autori materiali del massacro, venti anni dopo i filmati ci danno volti e identificazioni sicure affinché la magistratura possa procedere. 
Perché né a Genova né in Campania NESSUNO che portava una divisa poteva e potrà mai difendersi sostenendo di avere ricevuto un ordine, quand’anche gli ordini ci fossero stati. Nel XXI secolo nessuno più, neppure in determinati casi estremi che possono presentarsi durante un conflitto bellico, potrà addurre lo stato di necessità “o io o loro”; oggi come vent’anni fa, la scelta c’è sempre ed è una sola: io. Io non lo faccio e io ci rimetto. Perché sono esseri umani, non macchine più o meno intelligenti, coloro che portano divisa e armi e non è più consentito di mandare la coscienza in soffitta per un quarto d’ora o tutto il pomeriggio e picchiare selvaggiamente altri esseri umani indifesi – qualcuno addirittura in stato di minorata difesa, fisica e mentale o linguistica. 
Non basta, però. Qualcuno verrà processato e condannato. Ma non cambierà niente, come è ormai acclarato da assodati studi di criminologia e di sociologia, se il tutto rimarrà come sempre circoscritto a quattro cosiddette ‘mele marce’. Non fosse altro per il fatto che se un cesto ne contiene alcune, vorrà pur dire che il marcio da qualche parte arriva e nel caso specifico (ma anche in tantissimi altri che emergono dalle cronache giudiziarie) detto marcio proviene direttamente dalla nostra società. Quella in cui nascono e crescono cittadini educati, forzati, indotti all’uso della prevaricazione e della violenza, quasi sempre accompagnato dal badare bene che detta violenza non venga rivolta al più forte, al più temuto, al più rispettato. Ciò che qualifica il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere come tutto tranne che indiscriminato, è il fatto – posto nel dovuto rilievo da Roberto Saviano: solo da lui, purtroppo – che nessun appartenente o semplice affiliato o simpatizzante alla criminalità organizzata ivi detenuto, sia stato minimamente sfiorato da quelle aberranti manifestazioni di violenza fisica (e da quelle perfino peggiori – bisogna arrivare a dirlo – di violenza verbale e gestuale verso chi è a terra sanguinante; lo sputo in faccia dopo le percosse) che, con non pochi ostacoli e difficoltà, sono giunte nelle case di ognuno con quelle orrende e degradanti (anche per tutti noi) riprese audio e video. 
Non sono i primi e non saranno gli ultimi, quegli indecenti uomini del tutto indegni di portare una divisa (come indegni di detenere un comando, vuoi per connivenza, vuoi per dabbenaggine o debolezza morale, sono quelli gerarchicamente loro superiori) a fare quello che tutti abbiamo visto: per non parlare di quello che non abbiamo visto né mai vedremo, in altre situazioni. Condannati loro, allontanati da qualsiasi incarico di pubblica sicurezza – e bisognerebbe però che anche istituzioni private che si servono di personale proprio prestassero maggiore attenzione a chi assumono e a chi mettono in mano un’arma – ne resteranno migliaia, sicuramente milioni purtroppo, che ancora stanno al mondo, nella nostra società, in qualsiasi posizione, in qualsiasi ganglio del potere a fare i forti con i deboli e i rispettosi con i forti. Se chi dirige è difficilmente individuabile e spesso ha più di un modo per scaricare su altri responsabilità che sono proprie, è però pur vero che, non da oggi, nella nostra società chi, come si suol dire, mette gli stivali sul terreno, ha il DIRITTO di dire di no, di non fare proprio tutto quello che gli viene ordinato di fare e, soprattutto, ha il DOVERE morale di non fare quello che può capitare che venga in mente di fare. 
Prima si comincia – meglio: si ricomincia – fin dalla scuola elementare a insegnare questi principi e prima, pian piano, si arriverà a fare in modo che il rispetto venga dato a chi se lo merita: a se stessi, innanzitutto.

Cesare Stradaioli

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SUL DDL “ZAN”

Al di là delle argomentazioni proposte dall’articolo di Odifreddi, che mi trovano totalmente d’accordo, ecco qualche osservazione sulla asserita necessità di una legislazione quale quella contenuta nel DDL c.d. “Zan”.
Prima, una premessa metodologica: il decreto prevede l’inserimento della discriminazione per sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità, all’interno dell’articolo 604bis, che punisce l’istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Con tutte le varie fattispecie aggravanti, inclusa l’associazione, che vi risparmio in quanto lunghe, noiose e ripetitive. Il senso del 604bis è quello.
Ora, personalmente trovo fuori luogo equiparare atti di discriminazione di carattere sessuale (della disabilità, di cui pure si occupa il ddl Zan, non parla nessuno), a quelli ben più alti e di portata storica notevolmente maggiore: non fosse altro per il fatto che le situazioni, le condizioni la cui discriminazione è punita dall’art. 604bis sono definite, oggettive oltre che soggettive; là dove, per contro, l’identità sessuale viene rimessa alla libera e discrezionale decisione del singolo, con tutte le problematiche di indefinitezza che ciò rappresenta. In caso di approvazione, troverei più che probabile una sanzione da parte della Corte Costituzionale, proprio sul punto.
La particolare tutela dell’art. 604bis trova il fondamento ovviamente nella Costituzione ma anche – e come conseguenza – in quanto accadde nel XX secolo: tanto che sia in Costituzione sia nell’articolo 604bis è stato mantenuto l’aggettivo “razziali”, quando la comunità scientifica da decenni esclude l’esistenza di razze diverse da quella umana, unica al mondo.
Una persona oggetto di discriminazione, sul lavoro, in politica, nell’insegnamento, dove volete, è già tutelata dalle norme di ordine pubblico, del codice civile e dei vari regolamenti del lavoro: in pratica, si può licenziare per giusta causa ma non perché uno è omosessuale o transessuale. NON SI PUO’, la legge attuale non lo consente, punto e basta.

