L’ALTRO TRENO, IGNARO E QUASI SENZA FRETTA

Che lo facciano, questo treno ad alta velocità. Le proteste di questi giorni, come pure quelle degli anni passati, per quanto ragionevoli possano essere arrivano fuori tempo massimo, dal momento che una procedura di approvazione pur sempre c’è stata. Qualcuno, vagamente autoreferenziale, sostiene di vedere più lontano degli altri: dalla sua, voci ricorrenti insistono nel ripetere che, alla fine della fiera, quest’opera non si farà. Come tante altre nel nostro Paese, rimarrà a livello di inizio.
Temo che il mancato completamento sia, quando le somme verranno tirate fra qualche anno, la soluzione da evitare. Considerato il grado di faziosità che connota questo Paese, voci a sostegno dell’opera in quel caso potranno – direi anche legittimamente – rinfacciare a chi avesse vinto la battaglia NoTav, l’enorme spesa finanziaria, ambientale e umana inutilmente affrontata, poiché niente e nessuno uscirà indenne da questa vertenza: sventramenti geologici e sociali segneranno gli anni a venire. In questo Paese, chi non c’è ha ragione: anche là dove, per solito, ha torto.
D’altra parte, un Paese sopravvissuto a quarant’anni di Democrazia Cristiana, a innumerevoli stagioni di servizi deviati, a un pervicace sistema di diseducazione morale e sociale, alle bombe, alle stragi, alla micidiale tenaglia Fiat-Mediaset che ha strangolato l’economia e la ragione, restringendo il Paese in un provincialismo stupido e ignorante, appesantito dall’evasione fiscale (bandiera del perdurante anarchismo destroide che pervade l’Italia) e, fino a quando ossigeno arriverà agli alveoli della democrazia, alla malavita organizzata e alla sua cugina spuria più anziana, la corruzione, un Paese così può ben sopportare un fallimento economico e politico quale è destinato a essere il concetto stesso di treno ad alta velocità; ideato – anche il solo averlo pensato costringe all’alternativa idiozia/disonestà – in una zona geografica impervia, continuamente punteggiata insediamenti urbani e rilievi montuosi e collinari, del tutto mancante di un piano industriale e di gestione commerciale e, per ciò stesso, destinato a essere l’ennesima di quelle che si chiamano ‘cattedrali nel deserto’. Più che un edificio religioso si tratterà di una vergogna epocale, ma le etichette contano fino a un certo punto.
A volersi impegnare in un abbozzo di stima di spesa e di disastro sociale, tutto sommato non sarà neanche il più devastante e più umiliante; che ce ne siano stati di peggiori, sotto tutti i punti di vista, non può essere portato come argomento positivo: ma, se non altro, sarebbe un’occasione  (anche questa di portata storica) per fare seriamente i conti e non mi riferisco a quelli della massaia – che, muniti di dati sufficienti alla bisogna, sarebbero in grado di fare anche un paio di adolescenti particolarmente esperti di informatica e dell’appropriato di algoritmi.
Sarà sufficiente, una volta tratte le debite conclusioni, da un lato predisporre i rimedi del caso – ove possibili – e dall’altro stilare un elenco completo di tutti coloro che si sono espressi a favore di questa bestemmia geografica ed economica (il mantra ‘Ce lo chiede l’Europa’ costituisce in sé un capo di imputazione più che esaustivo) e cosa abbiano detto, nel generico e nello specifico. Fatto questo, nomi e cognomi responsabili dovranno essere allontanati per sempre dalla vita pubblica, con la dovuta riserva di eventuali procedimenti penali. Il non dover mai più essere posti di fronte al fatto compiuto – l’esito più nobile da conseguire – tutto considerato, varrà pure i costi da sostenere. Si cresce anche con le disfatte. 
Il pessimismo che deve innervare la ragione induce a ritenere che ciò non avverrà, ma su questo dovrà prevalere la volontà. Ci penseranno i rapporti di forza del momento a disciplinare gli eventi.

Cesare Stradaioli

DEMOCRAZIA DEMOCRATICA

Ci sono leggi e regolamenti difficilmente spiegabili sotto il profilo della ragionevolezza, che però hanno il pregio di indurre alla riflessione, anche al di là del loro significato intrinseco. Ora, il termine ‘ragionevole’ è, per sua stessa natura, non definibile a priori secondo schemi preordinati – anche considerando il fatto che una notevole porzione di umanità mediamente pensante imputa alla Ragione e non ad alcuni fra i suoi meri esecutori la responsabilità di disastri umani e materiali (per la maggior parte presunti tali) negli ultimi due secoli e rotti. 
D’altra parte, poiché nella norma nessuno esprime opinioni e critiche di sorta – anche perché nessuno gliene chiede alcunché in proposito – su questo o quell’aspetto legislativo e regolamentare del funzionamento (la ‘l’ stava, inopinatamente, scalzando la ‘m’, ciò che avrebbe dato ben altro senso alla parola e, forse, più grottescamente rispondente alla realtà) di quella specie di ircocervo che è l’Unione Europea, pressoché qualsiasi prescrizione passa sotto un generale silenzio: fino a quando qualcuno mette una zeppa nell’ingranaggio. E anche qui – la cosa accada più spesso di quanto si pensi – in genere l’intoppo risulta quasi inosservato e tende a risolversi (o a vegetare) in qualche stanza di qualche istituzione europea.
Non è il caso, una tantum, sia chiaro, del voto contrario espresso da Polonia e Ungheria rispetto a una determinata decisione da prendere in merito a certi interventi di carattere finanziario, asseritamente dovuti al presente e mondiale stato di allarme epidemico. Dal mio personale punto di vista, sono convinto che se si chiedesse a un cittadino qualsiasi, inclusa la famosa casalinga di Voghera, un’opinione in merito alla decisione su come disciplinare lo smaltimento rifiuti nel comune in cui vive la sua famiglia, cosa riterrebbe più logico – spendiamo pure il termine ‘democratico’ e, vivaddio, ragionevole – e cioè se esigere per una votazione a numerose teste l’unanimità ovvero una maggioranza sia pure qualificata, la più gran parte degli interpellati (verrebbe da dire: la totalità) si esprimerebbe a favore della seconda ipotesi. Come molti ignoravano fino all’altroieri (e non tanti di meno ignorano tutt’ora), non è così per quando attiene alle decisioni che la UE prende, per l’appunto, in materia finanziaria. 
Non intendo entrare nel merito. Né sull’oggetto della proposta poi bocciata, per l’appunto grazie al voto (un vero e proprio veto, direbbero all’Onu) dei due Stati sunnominati, né sulla disciplina del voto in sé. Non ho competenze sufficienti in materia finanziaria; quanto al secondo punto, so bene che mi si potrebbe (anche ragionevolmente) obbiettare che una tale disciplina punta alla condivisione, alla concertazione e non alla cosiddetta ‘dittatura della maggioranza’ – ossimoro, fino a un certo, molto avanzato punto. Sono anche consapevole del fatto che l’ipotetico interlocutore, alla mia perplessità secondo la quale talvolta (per non dire quasi sempre), il diritto di veto diventa un vero e proprio ricatto, poco avrebbe da ribattere. Ma, ancora una volta, non sono questi i punti. 
Giorni fa mi è capitato di ascoltare un programma radiofonico avente come argomento il voto contrario espresso da Polonia e Ungheria; in brevissimo tempo, dalla questione di merito i conduttori passarono a quella, sollevata da molte altre voci sulla stampa, relativa al fatto che quei due Paesi sono governati da una classe politica apertamente reazionaria – conservatrice non sarebbe nemmeno un complimento per costoro: un conservatore ha diritto al rispetto – oscurantista, illiberale; il che porrebbe serissimi dubbi sull’opportunità di consentire loro il diritto di voto. La Polonia, per inciso, non adotta neppure la moneta unica europea. Intervenne, a un certo punto, uno scrittore polacco di cui purtroppo mi è sfuggito il nome, ma che posso inserire in quel filone di intellettuali slavo-mitteleuropei orientati a una Sinistra più o meno volta al centro il quale, in maniera anche accorata, esortava a non assimilare il pensiero dei suoi connazionali (citava anche gli ungheresi) a quello dei suoi (loro) governanti e lo fece spendendo notevoli argomenti e deduzioni. 
In tempo pressoché reale, gli fece eco un’ascoltatrice che espresse, più o meno in questi termini, il seguente pensiero: a me risulta che in Polonia e, da più lungo tempo, in Ungheria, i governi attuali non siano saliti al potere grazie a un colpo di Stato, bensì a seguito di ripetute elezioni, sulle cui modalità nessuno ha avuto mai niente da ridire; dunque, di che parla, di cosa si preoccupa, cosa vuole dirci colui che ha parlato in precedenza? 
Come darle torto. Questa, è la vera zeppa nell’ingranaggio europeo, altro che un quasi impossibile voto unanime – metodica che paralizzerebbe anche la meno affollata assemblea condominiale – se non all’inevitabile prezzo di un generale sbiadimento dei principi originariamente facentene parte; la salita al potere di qualcuno, democraticamente (ri)eletto, che esprime e mette in pratica principi talmente retrogradi da minacciare seriamente quella democrazia che gli ha consentito di essere dove si trova ora costituisce un dilemma di enormi implicazioni. Che, come tutte le questioni di passaggio, astrattamente determinanti da una fase storica all’altra, viene lasciata insoluta. Potessi incontrare quell’eminente scrittore di cui sopra, gli porrei la domanda di quell’ascoltatrice (di passaggio: a sentirla, per niente favorevole a quei governi): cosa volevi dirci? Che una buona parte della popolazione polacca non si identifica con il governo al potere a Varsavia e che pertanto è scorretto dire che tutti i polacchi la pensano come presidente e primo ministro e che questo valga a che per gli ungheresi? Va bene, ne prendiamo atto. Lo sapevamo già. 
O vuoi forse dirci, perché QUELLO era il significato che personalmente ho percepito (ma, a quanto pare, anche qualcun altro che stava ascoltando la radio), che è la maggioranza dei suoi connazionali e dei vicini magiari a non condividere le rispettive, simili politiche? Perché se è così, allora non ne prendiamo atto. O, meglio, tocca prendere atto della persistenza di una maledetta tabe che ancora intossica la Sinistra europea, forse mondiale e che consiste nell’incapacità di capire, di interpretare, di ‘farsi’ popolazione (Alberto Manzi non ‘faceva’ il maestro: lui ‘era’ gli analfabeti che tramite l’insegnamento riuscì a trarre dalla miseria umana), per poi stupirsi e indignarsi di come e da che parte tiri il vento elettorale. 
Qualcosa di simile avvenne, qualcuno lo ricorderà, una ventina di anni fa quando in Austria divenne primo ministro Jorg Heider, il quale esprimeva –  a parole, spesso tonanti: nella pratica politica le cose andavano in maniera un po’ diversa – idee e progetti che oggi probabilmente lo collocherebbero a sinistra di Salvini e di Orbàn; si scatenò un putiferio, qualcuno arrivò addirittura a proporre una specie di cordone sanitario ‘democratico’ intorno a Vienna, sordo e cieco alle obiezioni che facevano osservare come, alla stregua della stampa in quel film, quella era la democrazia, bellezza. Un incidente d’auto nel quale Heider perì, risolse sbrigativamente il problema nella contingenza. La tabe, rimane e mantiene in essere un fossato non ancora colmato – e chissà se e quando lo sarà – fra la classe intellettuale e quella che potremmo chiamare, senza alcun disprezzo, gente comune; ciò che porta la Sinistra, una certa Sinistra, a stracciarsi le vesti per quello che accade a Budapest o a Varsavia, e a manifestare uno stupore così forte, da pretendere di negare fondatezza all’esistenza di una volontà elettorale che, certo non per colpa dell’Orbàn di turno, orienta il voto da tutt’altra parte rispetto a quanto ci si aspetta o si auspica. 
Ovvero, detta in termini meno ampollosi: causa una sdegnosa e infantile lontananza – ci si sporca le mani a toccare la terra – come prima, come sempre, non avere capito un tubo.

Cesare Stradaioli

 

 

 

 

PUGILI SUONATI

Poiché chiunque, anche un genio, può dire un’idiozia, sono sicuro che sostenere che taluno abbia detto un’idiozia non sempre comporti il rischio di risultare offensivi. Detto ciò, la reazione al terribile fatto di cronaca che ha visto un fratello mosso a uccidere – oltre le intenzioni: non che la cosa cambi gran che, nei presupposti – la propria sorella nell’intento di allontanarla dal proprio compagno di sedicente sesso incerto o non immediatamente inquadrabile in quello canonicamente maschile, è stata generalmente improntata all’idiozia, riassunta in quattro parole: ci vuole una legge. Immediato, il richiamo a un disegno di legge contro l’omofobia, giacente in Parlamento da tempo (e non poteva che avere un membro del Pd quale primo firmatario, capaci come sono di non farsi mai mancare una banalità), che punisca chiunque commetta un reato, quale che sia, motivato in tutto o in parte dall’odio o dal disprezzo per orientamenti sessuali non tradizionali. 
Non: bisogna ridare voce alla scuola, alla socialità, alla solidarietà; non: reintrodurre, a tempo pieno e come materia essenziale in ogni curricula scolastico, l’educazione civica; non: porre finalmente un argine a messaggi pubblicitari criminali, violenti, prevaricatori, specificamente rivolti ai minorenni; non: ridare dignità, valenza sociale e spessore umano al confronto, allo scontro, allo scambio e infine al rispetto reciproco, cominciando dall’età di anni zero
Niente di tutto ciò. 
Una legge. Costa poco, ha un enorme ritorno pubblicitario ed elettorale e ha il grande pregio di mettere a posto le coscienze; inoltre, come recitava la propaganda un po’ vintage di un noto antidolorifico, agisce presto e bene. Tutto l’opposto di una politica seria, che tenda a quanto scritto poche righe sopra e che, detto per inciso, costituirebbe un minimo di base per una società civile e coesa; il costo degli investimenti necessari sarebbe enorme, non renderebbe nulla a livello di immagine – men che meno sotto il profilo elettorale: porterebbe, anzi, in sé il rischio di un rimbalzo devastante – e richiederebbe un continuo esame di coscienza e di programmi educativi. E tempo. Tanto tempo. 
Ci vuole una legge. Sottotitoli: così in futuro non accadranno più fatti del genere. 
Idiozia: discorso da idiota. 
Idiota: persona stupida, insensata, balorda (Vocabolario della lingua italiana – Zingarelli 1991). 
Immaginiamo un Paese in cui, per motivi che non interessano in questa sede, non sia prevista una pena per l’omicidio; magari perché, fino all’altroieri, non ve n’erano mai stati. Di colpo, ne succedono diversi, uno dopo l’altro: il Consiglio degli Anziani delibera di scrivere e approvare in tutta fretta una legge che punisca l’omicidio volontario. Rifacendosi all’articolo 575 del codice penale di quello strano Paese a forma di stivale, viene stabilita una pena non inferiore ad anni ventuno per chiunque tolga la vita a qualcun altro, con coscienza e volontà. 
Sarebbe da ritenersi un’idea commendevole? Purtroppo, sì. 
Se il Consiglio degli Anziani, così facendo, auspicasse un contenimento del crimine, direbbe una cosa sensata? Non v’è dubbio. 
Se dicesse che, in questo modo, dall’entrata in vigore di questa nuova legge, si eviterebbero ulteriori omicidi, direbbe una cosa stupida, insensata e balorda? Attendo che qualcuno mi spieghi perché non lo sarebbe. 
E’ necessario correre ai ripari, su questo non c’è spazio per discussioni; non è accettabile che capitino fatti del genere. Ma nel momento in cui dichiaro che una tal cosa non è accettabile, mi debbo porre due domande: che fare nell’immediato e che fare nel lungo periodo, poiché fatti come questi hanno radici culturali lunghe.