Quanto alle offese, proprie di chi non tollera le opzioni di carattere sessuale, anche qui capiamoci su metodo; due settimane or sono, il Corriere della Sera per due giorni ha fatto una paginata intera (con tatnto di titolo scatola) su un ragazzo, offeso perché vestiva fucsia. Il punto è che la cosiddetta ‘offesa’ consisteva nella seguente frase: “Ma non ti vergogni?” Senza neppure la specificazione del perché avrebbe dovuto vergognarsi.
Questa NON è un’offesa: è un’espressione di pensiero. Non lo sarebbe neppure la frase “Tu sei uno che dovrebbe vergognarsi”, per lo stesso motivo.
Detto ciò, facciamola breve e sintetica: dare del finocchio a uno, dare della sporca lesbica leccafighe a una donna o del ‘mongoloide’ a un cittadino, non è altro che diffamazione (il reato di ingiuria è stato abrogato nel 2016), prevista e punita dall’articolo 595, con possibili varie aggravanti (e sul punto, a differenza della diffamazione su altre questioni, non è ammessa la prova liberatoria; esempio, posso provare che Tizio è un ladro e che avevo ragione a definirlo tale, mentre ovviamente provare che sia omosessuale, non essendo reato, non costituisce motivo di esimente).
Esempio di aggravanti: l’articolo 61 del codice penale prevede le aggravanti; i motivi abbietti o futili (n. 1), avere commesso il fatto con abuso di poteri, violazione di obblighi inerenti a un pubblico servizio (n. 8), l’avere commesso il fatto con abuso di relazioni o autorità domestiche, d’ufficio, di prestazione di opera, di assistenza, di ospitalità o coabitazione (n. 11), l’avere commesso il fatto contro un minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione e formazione (n. 11ter), l’avere commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie, pubbliche private ovvero socio-educative (n. 11sexies).
Un bel respiro.
Ce n’è per andare ben oltre i due anni di condanna, limite all’interno del quale è prevista la sospensione condizionale della pena – posto che il condannato sia incensurato, altrimenti non c’è verso.

Due cose sul femminicidio e sulla tortura.
A parte il fatto che a me non garberebbe l’introduzione del reato di “legalicidio”, pure in presenza di una lunga e corposa serie di uccisioni di avvocati (anche se, secondo Shakespeare, sarebbe un buon inizio, per qualsiasi cosa), e senza rifare un elenco, come per la tortura, vi invito a leggervi i seguenti articoli del codice penale:
– 575 – omicidio
– 576 e 577 – aggravanti speciali
– 582 – lesione personale
– 583 – aggravanti speciali
– 583bis – mutilazioni
– 61 – circostanze aggravanti comuni

 Considerando che le aggravanti possono aumentare la pena base di metà e oltre e che in caso di recidiva (semplice, se hai già commesso un reato; specifica, se il reato era della stessa specie; reiterata, se sei già stato condannato come recidivo; infraquinquennale – per evidenti ragioni) la pena può essere aumentata fino a 2/3, sono sicuro che anche all’attenzione di chi non sia esperto di diritto penale, appaia chiaro come il codice, di per sé, contenga tutte le aggravanti necessarie senza bisogno di introdurre nuove fattispecie.
Un esempio per tutti: i fatti di Genova del 2001.
Molti rimpiangono che all’epoca non vi fosse il reato di tortura; provate a fare i conti con le aggravanti e vedete se non si arriva a 10-12 anni di reclusione, anche senza quella fattispecie che all’epoca non c’era.
Il problema dei fatti di Genova nello specifico è che non fu possibile identificare i criminali in divisa; più in generale, il problema è dei giudici, qualcuno particolarmente restio ad applicare le aggravanti, ma questo è un problema culturale, non di legislazione penale.
A Santa Maria Capua Vetere vi fu tortura? E chi lo dice? Le immagini?
Io vedo esseri umani sottoposti a violenze immotivate, illecite e aggravate dall’abiezione, dai motivi futili e dall’abuso di autorità. Appunto. Non serviva il reato di tortura per arrivare a pene adeguate.
In ipotesi, non ho bisogno di mettere l’etichetta ‘tortura’ a un episodio in cui vengono usati elettrodi, mutilazioni, finto annegamenti o finte fucilazioni o altro: sono tutte lesioni in sé gravissime pluriaggravate dagli stessi fattori oggettivi e soggettivi di cui sopra.
Così come non ci dovrebbe essere bisogno di dare un’identità sessuale a un’uccisione.
Perché l’omicidio di una donna dovrebbe, in sé, essere punito con maggiore gravità di quello di un uomo?
Non può esserlo. Bene. Allora, a che pro la legge speciale? Quando nel codice ci sono già tutte le aggravanti che avrete avuto la pazienza di andare a leggervi?
Forse che una risposta penale più aspra possa avere l’intento di porre un argine, per quanto possibile, a quel vero e proprio fenomeno sociale dell’uccisione di donne, mogli, figlie, sorelle, fidanzate, proprie e altrui?
Una volta tanto, gli Stati Uniti offrono un esempio virtuoso: l’inasprimento delle pene NON basta, in sé, a circoscrivere il crimine che si intende contenere, ANZI tende ad aggravarlo ed estremizzarlo.

Il codice penale italiano, per quanto ancora con il nome Rocco, prevede già adesso tutte le possibili ipotesi di reato-pena.
Ancora un esempio e poi basta; la norma che tutela il segreto epistolare è l’articolo 616, così intitolato; Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza.
Non c’è bisogno di una norma particolare, pur dopo 90 anni da che il codice è entrato in vigore: anche adesso, un giudice può applicare tale articolo alle violazioni e reati che riguardano il flusso telematico.

Spero di essere stato sufficientemente chiaro e poco noioso.

Le norme sono di non agevole lettura e di faticosa interpretazione: a me, lo dite?

C

 

 

 

A VOLTE RITORNANO (in occasione della riapertura della rivista “MicroMega”)