Nell’immediato, una nuova legge sarebbe inutile: esiste già nel codice Rocco, una specifica aggravante, intitolata ai futili motivi. Fare del male a qualcuno perché ha preferenze sessuali diverse da quelle correnti, prima che espressione di intolleranza, è un motivo futile: con ciò si intenda che non è neppure il caso di discuterne, una volta accertatane la sussistenza. Chi ne abbia tempo e voglia ragioni pure con Tizio, secondo il quale un omosessuale è da considerarsi persona bisognosa di cure mediche: purché costui non invochi benevolenza o indifferenza, se dal pensiero passi all’azione. L’aggravante esiste: basterebbe applicarla. Il motivo è futile, in quanto non ha dignità nel momento in cui in suo nome si commetta un reato. 
Viceversa, una vera aggravante, ma del già elefantiaco sistema normativo, sarebbe per l’appunto una nuova legge. Che non aggiungerebbe alcun nuovo strumento nelle mani del giudice chiamato a decidere per reati di questo tipo. 
Nel lungo periodo, per provare a porre un limite, contenere e infine sperabilmente eradicare dalla società l’intolleranza che porta a tragici fatti quali quello che sappiamo, non v’è altro che l’educazione. Perché è dalla mancanza di educazione, di socialità, di cultura civica, di rispetto per l’individuo e, di conseguenza, per la collettività, che si perpetuano comportamenti che ci ostiniamo a volere appartenenti al passato e che, per contro, ci trovano ogni giorno, ad ogni angolo, specie nelle zone culturalmente e socialmente più arretrate. Che un giovane intorno ai trent’anni, con genitori verosimilmente non oltre la sessantina, vale a dire gente nata quindici anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, possa decidere di fare qualcosa che non avrebbe fatto neppure mio nonno nato nel 1892, non può, NON DEVE consentire di pensare a una legge, senza prima di tutto ripensare a un sistema sociale, educativo che aiuti la crescita umana di ciascuno, cominciando magari dal porre un limite a propaganda pubblicitaria e politica che da decenni inquinano fasce di popolazione di ogni età. 
Delle due l’una: a pensare che basti una legge per evitare che fatti del genere succedano di nuovo, o si è idioti o si è mascalzoni. A parte il primo caso, la mascalzonaggine è evidente e anche qui si presenta un’alternativa: o sei disinformato o sei in malafede. Mascalzone lo rimani, se ricopri una carica pubblica, specie se reagisci a fatti del genere come un pugile suonato si alza in piedi al suono di un gong qualsiasi. Quanto alla malafede, ognuno esamini la propria coscienza e coltivi il proprio orticello: sulla disinformazione c’è poco da disquisire, perché solo un disinformato (o un idiota e siamo da capo) può permettersi di ignorare il retroterra culturale e sociale, la malefica tradizione, profondamente fascistoide, che muovono certe persone a compiere gesti del genere. 
La faranno, la nuova legge, non v’è dubbio: tornate elettorali e stabilità governativa incombono e non lasciano spazio e tempo per i ragionamenti – dei quali, peraltro, non si vedrebbe l’ombra neppure in tempo di pace. Sarà una legge politicamente corretta, scritta in pessimo italiano, giuridicamente una porcheria (i precedenti degli ultimi trent’anni non consentono ottimismi di sorta), verosimilmente attaccabile in maniera piuttosto agevole dal difensore dell’imputato di turno che avesse un minimo di preparazione tecnica. Nel frattempo, succederanno ancora fatti che inchiodano l’Italia a un passato che non passa mai, mentre il futuro se lo nega da sola – eletti, elettori: noi tutti – pasturando questa e le generazioni a venire con videogiochi, invito alla prepotenza e, parafrasando un protagonista di “Apocalypse, now”, con pura idolatria pagana del cazzo, materiale e  religiosa.

Cesare Stradaioli

VOTARE, PER CHE COSA?

I sondaggi e le cosiddette proiezioni di voto, a proposito del referendum del 20 settembre, di cui si legge e si ascolta in questi giorni, ci dicono una cosa piuttosto evidente: gli italiani non sono informati e non capiscono. Non capiscono per il semplice motivo che non sanno. Non sono informati in genere e, nello specifico, non lo sono riguardo al quesito referendario. Se per una questione posta, che si tratti di quale sia il numero congruo dei parlamentari o della formazione che il c.t. della nazionale debba mettere in campo sabato prossimo, in così poche settimane le previsioni di voto quasi arrivano a rovesciarsi e comunque si avvicinano alla parità, significa molto semplicemente che coloro ai quali viene chiesto di esprimere un giudizio, non sono in grado di darlo in maniera appena consapevole. La questione della rappresentanza parlamentare – ma quella relativa alla nazionale di calcio, fatte le debite distanze, non è molto meno facile da comprendere e sicuramente gode di un coinvolgimento e di un grado di discussione infinitamente maggiore di quello che concerna una decisione politica – è materia ostica, difficile: richiede analisi, riflessione, contraddittorio, scambio di opinioni, esame delle fonti storiche. Richiede tempo, per fare tutto ciò: sicché, dire che un certo numero di milioni di elettori abbia cambiato idea o stia per farlo, è frase senza senso, poiché è impossibile che in poche settimane si possano realizzare le suddette attività umane. 
Ed è altrettanto vero che, in ogni caso, neppure nei mesi e negli anni trascorsi, il cittadino sia stato adeguatamente informato di cosa significhi una modifica costituzionale di tale importanza. 
Lo stesso si può tranquillamente dire con riferimento al precedente referendum del 2016 promosso dal governo Renzi e, con tutta probabilità, anche di numerosissime altre consultazioni, le quali per la quasi totalità dei casi – e quella che ci apprestiamo ad affrontare non sfugge alla regola: se mai, ne incarna la più profonda realizzazione – non sono altro che elezioni politiche travestite da decisione su tutt’altro; se non che, oggi come in passato, quel tutt’altro riguarda la permanenza di una compagine governativa, il peso dell’opposizione pro tempore e, più in generale, la valenza di questa o quella coalizione. Con tanti saluti alle belle e dotte dichiarazioni riguardo alle intenzioni di voto, espresse da qualche cultore della materia, numerosi esponenti politici e gli immancabili personaggi noti ai mass media: categorie, le ultime due, popolate da persone che in percentuale verosimilmente vicina allo 0,01 per cento, in vita loro forse hanno letto un testo di diritto costituzionale o di dottrine politiche. Votare per il mantenimento dell’attuale numero dei parlamentari o per la sua riduzione, rappresenta molto più di un NO o di un Sì: significa decidere qualcosa che, se fosse una cosa seria, dovrebbe durare per 70, 80 anni, forse cento. E invece viene percepita – in quanto spacciata come tale – come una legge qualsiasi, emendabile e abrogabile quando si vuole, sol che cambi il vento politico. 
Se in Italia vi fosse una seria consapevolezza politica, il voto del 20 settembre dovrebbe essere pericolosissimo, poiché non solo la vittoria dei NO, ma una loro percentuale che anche si avvicinasse solo al 35-40%, significherebbe prima di tutto una cosa: che fra l’elettorato o l’attuale parlamento, esiste una frattura insanabile; quale altro aggettivo potrebbe essere adeguato a un Paese in cui, in merito a una riforma epocale, gli eletti esprimono quasi all’unanimità una decisione in un senso chiaro, netto, preciso, per poi vedere una percentuale di elettori, gli stessi che li hanno messi lì dove sono, optare per un senso totalmente opposto? Fortunatamente per un certo ceto politico, queste in Italia non sono cose serie – si sono contate più dimissioni di commissari tecnici della nazionale di calcio di quante ve ne siano state fra segretari di partito e chiunque pensi che queste cose siano sciocchezze farebbe bene, un giorno o l’altro, a scendere dal pero, prima di esservi tirati giù di peso – e, dunque, il peggio che possa capitare alle segreterie, alle consorterie nazionali o decentrate in Ragioni, Province e Comuni, è che tutto rimanga come prima: basterà fare le solite orecchie da mercante a quei quattro esaltati che strepiteranno, appunto, sull’indecenza di una politica che non ascolta gli elettori e sull’altrettanto indecente comportamento di quest’ultimi che si ostinano a eleggere chi non li ascolta. E’ già successo: succederà di nuovo, chiedendo venia per la nobile citazione. 
Rimane, per qualcuno, l’avvilimento proprio di una situazione che lo vede difendere qualcosa in cui già crede poco, da qualcos’altro di molto peggio. E’ giusto rifiutare la scelta fra il peggio e il meno peggio e non accontentarsi del secondo: prima o poi, bisognerebbe anche cominciare a rifiutare di farsela imporre, questa scelta.

Cesare Stradaioli

MA COS’HA DETTO DI DIVERSO?