Parafrasando quanto disse Fortini a Firenze nel 1967 a proposito della guerra in Viet-nam, il concetto di Sinistra ci divise, ci divide e ci dividerà. Prima ce ne faremo una ragione e più sollecitamente saremo in grado di opporci a un nuovo, inaccettabile ordine mondiale il quale vive e lotta contro di noi pur nelle sue profonde divisioni, proprio in quanto, è il caso di dirlo (le) sa governare  molto meglio di noi e di chi ci ha preceduto. 
Fin qui, ritengo, niente di che: ‘vivere’ le divisioni, nella teoria e – sia benedetta l’ora! – anche nella pratica politica, mi pare il minimo sindacale, quanto meno nel mondo degli adulti. Se non che, questa volta senza parafrasi ma in citazione diretta, rimane difficile sfuggire alla questione “Dimmi con chi vai e ti dirò se vengo anch’io”, posta dal grande pensatore contemporaneo Roberto ‘Freak’ Antoni. A proposito di divisioni, scendendo sul personale, in occasione del ritorno di “MicroMega”, penso di saperne qualcosa: non solo dal punto di vista squisitamente politico, ma anche in quello che riguarda il mondo del lavoro. Da avvocato penalista quale sono da trentacinque anni (passati politicamente a scontrarmi con la categoria e a condividere molte ragioni dei giudici), mi sono trovato di frequente a sbuffare, leggendo gli interventi di Travaglio, di Scarpinato, di Caselli o dello stesso Flores d’Arcais, quando non era il singolo fascicolo a volare dall’altra parte della stanza, in luogo dello sbuffo di insofferenza. L’articolo 41bis – rimango convinto che, addetti ai lavori a parte, quasi tutti coloro che si esprimono a suo favore non abbiano la minima idea di cosa significhi nel concreto della vita carceraria – l’ergastolo cosiddetto ‘ostativo’, la stessa legge sui cosiddetti ‘pentiti’ (quante cose cosiddette, nel nostro Paese…), l’enorme potere delle Procure, il ruolo dell’avvocato difensore non di rado sbeffeggiato, deriso e svalutato (ci abbiamo messo del nostro, va detto) e via discorrendo: si tratta di argomenti che per forza di cose sono divisivi e, sempre a titolo personale, non mi può bastare la consapevolezza di essere stati spesso in buona compagnia (uno per tutti: Franco Cordero, il Maestro). 
E tuttavia, che si tratti di diritto, di libertà personale, di quello che in questi anni si presenta come un ritorno al passato in pura salsa al gusto Restaurazione nei confronti della Magistratura (che, pure, ha le sue belle rogne da grattarsi: e chi scrive è uno dei forse quattordici o quindici avvocati in tutta Italia a essere contrario alla separazione delle carriere), di giustizia, uguaglianza, socialità – opposizione: verrebbe da dire, in una sola parola – rimane il fatto di prendere sul serio coscienza dell’essere di fronte a una vera e propria emergenza: e mai come adesso sembra opportuno e realmente significativo spendere quel sostantivo di cui è stato fatto più spesso abuso che uso consapevole. 
Un’emergenza sociale; definizione che, di per sé, può anche non significare nulla, se non viene arricchita di significati. D’altronde, ben altre firme hanno definito la Libertà ‘un sacco vuoto’: che va riempito poiché un sacco vuoto è un oggetto inutile, al limite dell’inesistenza. E dunque, mettere tutto dentro il sacco chiamato emergenza sociale; proviamo a fare una lista? Così come viene? Lavoro, scuola, ricerca, educazione civica, giustizia, rappresentanza politica, sanità pubblica, frantumazione regionale (frammentazione andava bene prima del ‘tana libera tutti’ declamato a più voci, e non tutte leghiste o di destra, in occasione della pandemia), federalismo stracciaculo, concentrazione editoriale parente stretta del monopolio, moneta unica e cessione di sovranità, recupero e finalmente attuazione dei più importanti capisaldi della nostra Costituzione, solidarietà, internazionalismo (evviva!), ambiente, ecologia, corruzione (leggasi: corrotti e corruttori; pare surreale dover ricordare, di tanto in tanto, che se la mazzetta qualcuno la prende, per forza c’è qualcuno che la porge). 
Ce n’è a sufficienza per dividerci fino al prossimo secolo; però, se ci guardiamo indietro – ogni tanto serve – possiamo trarre degli insegnamenti dagli errori del passato. Il che non significa puntare a un unanimismo di facciata, pronto a deflagrare al minimo stormir di fronde: l’abbiamo già visto, questo film, non ci piaceva ma l’abbiamo rivisto più volte, nei vari sequel. D’altra parte, a costo di essere pretenzioso, non mi accontenterei di opporre resistenza, bensì vorrei che le nostre argomentazioni fossero anche e soprattutto propositive e lo dico – lo ammetto – mettendoci anche un po’ di sentimento: ho raggiunto l’età che ancora in gran parte non avevano le firme di MicroMega al tempo in cui vivevo un’alternanza fra pieno consenso con i contenuti della rivista e il lancio del fascicolo di cui sopra; mi punge una certa urgenza almeno di intravvedere qualcosa di concreto, di propositivo (e di Sinistra), quanto più possibile depurato dalla faziosità che ancora imbeve il nostro Paese, dall’ultimo degli odiatori da tastiera fino al primo dei più onesti intellettuali. Con tutti i dovuti distinguo, sia chiaro; ma insomma uno che ha letto un certo numero di libri e ha la capacità e l’opportunità di confrontarsi con gli altri ha poco spazio per le scusanti, poiché come diceva Bunuel, c’è un limite anche alla prostituzione. 
Benvenuta, bentornata MicroMega, anche e soprattutto nelle diversità di opinioni. E che nessuno si stupisca più che il giovin padrone volesse liberarsene. Quelli come lui non sono ciechi e raramente commettono errori: fare a meno di una voce come quella letteralmente impersonata da Flores d’Arcais è un errore secondo i NOSTRI canoni di giudizio, che qualcuno ancora si sforza a volere presente anche nell’avversario e ci rimane male quando fa cose che noi non faremmo mai. 
Costoro, gli avversari – le parole ci sono: che siano usate! – ci vedono benissimo. Facciamo qualcosa di nuovo: mettiamo insieme quello che ci unisce, approfittando di questa occasione e proviamo a vedere più lontano di loro. Abbiamo dalla nostra motivazioni maggiormente nobili e non mi pare davvero poco.

Cesare Stradaioli

 

 