Ho la ventura di conoscere molte persone di grande intelligenza e cultura, capaci di comprendere, anche e soprattutto fra le righe, quanto viene detto, scritto, rappresentato. Pertanto, mi piacerebbe che qualcuno, non necessariamente facente parte della suddetta cerchia, mi facesse notare cosa ci sia di così differente e diversamente grave da molte delle cose dette, scritte e rappresentate da berlusconi e tutti i suoi corifei di diverso colore politico, rispetto a quando va dicendo, scrivendo e rappresentando Donald Trump: deve trattarsi di una differenza incalcolabile, se a costoro non fu rivolta in passato – neanche nel presente, per il vero: costoro, o i figli di costoro, insistono, anche ai giorni nostri – nemmeno l’ombra delle contumelie che in Italia e all’estero vengono rivolte all’attuale (e, a quanto pare, anche prossimo) presidente degli Stati Uniti. 
Ritengo di avere un certo grado di aggiornamento, specie sui fatti di politica estera – mi ostino a considerarla parte fondamentale della politica di qualunque Paese e, nello specifico, elemento essenziale di un pensiero di Sinistra; d’altronde, solo un cieco, un sordo e uno palesemente votato alla pervicace indifferenza, potrebbe essere indenne dalla moltitudine di giudizi, quasi tutti negativi e spesso inauditi, a proposito dell’inquilino della Casa Bianca. Considerata, quindi, la mia pressoché quotidiana dose di rimandi all’argomento del giorno affrontato da costui e considerata altresì l’ottima memoria, di cui ogni tanto vengo rimproverato, affermo di non ricordare che Donald Trump abbia mai detto che per ogni pubblico ministero è pronto un fucile e che un proiettile costa pochi dollari; non ricordo che abbia detto che i giudici siano biologicamente inferiori ovvero uguali a noi ma, a macchia di leopardo, affetti da malattie mentali (quelli che prendono decisioni che non garbano, si intende); mi sarà sfuggito, nella marea di stupidaggini che ha pur sempre detto in gran quantità, che abbia invitato gli anziani stranieri ricchi ad andare a morire in Usa, in modo che gli eredi possano lucrare al massimo le bassissime tasse di successione che vigono nella terra dei Padri Pellegrini; non è mai apparso in video a dire che, sotto la sua presidenza, era stata trovata la cura contro il cancro; non ha mai scatenato testate giornalistiche (che peraltro non gli sarebbe stato consentito di avere, al momento della candidatura) contro magistratura e avversari politici e imprenditoriali; né ha mai disposto l’allontanamento dal video dei commentatori di costume e satirici (e da quelle parti ve ne sono di feroci) che gli erano ostili, mettendo al loro posto persone che definire giornalisti è un’offesa alla categoria peraltro già sputtanata a sufficienza e che chiamare leccaculi è un eufemismo da suorine di clausura; ha sì più volte menzionato un muro da erigere verso e a danno del Messico (peraltro già esistente e sorto sotto la presidenza Clinton e che Obama non si è neppure lontanamente sognato di abbattere), ma non ricordo che abbia invitato lo sceriffo della valle solitaria a sparare a vista sui profughi che vengono dal sud o al capitano Achab di lasciare perdere la balena bianca e di cannoneggiare i barconi; non risulta avere mai invitato (per poi essere ricattato e costretto a mantenerle) in una delle sue residenze, camionate di povere ragazze costrette a prostituirsi per lui e per i vecchi e nuovi sporcaccioni che lo circondano; oso essere sicuro che, richiesto di un’opinione sul nuovo presidente francese o primo ministro inglese, di padre o di madre africana nera, non si sarebbe mai azzardato a dire che negro non è, ma solo un po’ abbronzato; non ha commesso reato difendendo i razzisti del KKK perché negli Usa non è illegale neppure parlare bene di Hitler, tanto quanto in Italia lo è – lo sarebbe – facendo apologia di fascismo. Quanto ai soldi: sappiamo tutti che fine fanno negli Stati Uniti quelli che li rubano e li riciclano. Infine, e di questo sono certo, in tutti questi anni, neppure in campagna elettorale, ha mai dato dei coglioni ai votanti democratici. 
Si potrebbe andare avanti fino a domattina: soprattutto, non ricordo che l’esecrabile ed esecrato (anche in patria: però rivincerà e qualcuno dovrà un bel giorno spiegare alle belle anime filoamericane de noantri che negli Usa, per un Bruce Springsteen, per un Woody Allen, per un Philip Roth eccetera, per ciascuno di costoro vivono e votano in misura dieci volte maggiore, uomini e donne che pensano che la sanità pubblica per tutti sia socialismo reale, che la Bibbia l’ha dettata Dio in persona, incluso l’inciso di Gedeone che vede il sole girare intorno alla Terra e che Charles Darwin fosse un sovversivo ebreo) discendente di emigranti illegali, abbia mai NEGATO di avere detto l’ultima corbelleria che gli viene rimproverata. Anche perché, se l’avesse fatto, se avesse detto – come è accaduto e tutt’ora accade da noi – di essere stato frainteso, che le sue parole sono state strumentalizzate, di non aver voluto dire quello o di non averlo proprio detto, si sarebbe tirato addosso le attenzioni di qualche procuratore distrettuale, dato che da quelle parti hanno idee tutte loro rispetto alla libertà di parola e della responsabilità che ci si assume quando si dà aria ai denti. Di dove, come e quando Bill Clinton avesse praticato con la stagista di turno quella cosa che fanno tutti e che fra maggiorenni consenzienti è vietato in Arabia Saudita, in Iran e in qualche stato della confederazione a stelle e strisce – a memoria, menzionerei l’Utah, fra gli altri – negli Usa è importato a qualcuno per circa 15 minuti: imperdonabile, per l’ex presidente, fu averlo negato.
Quanto questo stimma tutt’ora pesi sulla politica dei democratici, basta chiederlo alla moglie, più volte candidata: dodici anni fa, il suo stesso partito le preferì un colored, che di anglofono non aveva nome né cognome (quanto ci aveva visto lontano John Lennon, a proposito della donna, che è la negra del mondo!) e nel 2016 l’intera nazione optò per un miliardario coi capelli di plastica. Da noi è stato sufficiente un trapianto tricologico.

Cesare Stradaioli

IL NOME DELLE COSE

Dare un nome alle cose: fare buon governo delle parole, delle proprie idee e dei giudizi, è pratica di igiene del pensiero. Chiunque esiti manifesta codardia, pochezza, terzietà. 
Può definirsi fascista? Senza dubbio: ne presenta tutti i tratti più significativi. 
Protervo, ignorante, scarsamente aduso al lavoro seriamente produttivo, invoca allo stesso modo nonne e madonne, si paluda di simboli sacri nello medesimo contesto in cui pone in atto – e ne esorta l’emulazione – l’attività umana più lontana dal cristianesimo, la mancanza di pietas: questa, più che la pratica dell’odio in sé, comunque dispensato a piene mani e ganasce, caratterizza la messa in atto del suo pensiero, se tale può essere definito. 
Grida, interrompe, irride, offende chi lo critica, dispensa qualifiche di disfattismo e di identità con le stesse parole, ricorre al giudizio del popolo, non sopporta le regole e i principi di civile convivenza, disprezza i contrappesi nel potere, la magistratura e il sereno confronto, non avendone strumenti adatti per farlo; chiede a più riprese i pieni poteri, senza curarsi del calpestìo dei principi costituzionali, nutre sé stesso e il suo bacino di consenso di indiscriminato qualunquismo verso la politica, ‘sporca’ per definizione, in quanto sporco lui per primo, si presta all’identificazione quale leader e la sua incontinenza toglie spazio e parola ai suoi corifei. 
Si accanisce contro gli stranieri, sfrutta l’indecente termine di ‘clandestino’ – mutuato, peraltro, da leggi che l’hanno preceduto – indicandoli come la principale causa del malessere dei suoi elettori: vecchio canovaccio, come quello che vede il male assoluto nell’Europa e in non meglio precisati (neanche precisabili tout court) centri di potere tesi a danneggiare l’Italia, si serve senza scrupoli di sorta, come braccio armato pur tenendone formalmente le distanza, della peggiore feccia che del fascismo neppure conosce i fondamenti filosofici e politici, riempie pareti, pagine, schermi di valutazioni, borborigmi, deliri spesso destituiti del minimo fondamento di decenza, percorre quasi inevitabilmente la politica dell’uomo solo al comando. Sa lo stomaco che ha l’elettorato a cui si rivolge, come la gallina breriana sa il culo che ha, mangiando i sassi. 
Aveva provato, come altri dittatori prima di lui, a giocare la carta propagandistica del proprio corpo, esibito come melange di virilità e semplicità: non avendone il fisico, gli è andata male e invece di rendersi più umano, anche scherzando sui propri difetti fisici, si vede con la circonferenza ventre del miglior Fantozzi d’annata e allora rovescia il tavolo mediatico provando a sorridere, ma non gli viene bene neppure questo (questione di attitudine: la simpatia, come il coraggio manzoniano, se uno non ce l’ha non se la può dare) e nel fare questo peggiora, per quanto si potesse pensare impossibile, la spaventosa ghigna che si ritrova – e qui si potrebbe discutere se non gli sia addebitabile o, per contro, se sia più giusto aderire al pensiero di Borges, secondo il quale dopo una certa età (e lui l’ha raggiunta) ognuno è responsabile della faccia che porta in giro – col labbro inferiore teso allo spasimo dell’acrimonia e quello superiore a scoprire i denti nella più classica forma di aggressività ferina. 
E’ portatore di un’ideologia di odio, di cattiveria personale di base e di una pratica politica tesa alla diseguaglianza, alla discriminazione e alla segregazione e secondo i più tipici stilemi del ruolo, si fa amici e alleati personaggi politici, nazionali e internazionali,  ripugnanti e corrotti. La sua presenza nella politica è uno scaracchio in faccia alla dignità italiana e quella nel Parlamento in qualità di senatore è un insulto alla memoria di tutti coloro che edificarono questa Repubblica, dando la vita per combattere quelli che dicevano e mettevano in pratica le stesse cose che dice e mette in pratica lui. 
Matteo Salvini è un fascista, in tutto e per tutto: non ci manca nnente, direbbe qualche mio amico catanese e in quanto fascista, è materia di competenza della nettezza urbana.