LE FORZE ARMATE DELLA LINGUA

Può capitare di trovare nelle pagine della posta dei lettori (una volta erano le ‘lettere’), normalmente indirizzata al direttore della testata ovvero a una delle firme di spicco della stessa, interventi degni del miglior inviato speciale. Forse proprio in ragione della assoluta ‘normalità’ della figura di chi scrive. E’ di qualche giorno fa la comparsa nella rubrica de Il Corriere della Sera, dell’interessante testimonianza – vale la pena di spendere un termine così importante – di un lettore il quale, di ritorno in Italia da una lunghissima permanenza all’estero, fra l’altro si diceva colpito in modo particolare da due cose: la gente (includeva nel termine anche i volti e le voci radiotelevisivi) parla a voce più alta e in modo più volgare, con un impressionante ritorno delle inflessioni dialettali. 
L’abbruttimento del modo di comunicare, dando sulla voce all’altro e utilizzando sempre più spesso, sempre più in pubblico termini maggiormente adatti al vernacolo, è cosa risaputa e, purtroppo, da ormai molto tempo. Vedeva lontano, Pasolini, quando scriveva di omologazione; non sarebbe certo rimasto stupito che un tale processo potesse inquinare, fra le prime cose, la comunicazione interpersonale, a tutti i livelli. Probabile che avesse intravisto un passaggio successivo e ulteriore, vale a dire l’omologazione nella critica di quella stessa omologazione che paventava. Poiché, quanto meno in linea di principio, nessuno ragionevolmente approva il fatto che taluno interrompa l’interlocutore e viceversa, e che almeno formalmente l’uso delle cosiddette parolacce viene stigmatizzato da chiunque, il tutto finisce lì. Siamo d’accordo, procediamo oltre. L’uniformità di giudizi, in un consorzio civile particolarmente portato all’omologazione, perpetua il processo: lo fanno tutti, come si fa a cambiare modo? Lo sosteneva anche Giorgio Gaber in alcuni dei suoi monologhi migliori: dichiaro che siamo nella merda più totale, mi ci metto dentro anch’io ed ecco che ho fatto il mio compitino. Altri si occupino del che fare e come: io ho preso coscienza. Anche questa è omologazione; non spetta a me: dunque non spetta a nessuno. 
Ritengo, però, che l’assalto continuo alla lingua italiana – e con questo intendo anche e prima di tutto la corretta dizione della stessa – costituisca un qualcosa di perfino più dannoso del turpiloquio e della prevaricazione verbale, in quanto esso si concreta anche e direi soprattutto al di fuori e lontano da contesti dove si trovano volgarità e l’interruzione dell’interlocutore. E’ una guerra silenziosa – può sembrare paradossale, trattandosi di parole dette, ma passa sotto silenzio proprio in ragione del suo procedere in maniera carsica – a bassa intensità, combattuta in casa, al lavoro, a scuola, nelle relazioni personali e nei mezzi di comunicazione prettamente orali, anche quando sono in video. L’erosione della lingua italiana è frutto del processo di sistematica idiotizzazione e diseducazione alfabetica che interessa decine di milioni di cittadini: del che la televisione è da ritenersi la responsabile in solido con le decisioni di una classe politica che considera la scuola e l’insegnamento solo come voci di spesa e non di investimento nel futuro. Conseguenza – ma qualcuno potrebbe intravvedervi anche uno scopo – di tutto ciò è una situazione di frammentazione sociale, di scollamento civile e individuale, che retrocede il nostro Paese a livelli di cultura e consapevolezza che si potevano riscontrare nell’immediato secondo dopoguerra. Si trattasse di uno scopo, come abbiamo appena scritto e non già l’esito di una politica solo scellerata e mascalzona, non si potrebbe negare l’immenso ritorno che ne deriverebbe in termini di consenso politico, poiché è latente in molte altre situazioni nazionali (ma in Italia è endemica a livello superiore) la tendenza a favorire non solo il politico che dica solo cose buone e mai quella scomode, ma soprattutto che le dica buone e non scomode per me, per il mio villaggio, per la mia comunità, per il mio orticello di casa. Luoghi materiale e dello spirito dove il dialetto marca non già una appartenenza – non sono altro che diversivi per turisti, gli argomenti su quanto conti a livello culturale l’appartenere a un qualcosa di tradizionale – quanto piuttosto un confine fatto di mura e torrette di guardia, che serve a fare in modo che rimanga chiunque non comprenda l’idioma o l’inflessione, circoscrivendo il tutto all’iperestensione del personale, che porta a una indefinita serie di multimicrocosmi, in luogo di una vera e propria società civile. 
E’ stato detto che una lingua nazionale non sia altro che un dialetto come altri: dotatasi, nel tempo, di esercito, marina e aviazione, prevalendo così sugli altri col monopolio legale della forza. Che in questo modo si formino le entità statali è cosa che ignorano solo i bambini dell’asilo; chiunque lo neghi, ignora la Storisa. Chiunque teorizzi e pratichi l’assalto alle armate della lingua nazionale, giustificando e accettando l’indecente e intollerabile fenomeno della diffusione di ritorno delle inflessioni dialettali e dei dialetti veri e propri a tutti i livelli della comunicazione, perché è così che vuole la cittadinanza, si rende responsabile di un inaccettabile salto all’indietro: con, come vero e primo risultato, fasce di adulti, classi di studenti e di bambini dell’asilo che si esprimono in maniera tale da capirsi solo fra loro, con la prevalenza dell’istinto (aspirazione è un termine che richiede un minimo di consapevolezza di sé) che porta a voler essere guidati e controllati per tutta la vita da qualcuno a ciò delegato.
Che, come il padrone della parabola di Dario Fo, è tale sia dal punto di vista del lavoro sia da quello del controllo sociale perché conosce più parole del rimbecillito cittadino a metà, lieto e garrulo di parlare un linguaggio che lo riporta ai propri trisavoli.