 

Cesare Stradaioli

LA MEMORIA E IL RICORDO

C’è stato un che di nauseante nella sommatoria celebrativa, in ricordo del quarantennale della strage alla stazione di Bologna. Nomi, luoghi, volti, fatti, date, tutto assimilato in un unico, indigeribile minestrone, nel quale il perpetuarsi di una memoria incerta e bugiarda prevale sul ricordo, che per sua definizione si smarca dal quadro d’insieme e scava nei dettagli. Più o meno indistinte carrellate nelle quali, complice anche la sommatoria di decenni, passano persone e cariche statali, politiche, di rappresentanza, di governo, di salvaguardia e di vigilanza sulle istituzioni che tutto furono tranne che politica, rappresentatività e tutela della repubblica stessa. Ci siamo trovati a leggere e ascoltare ricostruzioni non necessariamente mendaci in sé, a parte quelle di qualche mascalzone o squilibrato le quali, nell’intento di rivolgersi a chi non c’era o non fosse ancora in grado di discernere la portata di un simile episodio, elencano persone che sembrano piovute dallo spazio profondo e non generate da ambienti marci fino al midollo; vengono ripercorse carriere personali, nell’esercito, nelle forze dell’ordine, negli apparati di sicurezza, nella stampa, nelle compagini elette a Roma come in provincia, come se fossero appartenute a non meglio identificati individui che, chissà per quali motivi fecero e non fecero, coprirono, mentirono, ingannarono la cittadinanza e infine si resero complici del massacro. Che non fu solo di 85 persone, per non parlare di tutti coloro che, in misura diversa, la vita l’ebbero rovinata anche in modi inguaribili, ma anche dell’afflato politico che ancora pervadeva la società civile.
Chi, come e quando portò il carico di tritolo nella sala d’aspetto di seconda classe, sono argomenti e domande da gita domenicale con pentolame venduto a prezzo di sconto, divagazioni per distrarre dai VERI quesiti, uno soprattutto: PERCHE’? Sono quasi tutti morti, costoro, il tempo ha giocato a loro favore, unitamente a luride alleanze trasversali che hanno impedito di giungere ai veri mandanti che, lo sanno anche i bambini dell’asilo, stanno dall’altra parte del lago, come lo chiamavano i navigatori britannici andando verso ovest. Sono morti e finalmente si può dire chi fossero e tuttavia anche questa operazione pare riguardare eccezioni, cellule malate come cani sciolti e non facenti parte di diverse metastasi, ben curate, vegliate e mantenute da interi pezzi di una società civile, innervata da migliaia di criminali in divisa o in giacca e cravatta, dai quali ci siamo liberati con un colpo di spugna, sotto forma di telecomando che sposta l’argomento fastidioso. 
Il tutto condito da dichiarazioni che lasciano stupefatti; autorevoli firme del giornalismo e della politica, appartenenti a personalità neppure fra le peggiori, talvolta perfino anche leggibili e ascoltabili i quali, con una faccia di culo da togliere il fiato, vanno ripetendo con l’aria di un medico che spiega ai familiari le condizioni disperate di un congiunto, che i famosi dossier non saranno mai aperti e la verità non si saprà mai del tutti, perché l’Italia era un Paese a sovranità limitata. Ohibò, e limitata da chi? Dall’Urss? Da Fidel Castro? Dalle armate titine, sempre pronte a invadere Trieste? Dalla protervia dei sindacati, sotto il cui tallone languiva l’illuminata e inconcussa imprenditoria italiana? E riesce perfino fastidioso a noi stessi alzarsi e dire limitata dai VOSTRI amici, dai VOSTRI alleati, dai VOSTRI referenti politici, non dai nostri! 
Perché Bologna, una, due, più volte? Perché Piazza Fontana? Perché Ustica, che ancora oggi, incredibilmente, qualcuno ha il coraggio di associare a una bomba a bordo e nessuno che si alzi a sputargli in faccia? Perché l’Italicus? Perché la P2, sempre con l’infame senatore a vita, mafioso prescritto sempre al fianco, in smoking e fifì? Perché i servizi deviati? Perché le anime più svergognate, meno fedeli e più puttane della destra estrema italiana, sempre liberi e impuniti, mai oggetto di UN SOLO esame di coscienza – mentre, come scrive Michele Serra, la sinistra ha riempito vasi di lacrime, consumato fruste e cilici di penitenza per la lotta armata dell’altra parte? 
Perché tutto questo? Perché l’Italia stava andando a destra? Perché era in atto la pace sindacale e i lavoratori continuavano a rimanere senza uno Statuto di tutela? Perché stava per trionfare il liberismo più sfrenato, mentre le donne dovevano rimandare all’infinito conquiste come divorzio, aborto e libertà di scelta? Perché, finalmente, il capitalismo si stava liberando dalle catene oppressive dello Stato? Perché finalmente la criminalità organizzata stava alzando bandiera bianca e si apprestava ad arrendersi? 
Lo suggerisco io, un perché: e se non può essere definito tale, quanto meno che sia un’indicazione non richiesta e rivolta a chi non sa, non ricorda, non ha idea. Perché solo in questo Paese l’uomo più potente d’Italia, vero governatore dei rapporti di intelligence con l’Occidente, capace di frenare chi andava frenato, coprire chi andava coperto, depistare quello che andava depistato e, in definitiva, in grado di condannare la società in cui viviamo a essere eterodiretta, corrotta, invelenita, minacciata, ferita, ricattata, poteva scrivere per una testata di sinistra. Un vero criminale, fosse vera solo la metà di tutte le risultanze emerse già allora, responsabile non solo di centinaia di morti, ma dell’impoverimento di questo disgraziato Paese, del suo svilimento civile, che con il soprannome di “Zafferano”, dovuto alla sua nota fama di gourmet, e che di nome faceva Federico Umberto D’Amato, l’uomo dei segreti, che qualche giornalista statunitense paragonò a Edgar J. Hoover in quanto a potere e ferocia nel gestirlo, teneva una rubrica di alta cucina sulle pagine de L’Espresso: non quello di adesso, patetica metafora di quello di una volta, non quello che adesso viene venduto domenicalmente insieme a Repubblica, alla stregua di un invalido accompagnato alla passeggiata festiva, altrimenti non camminerebbe da solo, bensì QUELL’ESPRESSO, quello degli anni ’70, quello di Scalfari e Turani, delle inchieste, della razza padrona, dell’opposizione. 
Lo si sapeva quella volta: viene ripetuto adesso, come se fosse niente. Non era, infatti, niente: una cosa normale come un’altra e poi Veltroni, da sindaco della capitale, si offendeva quando Prodi dichiarava che lui nei salotti romani non ci metteva piede. Il capo dei servizi segreti che, da nemico giurato di qualsiasi istanza di sinistra o anche solo di mera giustizia sociale, scriveva per un settimanale di opposizione e tutto questo negli anni ’70, di fiera e forte lotta politica: una commistione impensabile in un altro Paese, non necessariamente ‘normale’, ma almeno ‘logico’, che inevitabilmente doveva portare il concetto di trattativa – sindacale o politica – e quindi del suo esercizio, dalla contrattazione alla concertazione. In un paese disossato come il nostro, che vivendo di memoria sfocata, al massimo è in grado di celebrare ricorrenze, senza ricordare esattamente cosa.