Cesare Stradaioli

LE DISTRAZIONI FRA PUBBLICO E PRIVATO

Che il tutto sia da attribuire alla progressiva distruzione della sanità pubblica in favore di quella privata, è un falso problema. Intendo dire questo: poiché la constatazione di quanto evidenti e indiscutibili siano le conseguenze delle impressionanti riduzioni di investimenti umani e finanziari sofferti dalla sanità pubblica, è condivisa pressoché da tutti, a parte una specie di riserva indiana di resistenti giapponesi ultraliberisti, ciò stesso deve indurci a guardare oltre. E’ chiaro come anteporre il profitto al servizio, valga per la sanità tanto quanto per le somministrazioni di acqua o energia elettrica – senza la nazionalizzazione che creò l’Enel avremmo ancora adesso ampie fasce del territorio nazionale sprovviste di questo bene essenziale – e comporti disservizi (pubblici) e altissimi profitti (privati) ed è altrettanto chiaro che quando il sistema sanitario di una nazione nel suo complesso viene aggredito da qualcosa che vada oltre le ‘normali’ conseguenze di una ‘normale’ influenza stagionale, tutto il comparto vada in crisi.
Ma il problema pubblico/privato è falso non solo perché viene sollevato ADESSO a tutto campo – merita cautela ogni convergere uniforme ed eterogeneo: spesso nasconde l’arma di distrazione di massa – ma anche perché quello che sta accadendo e cioè, in poche parole, la totale frammentazione degli interventi di cura e prevenzione della pandemia, manifestatasi in eterogenee e improvvise iniziative del tutto autonome e distinte fra loro, quando mai come nel caso di una patologia a livello nazionale è indispensabile una sola centrale di comando e di azione, non è altro che la conseguenza della delega alle Regioni di un numero elevato, per quanto illogico nel suo quadro complessivo, di competenze e incarichi. 
Un Paese come l’Italia conta un venti Regioni (delle quali cinque a statuto autonomo, oltre all’autonomia delle Provincie di Trento e Bolzano all’interno di una di queste), un centinaio di provincie e oltre ottomila Comuni. Basterebbe questo filotto di numeri per comprendere, all’istante, come per quanti sforzi di sburocratizzazione si facciano; per quanti interventi tesi a velocizzare la macchina pubblica si compiano; per quanti progetti di modernizzazione ci si faccia venire in mente e si mettano perfino a regime, tutto questo non avrà mai uno sviluppo e una logica e sensata razionalizzazione. Per il semplice motivo che non è possibile aversi una uniformità di scelte strategiche e di intervento concreto in un Paese così sminuzzato e frammentato: caratteri che possono portare dovunque tranne che nella direzione dell’unità di intenti. Le Regioni sono un terreno fertile per alimentare personalismi, rivalse, campanilismi; marchi di dannazione che vengono enfatizzati nell’istituto del Comune, un tempo lontano simbolo di crescita culturale ed economica, ora nient’altro che residuo di una funzione storica ormai decaduta e priva di logica; entrambe queste istituzioni tenute in vita al solo scopo di alimentare interessi privati e localismi unicamente dediti al particulare, del tutto sconnesse e fuori fuoco con una minima idea di società civile nel suo complesso e di unità nazionale. 
La Provincia in cui vivo, avente come capoluogo una città di poco più di duecentomila abitanti, conta 110 Comuni. 110 sindaci, 110 consigli comunali e così via. Non mi pare che ci sia molto altro da aggiungere. Qualche decennio fa qualcuno prese seriamente in esame una razionalizzazione della suddivisione territoriale e, ovviamente, fu pensato pressoché all’unisono di abolire l’istituto meno frammentato e più rispondente alla politica contemporanea, vale a dire le Provincie, mantenendo gli altri due. Attenzione: decisione insensata solo in un’ottica di bene comune e progresso civile; del tutto logica in quella corrente, fatta di spartizioni di poltrone e dividenti, pubblici e privati. 
Per questo, l’umiliazione della sanità pubblica in favore di quella privata è un falso problema: fino a quando nel nostro Paese non si muoveranno sforzi e intelligenze per una più razionale – e utile – suddivisione del territorio al di sotto dell’egida statale in un’unica forma, l’Italia rimarrà quello che è sempre stata: una nazione divisa, rancorosa, disarticolata, civile a tratti, funzionante a macchia di leopardo, scontenta ovunque; nella sanità, nella scuola, nell’industria, nell’agricoltura e nel turismo. Improvvisate e pelose autocritiche – più spesso eterocritiche, a ben guardare – sul chi, come quando come e perché la sanità pubblica (come la scuola, del resto) sia stata abbandonata in favore del settore privato, rischia di rimanere la classica consapevolezza da salotto romano, che lascia il tempo che trova quando tutti salutano e tornano a casa, a fare le stesse cose. 
Ben più serio sarebbe rimettere mano sul Titolo Quinto della Costituzione, al fine di dare un assetto amministrativo e politico al Paese, che vada oltre le tradizioni del passato che appesantiscono come bagaglio inutile e dannoso il cammino verso un’Italia diversa. Va da sé che andranno essere esclusi da tale intervento (meglio sarebbe anche dalla vita politica) tutti coloro che, in Parlamento con il loro voto e fuori di esso con le rispettive influenze, contribuirono a quella nefasta riforma.

Cesare Stradaioli

 

 

MORTE (TUTT’ALTRO CHE IMPRONOSTICABILE) DI UN PARTITO MAI NATO

Che la forma-partito, così come la conoscevamo e com’è individuata nella Costituzione, non sia più consona e neppure adattabile all’attuale sviluppo delle dinamiche politiche e sociali, piaccia o meno è un dato di fatto e quello degli unici due che nel XX° secolo riuscirono a portare a ideare e realizzare una Rivoluzione sosteneva che i dati di fatto hanno la testa dura. Tuttavia, se buona parte – la maggiore – dei caratteri che connotavano un classico partito fino a tre quarti del secolo scorso si è persa per strada o ha fatto il proprio tempo, per dare vita a una forza politica degna di tale nome, devono necessariamente essere presenti principi e punti di partenza i quali, in un modo o nell’altro, fungano da collante e coordinamento di una serie di istanze sociali e territoriali (quali che siano, anche solo di bottega, come pare sia diventato l’unico fine che giustifica l’esistenza di una associazione chiamate Confindustria) che muovono le persone a pensare alla politica al di fuori dell’orticello di casa propria. Qualcosa che, in sintesi, può essere ricondotto a due elementi: un progetto politico che venga elaborato muovendo da un minimo di coesione.