Cesare Stradaioli

LE SQUADRIGLIE DEL VALORE

Insisto: si continua a parlare di soldi e non di economia. Se per economia si intende – o si dovrebbe intendere – una scienza che esamini molteplici aspetti della vita di relazione in un consorzio civile, da quelli più rigorosamente matematici a quelli maggiormente attinenti alla vita delle persone, sia come consumatori sia come cittadini che quella società abitano, al fine di orientare al meglio le politiche di ogni singolo Stato. 
Niente di tutto ciò: non c’è modo di evitare il collo di bottiglia in cui, invariabilmente, finiscono i ragionamenti e le osservazioni di qualsiasi tipo, attinenti all’economia e questo collo di bottiglia sono i soldi. Quanto costa, quanto serve, quanto bisogna investire, chi li mette, a chi li si chiede, chi li dà e cosa vuole in cambio. E’ evidente che il costo di un’attività umana sia componente fondamentale, dalla quale prescinde solamente chi si diletti di fantasiose costruzioni di sogni campati in aria; il fatto è che da elemento fondamentale, l’aspetto relativo alla spesa è diventato l’unico, poiché di fronte a esso si infrange qualsivoglia progetto o anche mera considerazione e nel momento in cui un argomento diventa unico, è perfino inutile constatarne le conseguenze: gli altri non contano, a maggior ragione quando manca la disponibilità finanziaria per attuare questo o quel progetto. 
Non lo è diventato, unico, a caso: dietro questa esasperante ed esasperata sottolineatura, c’è un preciso disegno teso a porre ogni questione sotto il gioco del rapporto debito-credito, arma formidabile – non da oggi – per il controllo delle politiche di Stati a vario titolo alleati o avversari. Nel momento in cui una qualsiasi politica particolarmente orientata sia costretta a soggiogarsi alle forche caudine della necessità di indebitarsi rispetto a istituzioni che non fanno parte dello Stato in nome del quale è delegata a operare – e che, nella quasi totalità dei casi, neanche sono destinatarie di quella politica – il tutto si riduce a prestito, controllo, condizionamento: da anni, Yanis Varoufakis lo va ripetendo.
Ora, per quanto possa sembrare sorprendente al cittadino distratto o semplicemente stanco morto quando torna a casa dopo una giornata fatta di lavoro e di trasferimento per e dal posto in cui lavora, è dato di fatto che nel nostro Paese, checché ne dicano gli autoreferenti ‘esperti’, i soldi ci sono: sono perfino alcuni di loro stessi ad affermarlo e va notato come si tratti di vera disponibilità, quanto meno nella più gran parte, non soltanto cioè crediti o investimenti che non sempre – anzi, quasi mai – garantiscono una pronta disponibilità dell’arnese, cioè ancora lui, il denaro; sono perfino leggendarie le cifre che indicano nel nostro Paese quello con una fra le più consistenti riserve auree e, con tutta probabilità, quello con il maggior risparmio privato, quello delle famiglie, di chi lavora.
I soldi ci sono: basta andare a prenderli. Dove siano tutti lo sanno, per citare il detto: a volerli trovare, ad averne convenienza politica, è discorso tutt’affatto diverso. E qui, direbbe il Bardo, sta l’inghippo: non c’è la volontà politica per farlo, per introdurre strumenti talmente legali da essere previsti in Costituzione, necessari e sufficienti per venire incontro a un momento drammatico per la vita del Paese, della vita di adesso e, soprattutto, per quella di domani. La parola patrimoniale viene vista e sentita come una bestemmia in chiesa e io invito chiunque a diffidare di chi si senta offeso da questa parola, così come andrebbe sbugiardato subito, all’istante, dappertutto, casa per casa, tavolo per tavolo, porta per porta qualsiasi mascalzone che sostenesse il frusto, maleolente, infame refrainsecondo il quale introdurre una patrimoniale significherebbe mettere ancora una volta le mani nelle tasche degli italiani.
Perché sono LORO, quelli che ancora oggi sollevano una simile obiezione, a essere – direttamente o come meri esecutori di ordini e interessi altrui – a derubare la comunità, incoraggiando, proteggendo, coprendo, favorendo, tollerando e tralasciando di perseguire e punire l’evasione fiscale, che in Italia ha raggiunto cifre che, nella loro quantità assurda finiscono col perdere di significato; sono LORO a beneficiare, accrescere, pattuire il cancro della corruzione che deruba – altro che mani in tasca! – gli italiani di oggi, quelli di domani e di dopodomani. LORO non la vogliono, la patrimoniale, perché temono che finalmente questo Paese, le intelligenze e le volontà che ci vivono, possano utilizzarne i frutti per cambiare questa società, per abbattere le diseguaglianza, per restituire dignità al lavoro, per mettere in sicurezza i luoghi dove abitiamo noi oggi e dove vivranno coloro che verranno dopo di noi, per dare impulso alla scuola e alla sanità pubbliche. Sono, infine, LORO a voler tenere questo Paese sotto sovranità limitata, svendendo al banco del mercato non solo la dignità di ciascuno, ma anche l’incarico che hanno assunto nell’interesse della collettività che dovrebbero rappresentare.
Ma non basta: fra LORO ci sono anche non pochi di quelli che dovrebbero essere NOI e invece si rifiutano di esserlo. Quelli, a titolo di esempio, che dicono che ‘non è il momento'; benedetto iddio, sembra di risentire le solite vecchie, stucchevoli geremiadi di un partito comunista guidato da gente senza coraggio, senza fantasia, senza carattere, senza idee, senza futuro! Quell’eterno attendere un Godot che alla fin fine è arrivato: non all’esito di una lunga marcia nelle istituzioni, quanto piuttosto di un avvilente peregrinare a vuoto e certo non nelle sembianze del sol dell’avvenire, bensì in quelle rappresentate dal collasso delle loro sedi e dei loro esangui progetti. Ancora una volta e non paia mancanza di rispetto citare Primo Levi: se non ora, quando?
Se non si ricorre ora, a mezzi straordinari, quando mai? Se non si opta ADESSO, per interventi che, oltre a essere richiesti dalla eccezionalità del momento, hanno pure il magnifico pregio di essere legali e previsti dalla Norma fondamentale della nostra società, QUANDO? La miserabile e neghittosa vulgata che non ritiene che sia il caso, che ancora non sia giunto il momento, che è necessario attendere, che bisogna vedere, considerare, valutare, esaminare – e, nel frattempo, le famiglie che entrano nella povertà si contano sempre più a milioni – assomiglia in maniera così tragica da sfiorare il comico al racconto di Achille Campanile, nel quale la classe dirigente di uno Stato in guerra, che si trova nello stato di necessità di utilizzare una squadriglia di eccellenza, in grado di intervenire nei momenti estremi e, però così facendo, votata al suicidio, ne procrastina all’infinito la decisione, preoccupata dal pensiero di rimanerne poi senza e di non poterne più averne una. E così, non utilizzandola mai, finisce col perdere la guerra, mantenendo però sana e integra, la squadriglia che avrebbe consentito di vincerla. Tenersi pronti per un’ultima, definitiva necessità, conservare allo spasmo quel gesto decisivo che non ci sarà mai solo perché non lo si vuole compiere.
Cosa deve succedere ancora, prima che si possa dichiarare l’Italia in uno stato di crisi – non opportunità: vera e propria tragedia socioeconomica – tale da richiedere interventi estremi? Non bastano le diseguaglianze? Non basta il sistematico, maledetto e annoso ultimo o penultimo posto nelle classifiche più virtuose o anche solo vagamente progressiste e l’immancabile primo in quelle più deteriori? Non basta lo sfascio della scuola e della sanità pubblica? Non sono sufficienti lo stato delle periferie, la corruzione dilagante, l’invasione della criminalità organizzata in ogni ganglio della società e la vergogna del lavoro sempre più umiliato e umiliante? Infine, non è ancora il caso, pur con la devastazione della pandemia? Cos’altro ci vuole, che so, che la crosta terrestre si apra in due e tagli il Paese a metà?
Ma i mezzi non bastano e neppure la volontà: occorre un cambiamento di impostazione mentale, di approccio ai veri valori della vita, senza i quali la politica, anche nelle sue più nobili forme, non ha senso, non ha scopo, non ha futuro. Occorre un nuovo senso dello Stato, che venga concretato da donne e uomini che abbiano una visione di lunghissimo respiro, in luogo della miseria culturale diffusa pressoché in tutte le rappresentanze istituzionali odierni, personificata da individui la cui prospettiva, al meglio, arriva a lunedì prossimo.
Infine, bisogna cambiare i modi di valutare persone e cose che abbiamo intorno: gli interventi eccezionali, quelli che segnano un’epoca, non prevedono domande quali quanto costa, bensì quale sia il valore di quello che vogliamo fare: pensiero economico e sociale, non gretta bottega, quella stessa che ha portato il Paese dove si trova adesso.

Cesare Stradaioli

 

LA MATEMATICA E’ ANCHE UN’OPINIONE

La matematica è anche un’opinione.
Ci voleva – solo per coloro che non volevano né vedere né sentire – un evento naturale, inaspettato come un colpo sotto la cintura, per mettere definitivamente sotto gli occhi di tutti l’evidenza di un’impasse ormai non solo nazionale e locale ma anche diffuso a ogni livello. Il banco, come dice, sta per saltare: non per una scommessa spropositatamente vincente o perdente – a seconda dei punti di vista – ma perché non è più in grado di gestirne alcuna. Fuori dalla metafora, è bastato che uno Stato rallentasse, se non addirittura si fermasse in alcuni settori, perché risultasse chiaro come la progressiva commistione fra maggioranze ed opposizioni, la sistematica contraddizione e contrapposizione di ruoli fra le istituzioni, nazionali e locali e, infine, la quasi inarrestabile, cieca folle corsa al particulare, abbiano portato alle secche istituzionali.
Qualsiasi rappresentazione delle volontà e delle relazioni umane ha un determinato limite, diverso per ognuna e l’impressione è che il livello di faziosità, di tara antiscientifica (che meglio e più esattamente sarebbe il caso di chiama a-scientifica) e di vuoto comunicativo fra i vari settori della società civile si stiano innalzando in maniera inversamente proporzionale a quello della coesione sociale, in via di liquefazione in modo che non basta più definire allarmante. Non vedo alle porte un regime che possa richiamare stilemi fascisti: se mai e se possibile, vedo qualcosa di peggio, come per esempio una sommatoria di ragionamenti e contrapposizioni, che nella loro insensata dinamica circolare, come il motore in folle di una potente fuoriserie, girando a vuoto fanno solo rumore e non conducono da nessuna parte.
Non può più essere messa da parte l’ipotesi, su cui seriamente ma anche rapidamente riflettere, di una sorta di assemblea da non chiamarsi, per ovvi motivi, costituente, dato che una Costituzione già c’è, ma che fosse in grado prima di tutto di cementare intelligenze e forze che possano avere punti in comune e, successivamente, di elaborare poche – poche, qualcuna, una mezza dozzina: di più sarebbe un pasticcio senza costrutto – ma mirate e significative di quelle che vengono definite riforme, termine di cui è stato fatto un tale abuso da non avere quasi più credibilità. Forse mai come ora, nel corso della vita della Repubblica, il momento potrebbe essere più adatto e urgente. L’imposizione dettata dall’urgenza, se non altro, ha di buono che non offre altra scelta: là dove la ragionevolezza impone una strada, risulta anche più facile imboccarla.
Soprattutto su un punto e in merito a ciò è indispensabile non solo avere le idee chiare, ma convergere senza riserve di sorta, tanto quanto misero da parte le rispettive e notevoli riserve coloro che parteciparono alla stesura della Costituzione: non può, non deve essere una questione da cosiddette ‘larghe intese’. Non può, NON DEVE, coinvolgere tutti.
Detta in due parole: il centrodestra, questo centrodestra non deve farne parte. E può, non farne parte. Non tragga in inganno un sommario e superficiale esame delle percentuali di presenza nel parlamento a seguito delle ultime elezioni politiche del 2018: anzi, le si guardi con occhio largo e si faccia un confronto con quelle scaturenti dal referendum monarchia-repubblica del 1946, in stretta connessione con la formazione dell’Assemblea Costituente, unitamente alla situazione politica, sociale ed economica in cui versava il Paese.
Coloro che elaborarono e scrissero la Costituzione lo fecero in nome e per conto di un corpo sociale pressoché spaccato in due: tenendo conto del numero degli aventi diritto al voto, delle percentuali di coloro che effettivamente lo esercitarono e i risultati che ne sortirono, emerge come la Carta Costituzionale repubblicana entrò in vigore con quasi il 41% degli elettori contrari, coloro cioè che votarono per la permanenza della monarchia: e si trattò, va detto, di un voto altamente qualificato, con una cifra ben precisa e riconoscibile. Cittadini elettori che non solo continuavano a preferire un Casato squalificato, debole, infingardo, il cui ultimo rappresentante – che non aveva affatto regnato su quella che sistematicamente qualcuno vuole far passare come una parentesi storica, bensì in piena e lineare continuità con i suoi avi – si era macchiato di alto tradimento, passibile di fucilazione, non solo si voltavano dall’altra parte invece di guardare in faccia l’orrore e la vergogna della Repubblica Sociale, ma che non vedevano come la Monarchia nel nostro Paese fosse strettamente connessa con la genesi del fascismo e, in ultima analisi, del disastro che aveva poi portato a quel referendum: i meno obnubilati che lo notavano, non ne davano il sufficiente e conseguente peso politico.
E’ lecito affermare che quel 41% di italiani MAI avrebbe appoggiato e accettato non solo la forma repubblicana, ma anche i principi che sono insiti nella Costituzione quali, per nominarne pochi, l’uguaglianza fra i cittadini senza le distinzioni che sappiamo, il ripudio della guerra, la divisione e reciproca indipendenza dei poteri, il riconoscimento dei sindacati in luogo delle corporazioni, la dignità e il valore sociale del lavoro, l’abrogazione della pena di morte? Lo è, a pieno titolo: non di meno, questo non costituì una remora per coloro che, da diverse parti, da diverse esperienze, da diversi ideali, decisero di dare una svolta epocale al Paese, unendo le loro intelligenze. Agire era necessario, il momento lo richiedeva e non era possibile procrastinare una simile decisione, pena il disfacimento definitivo della struttura sociale di un Paese che andava ricostruito, a tutti i livelli. Incluso, fra i primi, il fatto di non escludere dalla vita sociale, economica e politica, quella percentuale di cittadini che si situarono dalla parte contrapposta ma, al contrario, riconoscendo loro piena – e, in taluni casi, perfino troppa – libertà di azione e pensiero.
Ne nacque una Costituzione, per dirla con la dicotomia elaborata da Gustavo Zagrebelsky, che ‘comanda’, differenziandosi in ciò da una Costituzione che ‘unisce’; in quanto quest’ultima è frutto della compresenza di forze amiche o, se avversarie, non irriducibilmente ostili l’una all’altra, mentre la prima nasce da una società in forte conflitto e che lo risolve con la prevalenza dei vincitori. Cosa fosse l’Italia del 1945 e quale la sua cifra, è perfino inutile ricordarlo, se dovessimo pensare – anche adesso – a quale forma sarebbe stata più adatta, se non quella poi realizzata, senza appunto alcuna remora a proposito degli sconfitti.
Per quale ragione una simile remora dovrebbe preoccupare oggi gli elettori e i loro referenti di una possibile maggioranza, compattata intorno a quella che, lo abbiamo detto, costituente non può chiamarsi, ma assemblea sì (o quello che vi pare, purché si faccia), dal momento che, allo stato attuale, la percentuale di cittadini italiani effettivamente votanti che ne sarebbe esclusa – dai lavori, non dai diritti – arriva a poco più del 27%, cioè un terzo in meno della percentuale sopra ricordata? Tanto più che il momento non pare essere proprio così meno grave di quello di 76 anni fa.
E cosa sono, cosa rappresentano oggi i partiti che si collocano a destra se non precisi programmi eversivi dei principi costituzionali? Non ne abbiamo avuto sufficienti esempi durante i governi berlusconiani, in tema di impunità, dileggio della giustizia, leggi ad personam, spregio della magistratura? Rappresentati da una masnada di mascalzoni che, guidati dall’odierna Presidente del Senato, letteralmente assediarono il palazzo di giustizia a Milano durante uno dei processi contro quello che il compianto Cordero chiamò per primo ‘Caimano’ – e che poi, vennero ignominiosamente ricevuti al Quirinale da quell’ex Presidente che non merita neanche di essere nominato, avendo scritto una delle pagine più vergognose della storia della Repubblica?
E quante volte, in poco più di un anno di governo nazionale (e in decenni di amministrazione locale) i rappresentanti della Lega e i loro alleati si sono espressi in senso liberticida e istituzionalmente analfabeta, solerti portatori di odio razziale, di discriminazione, di disumanità, di diseguaglianza, di volgari schifezze pseudodannunziane d’accatto e fuori tempo massimo, di un becero qualunquismo anarcoide non chiuso in sé stesso, bensì portato all’attacco dei principi della nostra Costituzione? Cosa dobbiamo ancora aspettare, cos’altro deve accadere o debbono fare, affinché sparisca ogni dubbio in merito alla loro affidabilità democratica?
A partire dal 1946 non furono pensati e decisi cambiamenti da poco; che la Repubblica fosse parlamentare e non presidenziale, che il capo del governo fosse presidente del consiglio dei ministri inter pares e non primo ministro accentratore di delega e poteri, che giustizia e forze armate fossero dotate di consigli superiori, che fosse istituita una Corte delle Leggi – pure se bisognò attendere anni prima che la Corte Costituzionale entrasse in funzione – che fossero disciplinati in ugual misura diritti e doveri, rapporti etico-sociali, la creazione delle Regioni, delle quali il Senato avrebbe dovuto essere la camera di rappresentanza, l’economia al servizio dell’interesse sociale, la progressività del prelievo fiscale, l’apertura al mondo e ai trattati internazionali, al fine di liberare l’Italia non solo dal giogo di una dittatura ma anche dal provincialismo e dall’isolamento culturale.
Come si è visto, in un clima di forte contrapposizione, ideale e soprattutto numerica e che, però, nel suo insieme talmente complesso e articolato da risultare di gran lunga più impegnativo delle modifiche che oggi andrebbero fatte con urgenza assoluta e  con una eventuale contrapposizione neppure paragonabile a quella di allora, tanto radicale e quasi inconciliabile era quella nata dal dopoguerra. Basta capirsi e basta volerlo. In fin dei conti si tratta, come pressoché tutte quelle che possono venire in mente a chi sia dotato di un minimo di ingegno, di attività umane: fattibili, dunque.
Poi, se lo si vuole, avrei l’ardire di suggerire quei due o tre cambiamenti, a mio modo di vedere indispensabili per potersi parlare di un vero cambiamento: abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione; totale riforma del titolo V, per ridare centralità – non solo metaforica – a questioni basilari come scuola, sanità e sicurezza; una legge elettorale rigorosamente ispirata al sistema proporzionale, visto il clamoroso per quanto, facilmente, annunciato e annunciabile già a suo tempo fallimento del maggioritario, sotto il profilo della rappresentatività. E tutto questo senza escludere dalla vita politica chi non faccia parte di questa modifica, tanto quanto non furono esclusi dalla partecipazione e dalla rappresentanza istituzionale coloro che fecero parte di quell’altra Italia, quella che NON scrisse la Costituzione e NON creò la democrazia che ci troviamo ad avere.
Fatte queste cose, potremmo cominciare: testa bassa e pedalare, avendo finalmente davanti uno straccio di futuro, quello che però spetta a noi di meritare. Partendo anche da una considerazione, primaria in questo momento storico: la consapevolezza che, a parti invertite, gli altri non esiterebbero un attimo, non a riscrivere la Costituzione, bensì ad archiviarla e senza scrupoli di sorta. Immaginare come ed entro quali coordinate sostituirla, sarebbe un esercizio di fantasia degno di un Philip Dick.
In questo senso, davvero la matematica è anche un’opinione.