La storia politica europea a partire dalla formazione dei primi aggregati di persone che si riunivano, dibattevano e prendevano decisioni in vista del valorizzare e sostenere una serie indefinita di istanze, di rivendicazioni e infine di leggi, ha conosciuto ogni tipo di unione e spaccatura, non sempre e non tutte indolori e senza spargimento di sangue, anche non in senso metaforico. Ma era già all’epoca presente in molti osservatori l’idea che la creazione di un qualcosa chiamato Partito Democratico, proprio in ragione dei singoli percorsi politici di chi se ne assunse la responsabilità, avesse in tutta evidenza la parvenza, poi rivelatasi sostanza, di un qualcosa frutto quasi esclusivo di una forzatura: cosa che, in politica, raramente porta a risultati apprezzabili. O a risultati tout court
L’enfasi che accompagnò un variegato movimento di ribellione al disegno berlusconiano di sistematico smantellamento non tanto dell’operatività di uno stato sociale (Forza Italia non ha mai girato le spalle a una presenza statale nell’economia, pena la perdita di un consistente apporto elettorale), quanto dei principi che ne stanno alla base, oltre all’altra gamba su cui si regge una forma Stato, vale a dire l’autorevolezza delle istituzioni, enfasi accompagnata da un sistematico fiato corto – che, in politica come nello sport o nelle emergenze, porta inevitabilmente a scelte sbagliate – coprì di retorica e di ridicole chiamate all’emergenza e alle armi tutte le voci di coloro che avevano ben più di qualcosa da ridire sulla commistione sotto il nome di ‘partito’ di una insensata, improponibile e inverosimile congerie di esperienze politiche, che non poteva avere un futuro. I fatti, ancora loro, sembrano suggerire, quasi venti anni dopo – un battito di ciglia, nei tempi della politica – che questo futuro non ci sarà. 
L’ispirazione ‘di sinistra’ che con maggiore forza sostenne la nascita del PD (e doveva per forza esserlo, di sinistra: andavano convinti quelli che da quella parte avevano in passato votato; ai residuati bellici socialisti e democristiani non parve vero che gli si offrisse un posto in carrozza, dopo che avevano meritato di rimanere a piedi), aveva in mente, fra le altre cose, l’idea di una libera circolazione interna delle idee, delle opinioni, anche in profonda discordia con quella che avesse caratterizzato, di volta in volta, la linea del gruppo dirigente. Non più centralismo democratico, appartenente a una vecchia politica, bensì un libero fluttuare di spunti, lampi di genio e infatuazioni del momento: il partito liquido, elaborazione a stento da definirsi ‘politica’, che – purtroppo – dobbiamo a Valter Veltroni. 
Il problema sta nel fatto che un gruppo di dirigenti – sono sempre quelli, in definitiva e per fortuna, a guidare una formazione politica – provenienti da esperienze umane e politiche che più eterogenee non si poteva immaginarne, deve avere la capacità, la forza morale e fisica, l’intelligenza e la preparazione adatte per governare quella formazione politica, prima di preoccuparsi di governare il Paese o anche semplicemente il Comune o la Regione. Chi ha conosciuto la Democrazia Cristiana e il peso che ha avuto – e che tutt’ora ha – nella nostra società, ha bene fissa nella memoria la quantità di volte in cui all’interno di quel partito (pienamente degno di quel nome) si scatenarono rivolgimenti, vere e proprie lotte intestine, clamorosi scontri fra fazioni denominate correnti, i quali per la maggior parte dei casi si risolvevano in rimpasti di governo e/o con la cooptazione di truppe cammellate provenienti da altre formazioni parlamentari, dispostissime a garantire la sua leadership in cambio di poltrone di vario peso e potere. Tutto quanto di conflittuale accadeva all’interno del partito di maggioranza relativa era perfettamente normale, considerate le persone che ne facevano parte, con il loro portato di esperienze politiche e sociali; ai vertici, come nella base, convergevano nella DC, insieme a convinti cattolici di centro, politici che già all’epoca (non ora, nel tempo in cui le differenze ideologiche sono scolorite) non avrebbero sfigurato in altre e diverse formazioni politiche, di destra e di sinistra, incluse le rispettive ali estreme. 
Sbaglierebbe chi pensasse che tutti costoro convivessero unicamente allo scopo di mantenere poteri e prebende, i quali sono certamente formidabili ordigni per governare un Paese; non bastavano per tenere sotto le stesse insegne politiche personaggi come Andreotti e galantuomini come Zaccagnini. Nacque, con la Democrazia Cristiana, e si mantenne – fino al suo dissolversi per rimanere salda tutt’ora al governo, centrale e locale – una forte comunanza di vedute, di futuribili, di progetti i quali, per nutrendosi delle solite, ben note cibarie (anticomunismo, schieramento occidentale, saldissima unione con il Vaticano), le utilizzavano come materiale da saldatura e questo per il semplice motivo che, al di là della chiarezza dei progetti, tutti di larghissimo respiro, il personale politico che la componeva era formato da uomini e donne di grande personalità, di instancabile capacità di mediazione, oltre naturalmente – per la più gran parte di loro – di sconfinate disinvoltura e spregiudicatezza. A ben guardare, tutte qualità che mancano nei rappresentanti del Partito Democratico. 
Muove quasi a tenerezza l’accorato appello di Gianni Cuperlo, uno dei pochi presentabili, oltre che dotati di una buona parte delle suddette qualità – non a caso uno degli ultimi a essere stato formato in una vera scuola di partito, quale che possano essere critiche e riserve su questi organi interni – ad esortare un rinnovamento del PD. Come se si potesse non tenere conto della estrema frammentazione in esso insita la quale, lungi dal divenire ricchezza dialettica e capacità decisionale, fa di questa unione politica un vascello senza comandanti – ma anche, molto ma molto più importanti, senza secondi all’altezza – e senza una rotta precisa, continuamente sballottato fra gli scogli che ne frantumano il fasciame e un mare aperto che nessuno si decide a prendere, non essendo in grado di governarlo. 
Tutto sommato, non avranno futuro neppure i ‘vecchi’ ex democristiani (cominciano anche loro ad avere una certa età, il che non gli guadagna per nulla il rispetto di quelli più giovani), coinvolti anch’essi nel declino di quelli che provengono dal PCI. Hanno avuto e avranno ancora la possibilità di dirigere quello che resta di un ircocervo politico – e rimane da vedere se, al netto di esplosioni adolescenziali dell’ex sindaco di Firenze, davvero l’inqualificabile Renzi sia davvero così peggio di un Enrico Letta – ma il percorso volge al tramonto anche per loro e non è un bel vedere, specie se, dall’altra parte, trionfa una coppia assolutamente vincente: i finti sovranisti della Lega e i genuinissimi fautori del liberismo sfrenato filo Unione Europea. Tutti costoro, oltre a quelli che si svegliano a mezzogiorno, dopo l’ennesimo squillo della sveglia (o, per dirla alla milanese, quelli come il tizio che dopo tre piatt’ l’ha capì che l’era risòtt) caratterizzati da un notevole fiuto per il situazionismo, spina dorsale dei tempi in cui ci tocca vivere. 
Rimangono, pallidi, gli ultimi giapponesi come Cuperlo a cercare di fare ciò che costituzionalmente non riesce loro, vale a dire alzare la voce in mezzo al baccano. Ma sia una nota di stima, il riferimento a coloro che rimangono a combattere: l’onestà intellettuale, a differenza dell’opportunismo, non merita dileggio.