Cesare Stradaioli

COSA INTENDEVO DIRE – risposta in forma di precisazione

Ho pensato di non essermi spiegato, nel mio ultimo post e quindi sono andato a rileggermelo, pure dopo averlo letto e riletto in precedenza, come faccio di solito, prima di mettere qualcosa sul sito. Come deve fare chiunque si rivolga pubblicamente a un indeterminato numero di persone.
Ebbene, dopo avere riesaminato, parola per parola quando ho scritto, dico che non mi pare di avere lanciato un allarme sul fascismo dietro l’angolo. E questo per il semplice motivo che, concordo in pieno, per quello che è stato e cosa abbia rappresentato fino al 1943, il fascismo è morto e sepolto.
D’altra parte, solo uno sciocco potrebbe pensare, 75 anni dopo, di intravvedere una qualsiasi forma politica, dotata di una certa base elettorale nonché di una notevole – chiamiamola pure così – forza persuasiva, che presentasse le medesime forme e coordinate del regime che prese il potere nel 1922: quelle forme, quelle coordinate sarebbero oggi improponibili, quanto meno in Europa, dove sarebbe impensabile anche un golpe dei colonnelli come accadde in Grecia nel 1967, con dittatura annessa e connessa.
Ho prospettato e proposto, nel mio intervento, un modo del tutto diverso di porsi nei confronti di quello che ho chiamato problema di igiene pubblica; per ricorrere al termine che ho usato, ‘liquame’, posso affermare senza tema di smentita che, al momento attuale, il trattamento e lo smaltimento delle acque cosiddette ‘scure’, non costituisca una emergenza: non di meno, ritengo di non incorrere neanche qui in alcuna smentita, se affermo che dialogare con la merda sia a) insensato, b) inutile e c) degradante per chi lo fa e, dunque, che non sia il caso di conferire dignità e rispetto a quella specifica materia organica. 
Peraltro, quanto al fatto che, in forme diverse, si prospetti una serissima problematica sociopolitica che, su questo dissento in maniera totale, non si presenta riservata a pochi pazzoidi facinorosi (allo stesso modo in cui il fenomeno della violenza negli stadi e fuori dagli stessi non sia certo un problema di quattro delinquenti che con lo sport non hanno nulla a che vedere, come ripetono scelleratamente presidenti di società e molti giornalisti), penso che sia il caso di fare ampie e approfondite riflessioni.

Certo che esistono i pazzoidi facinorosi: anzitutto, che in Europa non costituiscano un problema, io non andrei a dirlo alle 68 famiglie norvegesi i cui figli sono stati sterminati nel 2010 da un personaggetto più volte dichiaratosi nazista e, a sentirlo, tutt’altro che privo di intelletto e cultura. In secondo luogo, con retroterra ben più solido (e, per questo, molto ma molto più preoccupante di quattro bufali ignoranti, che probabilmente non hanno letto un libro in vita loro e, dunque, non sanno a cosa inneggiano quando inneggiano al fascismo), ci sono personalità anche accademiche, insegnanti, giornalisti e, sì, diversi politici che, per dirne qualcuna, si ostinano a negare l’esistenza della Shoah, che risollevano la testa a proposito delle cose buone che ha fatto il fascismo, che è ora di finirla col 25 aprile, come se fosse qualcosa capitato, per sbaglio, nel Mesozoico e cose del genere.
Ricordo, a titolo esemplificativo di quanto vado dicendo, come Gianfranco Fini, già presidente della Camera e dopo la scissione da Forza Italia addirittura ritenuto politico di ampie vedute e di sicura fede democratica, ebbe a definire Mussolini come il più grande politico italiano di sempre: correva il 1994, ieri l’altro.
In questo mazzo metto anche tutti coloro che, per sbadataggine, per conformismo, per ignoranza o volutamente, ogni qual volta scrivono e parlano sui mass media di Mussolini, fanno precedere al cognome il titolo onorifico di ‘duce’, spesso anche maiuscolo. Tutto fa brodo, tutto fa propaganda, tutto fa consenso elettorale.
A chi non ne fosse convinto, suggerirei caldamente di leggere ‘M’ di Antonio Scurati: è un testo di una certa lunghezza, ma a leggerlo ci si mette molto tempo non tanto per il numero delle pagine, quanto per le pause che quasi si è obbligati a prendere di continuo, riflettendo a quanto venga spontaneo paragonare, certo nomi e situazioni sono differenti, determinate situazioni di allora a quelle di adesso: Europa cinica e bara, odio verso gli stranieri, povertà, risentimento diffuso e indiscriminato, disuguaglianze economiche, coesione sociale in liquefazione, demagoghi tonanti e cose di questo tipo.
A tale proposito, vorrei chiedere a ciascuno di coloro che mi leggono, se per caso a scuola, abbiano avuto la fortuna di studiare a fondo il fascismo oppure (come è capitato a me e, ne sono convinto, a quasi tutti) se i programmi ministeriali di Storia di fermassero drasticamente al 4 novembre 1918. 
D’altronde, quella di non vedere alcuna traccia di fascismo, neppure rimodernato, suona sinistramente simile alla principale critica che Giuliano Ferrara muoveva alla magistratura e a una certa stampa quando, a proposito di Mafia Capitale, sosteneva di non vedere per le strade di Roma morti ammazzati o autobombe. Non li vedevo neanche io: purtroppo, la distonia stava nel fatto che fosse lui a voler vedere la mafia come quella che si presentava 30-40 anni fa e sbagliava di grosso la sua analisi. Succede, a essere faziosi. Cose del genere non succedono più e a parte il fatto che quando, a proposito di mafia o camorra, non si sente più parlare di stragi, regolamenti di conti e attentati a magistrati e forze dell’ordine, di solito ciò costituisce un bruttissimo segno, vale a dire che gli affari stanno andando alla grande, in ogni caso l’aggravante mafiosa è stata riconosciuta se non a carico di Massimo Carminati e la sua banda, a quella di Ostia.
Stiamo ancora aspettando un minimo sindacale di autocritica, da parte di Ferrara e dei suoi corifei.

Il senso è che non si sta certo presentando QUEL fascismo, QUEL regime, del tutto irrealizzabili in Italia oggi; in Ungheria e Polonia, non ci metterei proprio tutte le dieci dita delle mani, ma insomma non era quello che intendevo quando ho scritto l’intervento, bensì l’idea di dare un senso più pieno non solo alla semplice ricorrenza del 25 aprile (che molti non fascisti come Ignazio La Russa vorrebbero togliere alla Resistenza e intitolare ai caduti di tutte le guerre e non è neanche la peggiore cosa che si sente abitualmente dire in simili occasioni), ma a una mobilitazione culturale che formasse una seria opposizione a qualcosa che probabilmente ancora non c’è, ma che sarebbe da idioti aspettare che tornasse di nuovo, cento anni dopo, sotto altre spoglie, prima di dire “Oh madonnasantissima, come sarà potuto succedere?”. E’ una questione di precauzione, di prevenzione, sì di igiene pubblica: “E’ già successo, può succedere di nuovo” rispondeva Primo Levi a chi gli manifestava perplessità sulle suo pessimismo e penso di poter chiudere qui l’argomento.

[Non capisco, neanche alla ennesima rilettura, cosa c’entrino con il mio intervento le foibe – sulle quali, peraltro, ho già scritto poche settimane or sono – il dittatore coreano e i non meglio precisati ‘eredi di Fidel’, che poi sarebbero quelli che nel corso dei decenni hanno mandato centinaia di medici, studenti e laureati in scuole e università pubbliche e gratuite, in giro per il mondo a dare una mano – la chiamano solidarietà: io aggiungerei internazionalismo socialista – anche a New Orleans dopo Katrina e in Italia in queste settimane]

Cesare Stradaioli