Cesare Stradaioli

DI NUOVO SUL VINCOLO DI MANDATO

C’è un presupposto, alla indecente carnevalata della (presunta) crisi di governo innescata dal senatore Matteo Renzi: presupposto che, immediatamente – e necessariamente – diventa momento chiave, ma successivo alle dimissioni di due ministri facenti parte del partito dell’ex presidente del consiglio. Tutto quanto sta accadendo al momento in Italia e che sta verosimilmente ostacolando o ritardando non solo le operazioni di somministrazione del vaccino, ma con tutta probabilità altre, diverse ma non meno importanti attività, che riguardano scuola, lavoro, decisioni centralizzate e locali, è possibile solamente in base al principio costituzionale secondo il quale ogni parlamentare svolge la propria attività senza vincolo di mandato (cfr. articolo 67 della Carta). 
Ove mai detto vincolo fosse già stato introdotto – come personalmente sostengo da anni – i contatti interpersonali intrecciati al fine di convincere al voto a favore ovvero contrario all’attuale esecutivo in carica, semplicemente non avrebbero senso di esistere. Per contro, proprio la possibilità – direi la necessità – che si tengano, è il presupposto che abbia avuto luogo un’azione che, volente o nolente (sulla seconda ipotesi non c’è da credere neanche per un momento), ha messo in difficoltà il governo, di fatto costringendolo a occuparsi d’altro. 
Per chiarire: è fuori discussione che un parlamentare goda, oltre ai tanti altri privilegi, del diritto (e dovere, se del caso) di votare secondo coscienza. Ma, allo stesso tempo, è evidente che, se a oggi l’eventualità che un parlamentare dell’opposizione pro tempore, nell’esercitare il suddetto diritto dovesse dimettersi, lasciando il posto al primo dei non eletti del proprio partito o della propria coalizione, a seguito di espulsione, sanzione irrogatagli proprio per avere votato contro l’orientamento del gruppo di appartenenza, il mercanteggiare voti pro o contro il governo (più spesso pro e di frequente anche commettendo reato) risulterebbe fenomeno ridotto ai minimi termini – gli stessi che misurano il livello di dignità di buona parte dei parlamentari di oggi e del non più tanto immediato passato – al punto da non avere più il ruolo di presupposto per aversi tentativi di crisi di governo. 
Per non parlare del fatto che una ulteriore, disdicevole conseguenza – ormai consolidata nei decenni – della mancanza di vincolo di mandato, è rappresentata dall’inesauribile formarsi dei cosiddetti ‘gruppi misti’: fenomeno ormai consolidato che aggiunge frammentazione a un quadro politico già suddiviso di per sé in partiti e partitini, grazie anche a cervellotici e insensati sistemi elettorali succedutisi nel tempo, oltre a diventare, in fin dei conti, un formidabile modo per aggirare, tramite aggregazioni spurie, il problema del quorum minimo di percentuale per sedere in Parlamento. 
E’ davvero giunto il momento di superare, con una norma ovviamente di pari livello anche nel modo di essere scritta, l’articolo 67 della Costituzione: ha fatto il proprio tempo, purtroppo e non da oggi.

Cesare Stradaioli

QUESTIONI DI METODO

Come spesso accade, il problema risiede nel metodo, più che nella persona. Nella vicenda della comunità di San Patrignano, di come nacque e con quale impostazione venne gestita, ancor più contano i presupposti alla base del metodo, se pur ve ne sia uno che possa essere definito tale. La tossicodipendenza, come qualsiasi altra dipendenza, è una patologia: a sua volta, ne genera altre, ma nel complesso si tratta di un effetto. Considerarla una causa è un rovesciamento di valori, frutto di un’analisi errata nei principi: i quali, nel caso specifico, partono dal presupposto che lo sia, saltando direttamente quello che un’analisi seria è, vale a dire esame e valutazione di fatti. E’ chiaro che confondere causa ed effetto – di fatto, invertirne la logica dinamica – vizia irrimediabilmente il metodo: il quale, spesso (San Patrignano non fa eccezione) è sbagliato, a prescindere dalle intenzioni. 
Vale poco questionare su cosa significhi un documentario televisivo sulla più nota – e famigerata – comunità italiana di recupero per tossicodipendenti. In quanto diretto a una indefinita platea di ascoltatori e non a un consesso di esperti, necessariamente deve mediare: in casi come questo la mediazione, nobile pratica quando è necessaria, diventa mancanza di azzardo nel prendere posizione, sul vieto e ritrito – a dispetto di ciò, incredibilmente ancora praticato a pieno – principio secondo il quale tutte le opinioni hanno pari diritto e dignità di ascolto, indipendentemente dal loro valore e dall’attendibilità di chi le propala. Vale maggiormente la pena prestare attenzione a quella che, ancora oggi, è la considerazione comune, veicolata da una specie di pensiero unico, per la quale un tossicodipendente va curato intervenendo unicamente sul lato fisico della sua problematica. 
Ora, è opinione comune acclarata fin dai primi anni della facoltà di Medicina e Chirurgia che un corpo umano anche avvezzo da lungo tempo all’assunzione di eroina o cocaina, con debite e appropriate cure possa essere ‘curato’ e ‘deputato’ nell’arco di qualche settimana. Strabiliante come, ancora oggi venga considerato quello il vero problema, vale a dire la sanità del corpo: raggiunta la quale, il paziente può riprendere una vita normale. Come se l’assunzione di stupefacenti nascesse in una persona e vi si sviluppasse autonomamente e nella quasi esclusiva padronanza da parte dell’individuo; con questi presupposti, è agevole la logica conclusione successiva: sei tu il responsabile della tua dipendenza, che sia da droghe, psicofarmaci, televisione, alcol, caffeina, pornografia, gioco d’azzardo eccetera. 
Conclusioni simili hanno un chiaro fondamento, consapevole o meno: è più facile dare una soluzione a un problema limitandosi ad analizzarne gli aspetti superficiali. Andare oltre toglie la comodità di dare la colpa al singolo e, soprattutto, esenta dal cercare altrove le ragioni di una sofferenza. Perché quello è, chi viva una dipendenza, quale che sia: una persona che soffre. Di una sofferenza grave. Il fatto è che, per l’appunto, è agevole giungere a una prima – e di solito, unica – conclusione: soffri perché la droga di uccide, ti debilita, ti depaupera fisicamente e mentalmente. E soffri perché, al fine di procurartela rubi, ti prostituisci, ti abbrutisci. Da cosa ciò dipenda – l’idea stessa che possa dipendere da qualcosa di esterno è fuori dai radar – non solo non rientra nella cura, ma neppure in un’opera di prevenzione. 
Sono passati decenni – e non pochi – da quando cominciò finalmente a circolare un metodo di analisi diverso: non si diventa dipendenti per gioco, per vezzo o per fatalità. Il malefico mantra “si comincia con uno spinello e si finisce con l’eroina” è quello che è e niente di più: un mantra. Uno slogan buono per tutte le stagioni con il quale si circoscrive il fenomeno della tossicodipendenza a una favola della buonanotte: stai lontano dalla droga e vedrai che non ti succederà niente. Bisognerebbe stare lontano da questa società – cioè: cambiarla – ribattevano menti più aperte a inizio anni ’70, in Italia e all’estero: quella è la genesi della tossicodipendenza. Un essere umano si droga in ragione del proprio dolore di vivere: sostenere che tale dolore dipenda dalla si droga, alla luce di qualsiasi indagine sociologica di medio spessore, è un palese non sense. Tizio sta per annegare: lo salvano; hai visto cosa accade a respirare acqua, osserva il buon samaritano che lo porta in comunità. Tizio afferma di essersi tuffato per disperazione: vita grama. Ti sbagli, ribatte l’altro; ho dalla mia il rilievo scientifico, l’acqua nei polmoni ti stava nuocendo, non la società. Torna pure sano alla vita di tutti i giorni. Nessuna riflessione su come torni a vivere il malcapitato: l’importante è che la comunità funzioni. 
E’ questo il punto; andare oltre la superficie significa puntare il dito contro uno o più modelli di vita (è uno dei poteri della democrazia: non più un unico modo per soffrire, ve ne sono diversi, in offerta; a una società autoritaria è sufficiente predisporne uno solo), prenderli in esame e verificare qualcosa che, volendo, è sotto gli occhi di tutti: la gente cade nella dipendenza perché, genericamente ma semplicemente, sta male. Un male che spesso non è in grado di capire; non riesce a vederlo, ad analizzarlo per mancanza di cultura, di mezzi, di consapevolezza, di forza personale e non ha strumenti per combatterlo, né solidarietà o vicinanza o affetto. Altro non sa se non che quel qualcosa porta dolore e il dolore bisogna cercare di evitarlo, se possibile o di lenirlo, di porvi rimedio: è pratica propria di qualsiasi essere vivente. 
E’ qui che si annida l’errore nell’analisi. Ti curo ripulendo il tuo corpo; ora che sei mondato dal male – c’è un’infinità di cattolicesimo nell’idea di recupero del tossicodipendente – torna nel mondo e bada: era colpa tua, se eri malato e lo sarà di nuovo, ancora peggio, se ricadrai nel vizio. Le parole contano: dire che nel percorso di un individuo quel determinato comportamento è viziato, significa attribuirgli una diversità tale da automaticamente considerare ‘sano’, non viziato, tutto quello che c’è stato prima. Ecco l’inversione logica temporale dei fatti. Da questa impostazione – il malato non è in grado di badare a se stesso e alla propria cura: diversamente non sarebbe tale e non si troverebbe pregiudicato e in comunità – l’utilizzo della coercizione è un passo tanto successivo quanto necessario: come posso curarti, altrimenti? 
Ecco l’errore nel metodo. Che prescinde dalla volontà di chi pensa una struttura e l’organizza, ne elabora metodologie di intervento, cure, disciplina di vita e di pensiero. Soffermarsi sul personaggio Muccioli e più nello specifico cosa abbia fatto, se e cosa abbia consentito o promosso, è riduttivo e sostanzialmente sbagliato. E’ il concetto in sé di comunità, di quel tipo di comunità a dover essere messo in discussione. Come accade di frequente, la via più semplice – niente affatto facile: bisogna poi trarre delle conclusioni; ‘bisogna decidersi’, direbbe Leonardo Sciascia – è rifarsi alle parole di chi conobbe direttamente i fatti. E, nel caso di San Patrignano, quale voce più accreditata di quella di Rosa Russo Iervolino, già figura politica di primo grado e ministro degli Interni, cofirmataria del Testo Unico sugli stupefacenti, il DPR 309/90, che inasprì in maniera insostenibile le pene? La sua testimonianza è tornata alle cronache dopo la messa in onda del docufilm sulla comunità. Avendo osservato certi modi di trattare gli ospiti ed essendone rimasta colpita, lei stessa riferisce di avere chiesto al fondatore: è proprio necessario usare la violenza? Mi indichi un modo alternativo, rispose Muccioli. 
Ovviamente non ve ne sono, nel solco di quell’impostazione: quella che vede l’individuo quale primo e unico responsabile della propria dipendenza. Non sei padrone di te stesso, non sai quello che fai: tant’è che usi sostanze che ti riducono a meno di un essere umano e infine ti portano alla morte; lascia fare a noi. “Per il tuo bene”, funziona a qualunque età della vita, parlando di mantra. Eppure, nessuno penserebbe di curare con metodi coercitivi una persona affetta da una qualche forma tumorale; la meningite richiede la forza solo per limitare reazioni sconsiderate, non per imporre la cura. O, per dirla oggi, sarebbe lunare voler curare una pandemia qualsiasi mediante l’imposizione violenta dei farmaci. Eppure numerose malattie, spesso gravi, sono diretta derivazione del degrado ambientale, quasi nessuno lo mette in discussione. Che, poi, nel concreto, si intervenga concretamente su quell’impianto o sull’abuso di plastica è discorso tutt’affatto diverso; rimane la considerazione, comune nelle persone con un minimo di intelletto, dell’influenza che l’inquinamento o un certo modo di vivere hanno su tantissime patologie. 
Non così rispetto alla tossicodipendenza. Il pensiero unico in materia vede il povero tossico derelitto, che mendica o vaga ciabattando per le vie della città, quando non commette crimini, ruba, picchia i genitori o si vende agli angoli delle strade. E guai a parlare di liberalizzazione, a dispetto del fatto che è chiaro come il proibizionismo arricchisca le narcomafie, tanto quanto quello degli anni ’20 negli Usa arricchì Al Capone. Il pensiero unico non vede come centinaia di milioni di persone – incluso chi scrive – abbiano provato, anche più volte, sostanze riconducibili alla categoria delle cosiddette ‘droghe leggere’ e mai nessuno di costoro si sia mai avvicinato all’eroina. La ragione, ancora una volta, è semplice: non ve n’era bisogno. Non se ne sentiva la necessità. Vi fosse stata, non ci sarebbe stato bisogno della canna. Così come non è quel singolo bicchierino a portare all’alcolismo, se uno cerca nel fondo della bottiglia la luce nel buio della propria esistenza. 
Muccioli dette a Iervolino una risposta in sé corretta: no, non ho alternative e tu non me ne puoi dare una. Se questo è il modo di occuparsi di tossicodipendenza. Le catene, le costrizioni, le violenze di vario genere che emersero a San Patrignano non sono addebitabili a Muccioli se non in quanto mero esecutore, sia pure del massimo livello. E’ il concetto in sé, di come fronteggiare la diffusione delle sostanze tossiche di qualsiasi natura, che porta a costringere l’individuo. Iervolino deve essere stata convinta a sufficienza dalla risposta di Muccioli, visto che dette il nome a quella sciagurata normativa sugli stupefacenti che, ancora oggi, dopo vari emendamenti di senso contrario, punisce con spropositate condanne un traffico anche modesto di droga, mentre altri ben più gravi e infami reati sono perseguiti con pene e modalità alle volte perfino offensive da quanto sono ridicole. 
Rimane il rammarico, squisitamente personale, del dilemma di come sia stato possibile legare a una legge così idiota e criminogena, che è costata secoli e secoli di galera e migliaia di morti abbandonati sulle panchine o in una discarica come cani rognosi, un nome nobile quale quello di Giuliano Vassalli, giurista di grande umanità e uomo di raffinati studi legali. Succedono anche cose di questo tipo, a invertire causa ed effetto.

Cesare Stradaioli